Verbicaro, (Vruvëcàrë in Calabrese, Vervecàri in Greco Bizantino) è un comune italiano della Provincia di Cosenza in Calabria, facente parte del Parco Nazionale del Pollino.
Percorrendo la Tirrenica Strada Statale 18
verso Sud, provenendo da Santa Maria del Cedro, proseguendo, si varca il Fiume Abatemarco, e si scorgono sopra un poggio a destra i misteriosi ruderi del Castello di Abatemarco, appartenuto a vari Baroni Napoletani, e i resti di un Ponte-Acquedotto. Poco dopo, 7,5 km, si incontra a destra una strada che in 10,7 km portaa a Verbicaro. Si percorre la strada in un paesaggio collinare,
con alcuni chilometri di svolte, fino a giungere in vista, dall’alto, del Borgo alla base dello scenografico teatro dei primi Monti del Pollino: più
in basso dolcemente collinari e verdeggianti a prato, più in alto
brulli e rocciosi dalle cime arrotondate. Mi
fermo, per godere il paesaggio e scattare qualche foto al paese che si
estende lungo un pendio, scivolando con la zona moderna di palazzine che
si innalzano le une vicino alle altre, come canne d’organo, che
prepotenti si impongono allo sguardo, quasi spingendo giù le case
aggrumate del centro storico che resistono stringendosi l’un l’altra.
GENIUS LOCI (Spirito del Luogo - Identità materiale e immateriale)
Il centro storico, ormai parzialmente disabitato, piuttosto malconcio e trasandato, se pur pittoresco, costituisce per la sua configurazione caratteristica, topografica ed urbanistica, il primo e più significativo documento storico relativamente all'origine ed alla ragione stessa del paese. Le case addossate le une alle altre ed edificate a difesa e protezione, fanno ritenere che il primo nucleo abitato sia sorto in funzione difensiva. Paese di civiltà e cultura contadina, di legata al vino allo zibibbo e all’uva passa; da tempi remotissimi capitale del vino calabrese, ha vissuto una storia alternata tra gloria, ricchezza e povertà, tra onori e polvere. Gli episodi reiterati, distruttivi e desolanti provocati da epidemie di colera, segnarono i verbicaresi con migliaia di morti e l’ingiusto marchio infamante della ferocia e della criminalità, dove, in realtà, erano solo una storia di poveri contadini abbandonati a sé stessi, abituati a sopportare i soprusi dei «Galantuomini», che si puniscono attraverso l'antichissimo rito dei Battenti Flagellanti in cui uomini penitenti “segnano” le strade con le mani sporche del proprio sangue. Ma Verbicaro è anche paese pedemontano che vive del Parco del Pollino dell’antico pino loricato, fresco ed accogliente d'estate, quando accoglie sui suoi pianori e nei suoi boschi l'Autunno, con i boschi che si tingono di rosso e d'oro, l'inverno che rende le vette remote e severe, la primavera in cui l'acqua è la protagonista assoluta.
ORIGINE del NOME (Toponomastica)
Il Medioevale Vervicarium
(da vervex = montone), è menzionato nell'anno 1326 «Dominus Matheus de Bernicario». In dialetto Calabrese Vruvëcàrë e Vruvicaru, il toponimo latino *vervecarius "pastore, pecoraio" da vervex (verbex, berbex) "castrato": «βερβιχαρις» attestato come nome di persona nella zona di Oppido Mamertina, anno 1165 «Nicolaus Berbecaris» in Lucania. Altra ipotesi, "Vernicaio", così denominato
per la chiarezza dell'aria, «a vernante aere dictum» (secondo Gabriele Barrio, monaco e scrittore, che nel 1571 scrisse: «De antiquitate et situ Calabriae») La denominazione, quindi, potrebbe essere derivata dai luoghi
dove il borgo sorse, brulli, impervi e selvosi, abitati e frequentati
da pastori. Alcuni
storici identificano Verbicaro con l'Aprustum dei Bruzi o con Vergae, dal nome del paese di origine incerta. La denominazione di Verbicaro, quindi, potrebbe essere derivata, con fondatezza di ragione, secondo l'ipotesi etimologica, dai luoghi, dove il borgo sorse, brulli, impervi e selvosi, abitati e frequentati da pastori.
TERRITORIO (Topografia e Urbanistica)
E' paese agricolo di collina, a 428 metri
d’altezza, Borgo interno
della Riviera dei Cedri, facente parte del Parco Nazionale del Pollino Il centro storico è preceduto e nascosto da palazzoni e abusivismi di ogni genere che fa pensare al caso non peregrino, visto il territorio idrogeologicamente a rischio, di frane o terremoti, che provocherebbero crolli e vittime, per la precarietà costruttiva e le palesi violazioni delle norme. Un incubo di cemento, una violenta ferita nella bellezza ambientale e paesaggistica che circonda il paese.
Il Centro Storico, ormai parzialmente disabitato, piuttosto malconcio e trasandato, se pur pittoresco, costituisce per la sua configurazione caratteristica, topografica ed urbanistica, il primo e più significativo documento storico relativamente all'origine ed alla ragione stessa del paese. In rapporto alla sua configurazione topografica ne deriva che Verbicaro sia sorto come "Castello" che si estendeva dal Palazzo antico Baronale sino a Bonifanti. L'antico Palazzo Baronale conserva ancora il nome di Castello. Si vedono ancora le strutture di un paese rifugio: Mura di difesa con 3 porte d'accesso all'abitato. Le Case sono tutte di un solo vano, addossate le une alle altre ed edificate a difesa e protezione. Si può ritenere che il primo nucleo abitato sia sorto in funzione difensiva, quando, in epoca Medievale, le popolazioni rivierasche, per scampare alla malaria e alla violenza delle incursioni piratesche e dei Saraceni, erano costrette a ritirarsi nel retroterra, in luoghi alti ed impervi, più sicuri e più adatti alla difesa. Il Borgo, ristretto alle origini tra i naturali contrafforti rocciosi e i muraglioni protettivi di cinta, iniziò gradualmente a espandersi con il crescere della popolazione, diramandosi in agglomerati Rionali di case nella campagna circostante. Quando Verbicaro si estese oltre l'originario Borgo Medievale (tra 1400 e 1500), i Quartieri, allora nuovi, sorsero come un'Odierna Periferia, cioè costituito da tante abitazioni separate sorte senza un ordine Urbanistico preciso. Solo nel tempo, con l'aumentare della popolazione, anche in periferia le case sono state addossate le une alle altre.
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Parco Nazionale del Pollino
Verbicaro è uno dei 56 Paesi del Parco (Comune parzialmente nel Parco con centro abitato interno al Parco); fresco e accogliente d'Estate, quando accoglie sui suoi pianori e nei suoi boschi visitatori fuggiti per qualche ora dalle spiagge, merita una visita in ogni momento dell'anno: l'Autunno, quando i boschi si tingono di rosso e d'oro, l'Inverno che rende le vette remote e severe, la primavera in cui l'acqua è la protagonista assoluta.
Il Parco è noto per la natura incontaminata che caratterizza i luoghi Montani come della Catena Costiera, e quindi partendo appena sopra l'abitato, sino ai picchi del Pollino, iniziano posti meravigliosi, raggiungibili solo a piedi, dai quali è possibile vedere contemporaneamente il Mare Tirreno e il Mare Jonio. Per la posizione che occupa e per le tante vie di accesso che da qui si dipartono verso il cuore dell'area, Verbicaro può essere considerato la principale porta occidentale del Parco del Pollino.
Il Parco Nazionale del Pollino, 196 mila ettari di Patrimonio Naturale e Culturale, sottoposto "ad uno speciale regime di tutela e di gestione", l'area protetta più grande d'Italia, dal 2015 patrimonio dell'UNESCO. Ne fanno parte 56 Comuni, 32 dei quali appartenenti alla Regione Calabria e 24 alla Basilicata. Comprende oltre al Monte Pollino anche i Monti di Orsomarso in Calabria e il Monte Alpi in Basilicata. Costituisce quadri di vita unici nella loro bellezza e autenticità, nel valore della loro storia, delle loro memorie, delle loro tradizioni, della loro cultura autoctona. E' un componimento di beni, che si possono godere come servizi resi dalla natura conservata, tutelata e valorizzata; che si possono fruire con rispetto, educazione e sensibilità e con profonda conoscenza della loro qualità. A chi lo raggiunge, offre selvaggi paesaggi rocciosi, forre e canyon di straordinaria suggestione, ovattate Faggete e Pini Loricati abbarbicati ai pendii più impervi, il volo elegante dell'aquila e le tracce del lupo.
Il simbolo del Parco Nazionale del Pollino è un albero: un grande, secolare e contorto Pino Loricato (Pinus leucodermis), pianta di straordinario interesse e fascino. Il suo nome scientifico, "Pinus leucodermis" significa letteralmente "pelle bianca" per il caratteristico colore bianco argenteo che assume il tronco degli alberi ormai morti. La corteccia degli alberi più vecchi che è spessa, scura e fessurata costituita da grandi placche grigio-cenere romboidali, quadrangolari o pentagonali ricorda la lorica, l'antica corazza a scaglie dei legionari romani; da questa è tratto il nome volgare della pianta "Pino Loricato". Ciò che più colpisce in questo straordinario vegetale è il tronco: tozzo, massiccio, contorto; mostra orgoglioso i segni delle continue furiose battaglie con i venti feroci delle cime, con le nevi e le folgori. Il portamento delle piante isolate è plasmato dalle intemperie, si presenta spesso "a bandiera" con la chioma tutta da un lato nella direzione prevalente del vento, col risultato che i pini sembrano emergere, forti e possenti, ma contorti e tormentati, dalle rupi impervie su cui sono abbarbicati. E' estremamente longevo: molti esemplari superano i 900 anni. Da secoli sostiene una lotta titanica contro il "Faggio", albero forte e invadente che lentamente ha spinto il pino sempre più in alto. Gli alberi ormai privi di vita, senza corteccia, con tronchi chiari quasi bianchi non sono solo resti inanimati e suggestivi di alberi in qualche caso millenari, ma rimangono vere e proprie sculture, testimoni muti della storia naturale del Parco. Nel Parco Nazionale del Pollino si trova il pino più antico d'Europa; un Pino Loricato la cui età è stata stimata al radiocarbonio in 1.230 anni da ricercatori dell'Università della Tuscia, che, nonostante l'età, oggi ha ripreso a crescere. E' in una località a pochi metri dal confine con la Basilicata, su un pendio roccioso molto scosceso, al riparo da incendi e fulmini, a quasi 2.000 metri di quota, posizione strategica che gli ha permesso di sopravvivere alla Natura e alla mano dell'uomo per oltre un millennio. Scoperto nel 2017 a seguito di una ricerca condotta dal Parco Nazionale del Pollino in collaborazione con L'Università della Tuscia, è stato chiamato «Italus» in memoria del Re di Enotria che governava questa regione a cavallo tra l'Età del Bronzo e quella del Ferro.
E' alto più di 10 metri e con un diametro di 160 cm; poco in confronto ad altri esemplari monumentali, ma la sua età supera di quasi 200 anni il record di Adone, un pino della stessa specie scoperto nel 2016 in Grecia. La scoperta dimostra che alcuni alberi sono in grado di vivere per secoli anche quando sottoposti a cambiamenti climatici estremi. L'antico pino sarebbe germogliato, ad esempio, in una fase particolarmente fredda del Medioevo e sarebbe poi cresciuto nel corso di anni molto più caldi e siccitosi. Italus è in grado di rigenerarsi, tanto che chi l'ha scoperto ha notato una sostanziale ricrescita negli ultimi anni, a conferma della genuinità e della purezza dell'ambiente in cui vive. Sul Pollino, a cavallo tra Basilicata e Calabria, il team di ricercatori dell'Università della Tuscia ha anche scoperto i Faggi più antichi d'Europa - 2 alberi datati oltre 620 anni -, in una Faggeta vetusta in località Pollinello, all'interno del Parco.
ITINERARI e LUOGHI (Culturali, Turistici e Storici)
La caratteristica delle Case del Centro Storico di Verbicaro sono le scale esterne che collegano un piano ad un altro. Esse sono, nella maggioranza dei casi, aggiunte alla struttura originaria solo con l'aumentare del numero dei piani che (come d'abitudine in Calabria) aumentavano con il crescere della famiglia, per consentire ai figli sposati di continuare a vivere vicino ai genitori e così ai figli dei figli. Dal pian terreno originario si arrivava così, nel tempo, ad avere anche 2 o 3 piani, collegati da scale esterne. I Condomìni sorti nei Quartieri Nuovi, Palazzoni anche di 5 o 6 piani, hanno anch'essi un'analoga spiegazione.
Chiesa di San Giuseppe Si trova subito all'esterno dell'antico Borgo. I lavori di costruzione ebbero inizio il 31 Ottobre 1897. Fu aperta al culto nel 1922. Decorata di Stucchi e adornata in alto al centro, su un Pinnacolo, dalla statua di San Giuseppe e lateralmente dalle statue di Gesù e Maria. In memoria dell'antico Convento dei Domenicani si conserva il vecchio Portale in pietra dell'antica Chiesa di San Domenico, che sorgeva accanto al Convento, demolito nel 1930 per la sua malferma stabilità. Al Santo è devota una Confraternita che si occupa non solo della Festa del Compatrono Verbicarese, ma anche dell’organizzazione delle altre feste votive, come accade nella famosa Processione dei Misteri conosciuta per la sua caratteristica rappresentazione e per il rito dei «Battenti» che ogni anno attira fedeli e curiosi da ogni luogo.
Porta per Bonifanti Di epoca costruttiva dell'anno 1000, è una delle 3 Porte d'Ingresso al Borgo Medievale (le altre 2 sono situate in via Pampanara e via Orologio). Le Case erano circondate da alte Mura, l'accesso avveniva attraverso 3 porte che di notte venivano chiuse per difendersi dalla violenza delle frequenti incursioni piratesche e Saracene, molto frequenti tra l'ultimo scorcio del primo millennio e gli inizi del secondo. La conformazione Urbanistica del primo Centro Storico, caratterizzata da un agglomerato di modeste ed anguste case, costruite in parte a strapiombo sulla roccia, addossate l'una all'altra, fa ritenere che il paese sia sorto in Epoca Medievale Barbarica, quando le ragioni sociali di una difesa collettiva da possibili aggressori, prevalevano sulle altre ragioni di comodo privato. I primi abitanti, perciò, dovettero essere i Militi addetti alla difesa del Castello, i profughi delle Contrade Rivierasche e qualche famiglia di Contadini e di Pastori, che avevano interessi nelle vicinanze. Scale pavimentate in pietra e dedali di Vicoletti si inoltrano nella parte più antica del paese. Nell'intrico di strette Viuzze e di Case che sembrano nascere dalle rocce, si possono ammirare splendidi Portali in pietra, opera degli Scalpellini locali e frutto di quella Architettura spontanea di origine Contadina; si scoprono piccoli capolavori: balconcini, finestrelle, supporti, cornicioni di stili e fogge diverse che insieme formano un tutto armonioso che sa di altri tempi.
Torre dell'Orologio Situata a Bonifanti, la parte più antica del paese, è opera di Maestranze locali, molto caratteristica e dall'aspetto dominante, un tempo ospitava l'Orologio Civico. Percorrendo i Vicoletti di Bonifanti, si può notare il particolare stile architettonico delle Case, addossate le une alle altre anche per esigenze statiche, sorgendo sulla roccia. E' possibile anche osservare, alla base di alcune costruzioni, i colpi di scalpello sulla pietra, con i quali è stato creato lo spazio del Vicoletto.
Portale di Via Giardino I Portali esprimono i valori originali della Cultura del Luogo; l'uso dei materiali che li costituiscono (la pietra, lo stucco, il legno, i mattoni, il ferro) e con essi la tecnica costruttiva, testimoniano il valore delle maestranze professionali (lo scalpellino, lo stuccatore, il falegname, il fabbro ferraio). Percorrendo il Centro Storico troviamo altre testimonianze e notiamo anche il diverso stile delle Case rispetto a quelle più antiche di Bonifanti.
Vico Vignale E' uno dei posti più caratteristici del Centro Storico, con una suggestiva roccia ai piedi della quale si trova un'Antica Fontana con motivi decorativi a bassorilievo, fiancheggiata da una scalinata in pietra. Popolarmente indicato come «u vich'i ddacciprieviti» perchè in una di quelle case ha vissuto l'Arciprete Don Francesco Cava.
Fontana Vecchia e Vecchio Municipio La Fontana Vecchia (1816) situata nel cuore del Centro Storico, nel tempo è stata Fontana Pubblica e Lavatoio. Era costituita da 5 Mascheroni in marmo che formavano i boccagli della Fontana (oggi ne sopravvive soltanto uno), con ferri murati per l'appoggio delle Lanterne e delle nicchie ricavate nella muratura per il Sapone. Le pareti risultano completamente decorate da Affreschi, che nel tempo erano stati ricoperti da intonaco. Una vecchia Iscrizione, appena leggibile, è posta sul Portico della Fontana: «Cives Universitatis donum Blasio Ruggiero date gloriam qui costruendam Sindicus Curavit - MDCCCXVI» e sta ad indicare che nell'area sovrastante, dai primi del 1800, aveva sede l'Amministrazione Civica. La stessa sede fu adibita a Municipio dopo la costituzione del Comune, per cui tutt'ora viene indicata come Vecchio Municipio.
Chiesa Madre dell'Assunta Del 1500,sita in Piazza Vittorio Emanuele, ampliata dalla parte Absidale, l'attuale Chiesa risale alla seconda metà del 1800 e tra il 1880 e il 1888 fu demolito il vecchio edificio, a causa dei movimenti franosi, e sui suoi resti fu costruito il nuovo. A seguito degli ultimi lavori di consolidamento e ristrutturazione (1998), sono tornati alla luce i resti della vecchia Chiesa; sotto il pavimento, sono emerse le basi di 3 Pilastri e una buona parte del Pavimento della Navata centrale del vecchio edificio (circa 90 m²) dove una scritta indica cla data di restauro (1827). Sul Pavimento sono state trovate le Lapidi di 13 sepolture, 2 delle quali riportano un'epigrafe: una del Notaio Nicola Cava del 1802, l'altra del Medico Pietro Ricci del 1827. La Chiesa ha una Facciata stilisticamente armoniosa, di tipo classico, completamente in pietra, anche se poco visibile e godibile perché soffocata dalle Case dirimpetto, nella prospettiva esterna, dalla ristrettezza spaziale del Sagrato. Sulla Facciata, nella parte centrale, si trova l’ingresso con Portale realizzato in pietra locale e, su ciascun lato, 2 grandi Lesene delimitanti una grossa nicchia vuota. L'interno è ad un'unica ampia navata, con 4 grandi cappelle laterali su ciascuna fiancata; varie statue in legno e cartapesta, una tavola dipinta raffigurante la Madonna con Bambino e Santi in preghiera, e 2 Organi lignei. Nella Sacrestia sono conservati preziosi Paramenti in seta e oro del 1600, Oggetti Sacri vari del 1500, una Croce astile (simile a quella da altare ma invece di avere una base, è in genere fissata ad un'asta decorata o dipinta ed è alta circa 2 metri) in argento di pregevole fattura e un Messale Romano, ambedue del 1600.
La Chiesa delimita da un lato quella che per secoli è stata la Piazza principale di Verbicaro, il luogo in cui si è svolta la vita civile del paese, chiamata ancora oggi «a Chiazza», senza ulteriori specificazioni, intorno alla quale ha avuto tra i suoi edifici, anche le Carceri, ricordate da un'antica lapide: «A.D. 1825 Astricti crimine conspicite, et perhorrescite hic intus vel cito vel sero luetis poenam, integri vero vitae, scelerisque puri Blasio Rugiero plaudite non sine cujus syndici maxima cura iste aedificatus carcer». Furono costruite nel 1825 dallo stesso Sindaco a cui si deve la Fontana Vecchia e in seguito sono state adibite ad abitazioni private, come tanti altri Edifici Verbicaresi.
Madonna del Carmine Fu costruita, in località Pampanara, consacrata nel 1897. Prima della costruzione della Chiesa, nello stesso luogo, esisteva un grosso Mortaio di pietra che serviva per la lavorazione della polvere da sparo; si ritiene che sia stato ricavato, quando entrarono in uso le armi da fuoco, cioè in epoca posteriore alla costruzione del "Castello", fornito di petriere e saettiere, che erano i mezzi di difesa del periodo dell'Alto Medioevo; distrutto verso la fine del 1800 per fare luogo alla costruzione della Chiesa. All'interno la Statua in Cartapesta della Madonna del Carmine.
Chiesa Madonna della Neve E' una Chiesetta dedicata a Santa Maria ad Nives che costituisce il più antico monumento storico del paese. Di piccole dimensioni, modesta nella sua sobrietà architettonica, a pianta rettangolare e ad unica navata, ma piacevole per la sua posizione alpestre, in cima alla roccia, da dove si domina l'ampio paesaggio vallivo tra Verbicaro e Grisolia, si raggiunge attraverso un dedalo di viuzze strette. L'entrata è laterale; l'interno è ornato da affreschi di Santi e Madonne del 1500. Alle spalle dell'Altarino, sul lato sinistro, si trova un Affresco raffigurante San Marco e San Leonardo, commissionato da Donna Domenica De Donato nel 1539 (data e committente indicate nella scritta: «Hoc opus f.f. Donna Domenica De Donato Damel.. MCCCCCXXXVIIII»). Una curiosità: in precedenza era datato al 1400, in quanto l'iscrizione della data era visibile solo parzialmente "MCCCC". Sulla parete di fronte alla porta d'ingresso è visibile un ciclo di Affreschi riferibili ai 1300-1400: Santi e Madonne con Bambino. Infine, vi è una piccola Statua lignea di antica fattura artigianale raffigurante la Madonna in trono con Bambino.
Chiesetta della Madonna del Loreto E' impropriamente denominata così; in realtà si tratta di una Chiesetta di "Rito Bizantino": infatti, non a caso, tutti i verbicaresi indicano la Chiesetta come «a Madonna u rito», del "rito" per l'appunto Bizantino.
«Racconti di Viaggiatore» (citazioni da libri del Grand Tour en l’Italie)
"Quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno 15.000 chilometri quadrati di argilla verde con riflessi viola. Il Signore promise a se stesso di farne un capolavoro e la Calabria uscì dalle Sue mani più bella della California e delle Haway, più bella della Costa Azzurra e degli Arcipelaghi giapponesi. Diede alla Sila il pino, all'Aspromonte l'ulivo, a Rosarno l'arancio, a Scilla le Sirene, a Bagnara i pergolati, allo scoglio il lichene, all'onda il riflesso del sole, alla roccia l'oleastro, a Gioia l'olio, a Cosenza l'Accademia, a Catanzaro il damasco, a Reggio il bergamotto, allo Stretto il pescespada. Poi distribuì i mesi e le stagioni alla Calabria. Per l'inverno le fu concesso il sole, per la primavera il sole, per l'autunno il sole... A gennaio diede la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia con l'uovo, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il ficomelanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il ficodindia, ad ottobre la mostarda, a novembre la noce a dicembre l'arancia. Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messe pingui, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante..." (Leonida Repaci)
"... fece conoscenza con uno straniero, un tedesco, il quale veniva da un viaggio a piedi nell'Italia meridionale. Che cosa facessero quei viaggiatori, che penetravano nei paesi più remoti della Calabria e della Sicilia, non si sa; dicevano di compiere studi di geologia o di parlate dialettali, e all'apparenza era vero perché molti venivano a visitarmi nella biblioteca comunale per chiedere documenti e libri di storia della regione, e dopo qualche tempo mi mandavano dai loro paesi le pubblicazioni in cui avevano dato conto delle loro ricerche ... Questo tedesco, Bohem, mi raccontava spesso dell'ospitalità, sconosciuto, straniero, in una casa dove non gli chiedevano neppure chi fosse, e dove era alloggiato alla meglio in una stanza accanto al cassone della biancheria e dei tesori di famiglia, e le ceste e le casse delle riserve alimentari. Egli era colpito non soltanto di una così buona fiducia, ma della civiltà degli abitanti di luoghi così remoti, giacché le famiglie migliori del paese si facevano un dovere invitarlo, una volta per una, a un pasto dove le donne non comparivano mai, e gli uomini tiravano fuori discorsi stupefacenti per la loro informazione delle cose del mondo. Erano spesso informazioni non aggiornate, ricavate da libri vecchi di cinquant'anni, ma in questi limiti esatte e vive; nella solitudine e distanza dal mondo, le persone e le città e i popoli conosciuti attraverso quei libri acquistavano una vita singolare, e le persone, nonché i personaggi che occupavano allora la scena della storia, un'esistenza piena di carattere, e di un carattere cui spesso suppliva la fantasia di quei lontani meridionali."
(Da "Mastrangelina" di Corrado Alvaro)
"Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna
e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi
magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e
invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti,
amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza
conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di
chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare
lenti é incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi,
agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi
dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada,
bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a
confondersi al cielo. E' suscitare un pensiero involontario e non
progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il
pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra
mente e mondo." (Da "Il pensiero meridiano" di Franco Cassano)
Calabria
"Ti amo Calabria per gli assorti silenzi delle tue selve che conciliano i sogni dei pastori e le estasi degli eremiti. Ti amo per quel fiume di alberi che dalle timpe montane arriva ai due mari a bere il vento del largo frammisto all'aroma del mirto. Ti amo per le solitarie calanche chiuse da strapiombi di rocce che prendon colore dell'alga nata dallo spruzzo dell'onda. Ti amo per le spiagge deserte bianche di sole e di sale dove fanciulli invisibili sorelle di Nausicaa corrono sul frangente marino i piedi slacciati dai sandali. Ti amo per la fatica durata a domar le montagne, a bucarle, a intrecciarle a festoni di pergola, a cavarne grasse mammelle di moscato d'oro per mense di dei. Ti amo per l'aspro carattere fortificato da solitudini secolari, bisognoso di poche essenziali parole mai vacillante davanti alla congiura dei giorni. E un giorno non troppo lontano unito a te nella zolla sarò anch'io Calabria, sarò il fremito dei tuoi alberi, il murmure della tua onda, il sibilo dei tuoi uragani, il profumo delle tue siepi, la luce del tuo cielo. Si dirà Calabria e anch'io sarò compreso in quel grande e immortale nome, anch'io diventato un ulivo dalle enormi braccia contorte spaccate dal vento dei secoli, anch'io sarò favola al canto che sgorghi improvviso come acqua dal sasso dalle labbra di un giovinetto pastore dell'Aspromonte, davanti al fuoco ristoratore di un vaccarizzo odoroso di latte e di redi nella lunga notte invernale." (Leonida Repaci)
"Come l'anima di ogni luogo naturale anche l'anima del Pollino non è descrivibile. Ne avverti soltanto la presenza nell'insieme armonioso e struggente delle luci e dei suggestivi colori di albe e tramonti, nelle voci arcane e senza tempo delle acque e del vento, nelle misteriose atmosfere di particolari momenti." (Giorgio Braschi)
DIALETTO
Gerhard Rohlfs, figlio di un vivaista, durante la sua infanzia, si divertiva a imparare a memoria nomi di piante ed animali e già, nei suoi primi anni di vita, era amante della natura; studente liceale a Coburgo, abbinava allo studio lunghe scampagnate in cui andava a caccia di piante rare, sassi, serpenti e lucertole.
Chiamato alle armi nella Prima Guerra Mondiale e visitò alcuni Campi di Prigionia, dove fece una scoperta che doveva segnare tutta la sua vita di studioso: si rese conto che i prigionieri italiani, parlavano numerosi dialetti. Il suo primo impatto con il Dialetto Calabrese, nelle sue diverse declinazioni fu proprio in un campo di prigionia dove ebbe modo di ascoltare alcuni giovani, scambiandoli in un primo momento per Greci.
Provenivano da quell'area montuosa del Reggino detta Bovésia (Grecanica), dove il Greco era ancora una lingua viva, una incredibile sopravvivenza che alcuni studiosi facevano risalire esclusivamente al Periodo Bizantino, in particolare al 900, epoca di forte Colonizzazione Monastica Basiliana. Alchè Rohlfs, teorizzò che si fosse in presenza di una trasmissione ininterrotta della Lingua Greca dai tempi della Magna Grecia. Fu questo uno dei più importanti esiti degli Studi di Glottologia e Dialettologia dell'Italia, a cui si sarebbe dedicato dalla fine della Guerra dopo aver abbandonato gli studi di botanica, ricevendo l'incarico di un ampio studio sui Dialetti dell'Italia Meridionale, che lo portò alla laurea con una tesi dal titolo«Griechen und Romanen in Unteritalien» (Greci e Romani nel Mezzogiorno d'Italia - pubblicata nel 1924). Da allora ebbe una passione per le Lingue Romanze, per i Dialetti Italiani ed in particolare per quelli con influenza Greca: i Dialetti Calabresi e Salentini.
I viaggi hanno avuto uno speciale ruolo nei suoi studi; le ricerche dialettali, amava dire, si fanno "coi piedi" oltre che con la testa. Rohlfs dà molta importanza al rapporto tra la lingua parlata associata al contesto, il Contesto Antropologico: «La lingua non è solo un mezzo di comunicazione ma un elemento che caratterizza la cultura di chi quella lingua ne fa uso». Da questo nascono i suoi numerosi studi sul campo, il conoscere le persone, i luoghi, gli strumenti di lavoro, le relazioni, le piccole storie, immortalando questi scorci di vita attraverso la fotografia.
In Calabria Rholfs viaggiò dal 1921 al 1983, sostando in 365 paesi, frequentando le Osterie dei piccoli centri, familiarizzando con gli Abitanti, per conoscere dal vivo le particolarità della parlata locale.
Usanze, parole, proverbi, giochi, cognomi, soprannomi, frasi idiomatiche, strutture sintattiche: in 65 anni di indagini, tutto viene passato al setaccio, registrato, catalogato, studiato e fotografato.
Fotografare, per Rohlfs, significava andare oltre la parola, fermare un modo di vivere, cogliere il silenzio interiore, la verità di una condizione umana. Un "Archeologo delle Parole” che ha lasciato oltre 700 scritti, 15 dei quali esclusivamente dedicati alla Calabria, tra questi, riveste una particolare importanza il trittico costituito da: «Dizionario Dialettale delle Tre Calabrie» (1932-1939) - «Dizionario Toponomastico della Calabria» - «Dizionario dei Cognomi e dei Soprannomi della Calabria» edito
da Longo editore, pubblicato la prima volta nel 1979; successivamente
ebbe 2 ristampe, una nell'ottobre del 1986 e una nel settembre del 1993, che riporta la seguente Dedica dell'Opera: «Alla gente calabrese dai molteplici nomi e soprannomi dai diversi dialetti ai calabresi che ha incontrato con simpatia e amicizia nelle antiche e nuove peregrinazioni in terra di Calabria dedica quest'opera di appassionata ricerca linguistica Gerhard Rohlfs berlinese viaggiatore ed ospite in Calabria tra il 1921 e il 1978» (Gerhard Rohlfs, 1932)
Altre opere di Gerhard Rohlfs sui suoi studi in Calabria:
«Vocabolario supplementare dei dialetti delle tre Calabrie» (1966-1967) - «Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti» in 3 volumi (1966-69, 1970) - «Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia» (1972) - «Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria» (1977).
Di tutti questi libri la Calabria può andar fiera, in quanto Rohlfs difese sempre il prestigio della Regione. Nel 1921, ad esempio, dopo essere giunto nei pressi di Cosenza, avendo potuto constatare il contrasto tra la pessima fama e la reale situazione del vivere civile dei calabresi, così scrisse in un articolo apparso in Germania:
«Calabria!
Quali foschi e raccapriccianti ricordi non si destano in Germania al pronunziare del nome di questo estremo ed inaccessibile nido del brigantaggio!
Quale ripugnanza ed orrore non persistono tuttavia, anche a Milano e a Roma, per questa terra famosa, dolorante e malnata; così miseramente ed ingiustamente dallo Stato negletta… In questa Terra infiltrata della cultura di parecchi secoli, e in cui tante nazioni si avvicendarono l'una dopo l'altra, ogni fiume, ogni pietra, ogni paesello annidato su di una rupe rappresenta qualche cosa piena di memorie storiche; e da tutta la superficie sua spira come un soffio di antico e venerabile tempo».
Gerhard Rohlfs, un illustre studioso che, più di ogni altro, amò la Calabria e i suoi abitanti; lo conferma la dedica apposta dallo stesso nel «Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria»:
«A VOI FIERI CALABRESI CHE ACCOGLIESTE OSPITALI ME STRANIERO NELLE RICERCHE E INDAGINI INFATICABILMENTE COOPERANDO ALLA RACCOLTA DI QUESTI MATERIALI DEDICO QUESTO LIBRO CHE CHIUDE NELLE PAGINE IL TESORO DI VITA DEL VOSTRO NOBILE LINGUAGGIO»
Il professore tedesco, raggiunse i centri sperduti calabresi col suo treppiedi in legno massiccio caricato a dorso di mulo, tra le impolverate stradine dei borghi, scattando le foto al grido di «fermi tutti, non respirate...», mentre il lampo della sua torcia al magnesio faceva sussultare gli astanti. Amò mescolarsi alla gente comune vivendo la sua disciplina direttamente sul campo. Il contatto diretto e prolungato con i Calabresi gli consentì di ribaltare molti luoghi comuni e falsi pregiudizi legati a questa regione che godeva di una cattiva fama: terra di briganti, ladri, assassini. In 62 anni, pur frequentando ben 365 paesi, i luoghi più remoti ed impervi di essa, Rohlfs non incontrò mai alcun problema, decantando il senso di ospitalità riscontrato nella gente umile e laboriosa di quei territori, fin dalla sua prima visita nel 1921.
Fu Socio Straniero dell'Accademia della Crusca dal 1955. Il 14 Luglio del 2002, in occasione dei 110 anni dalla sua nascita, il Comune di Badolato (vedi articolo), in provincia di Catanzaro, ha intitolato allo Studioso la Piazza antistante le Scuole Elementari del Borgo Medievale, collocandovi una targa che riporta: Gerhard Rohlfs - Glottologo - «Il più Calabrese dei figli di Germania». In Calabria, Gerhard Rohlfs ha ricevuto la Cittadinanza Onoraria dei Comuni di Bova (1966), Candidoni (1979) e Cosenza (1981) e gli è stata conferita il 13 aprile 1981 la Laurea Honoris Causa in Lettere dall'Università della Calabria. In suo onore la Città di Bova ha allestito, da ottobre 2012, una Mostra Multimediale dal titolo «Calabria contadina nelle immagini di Gerhard Rohlfs», visitabile presso Palazzo Tuscano, Centro Visita del Parco Nazionale dell'Aspromonte, in cui sono esposte le Fotografie scattate proprio dal filologo tedesco che, a partire dagli anni 1920, si è recato più volte sul luogo per effettuare delle ricerche sul dialetto Greco-Calabrese. Il 21 Maggio 2016 è stato inaugurato, sempre a Bova, il Museo della Lingua Greco-Calabra, che è intitolato proprio al grande glottologo tedesco.
Visse dando aiuto a non pochi bisognosi incontrati e morendo chiese ai suoi amici di non inviare fiori sulla sua tomba, ma sussidi economici per alcuni bambini dell'Italia meridionale.
ARTI & MESTIERI
Esiste una forma di Artigianato Artistico e di tradizione che testimonia ancora oggi la Storia e la Cultura delle genti locali. In passato hanno dato lustro al Paese, la lavorazione delle pietre grigie e molari, quella del legno, la costruzione di strumenti musicali, ma soprattutto l'arte della tessitura e la lavorazione della seta, esportata in tutta Europa fino alla seconda metà del 1600. Vi era una ricca presenza di mulini e molinari come anche taglialegna, falegnami e produttori di sedie perchè l'acqua e il legno rappresentavano quanto di meglio il territorio potesse offrire per lo sfruttamento dell'energia naturale. Nel passato da Monte Tavolato e dalla Mula, veniva trasportato a valle legno pregiato, che serviva per costruire remi, seggiole, carene. Generalmente gli uomini prestavano la loro manodopera presso le gualchiere dell'Abatemarco (gualchiera era un macchinario di epoca preindustriale, usato per lo più nella manifattura laniera, ma anche nell'industria della carta) o alla cardatura della lana, mentre alle donne era riservata la bachicoltura e la tessitura di stoffe. Si coltivava, inoltre, il lino per confezionare i capi di biancheria più fine e si macerava e lavorava la ginestra per i capi di biancheria più dozzinale; le stoffe venivano tessute a casa con i telai artigianali. Si utilizzavano telai orizzontali in legno di faggio, a 2 pedali per tele semplici e non meccanici, che venivano prodotti da falegnami locali, con materiale proveniente dal territorio. Pregevoli i lavori a ricamo ed uncinetto. Le produzioni in giunco, canne, salici ed i lavori di intreccio per creare cesti, "panari", "cannizze", così come gli intagli in legno e la stessa tessitura, sono attività ancora integrate nella vita e nel costume del paese.
ITINERARI e LUOGHI DELLA CULTURA (Musei e Biblioteche)
L'Eco-Museo del Vino e della Vita Contadina è situato nell'Ex Carcere di Verbicaro. E' un Luogo della Memoria Collettiva dei Verbicaresi, che raccoglie, conserva e valorizza la grande eredità culturale e storica degli antenati. L'Ecomuseo ha la finalità di valorizzare le diversità e le specificità del patrimonio culturale locale, i saperi, le tecniche, le competenze, le pratiche locali, i dialetti, i canti e le tradizioni gastronomiche con percorsi finalizzati alla fruizione ed alla comprensione di ambienti naturali e culturali da parte di turisti e/o visitatori. L'obiettivo verso il quale il progetto culturale tende non è quello di limitarsi ad allestire uno spazio circoscritto ma, dopo questa prima tappa, si cercherà di trasformare ogni angolo del paese in un luogo di interesse sul piano della memoria collettiva.
Nelle sale del museo sono esposti oggetti utilizzati un tempo nel processo di Vinificazione e nella Vita Contadina. Il Museo è dotato anche di un video con filmati sulle Antiche Tradizioni Locali, sul Museo ed il Comune. Le Sale sono caratterizzate da un "tema" (4 sezioni tematiche) che è spiegato nei Pannelli Informativi che le fanno da corredo. Prima Sala: la Storia, il Vino, il Valore Economico della Vigna, dal Palmento o Parmiento (vasca ampia e non troppo profonda utilizzata per la fermentazione del mosto) ai Catuvi (antiche cantine dove veniva conservato il vino); Seconda Sala: l'Ambiente, l'Uva, la Stipa e i Rituali Religiosi; Terza Sala: la Donna e le Macchine; Quarta Sala: la Rivolta del Colera (antica cella di isolamento durante il tragico episodio del colera del 1800 e 1900), la Casa e I Panacieddri.
E' possibile visitare gratuitamente l'Ecomuseo dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10:00 alle ore 13:00 tramite prenotazione.
Per informazioni contattare il Comune dalle 8:00 alle 14:00 al numero 0985 6139
ITINERARI DEL GUSTO - PRODOTTI DEL BORGO
Le Produzioni Agricole sono varie: dalle colture Cerealicole a quelle Ortive, a quelle della Vite e dell'Ulivo; nella conservazione dei prodotti, largamente diffuse sono: la lavorazione delle Olive trattate in vari modi, le Melanzane sott'olio, i Fichi secchi, l'Uva passita, ecc.
La maggior parte dei Verbicaresi sono proprietari di modesti appezzamenti di terreno in cui, quasi tutti vi praticano un'Agricoltura di Sussistenza, nella maggior parte dei casi integrata con altre attività.
La maggiore produzione è quella del Vino di Verbicaro che ha ottenuto la DOC nel 1995, rinomato in tutta la regione, conosciuto ed apprezzato fin dai tempi dei Romani. Per questo, Verbicaro è uno dei Comuni Calabresi aderenti all'Associazione Nazionale Città del Vino.
Verbicaro, insieme a Grisolia, Orsomarso, Santa Domenica Talao e Santa Maria del Cedro, sono i centri della Provincia di Cosenza dove si produce il famoso Verbicaro, l'unico Vino della Riviera dei Cedri a vantare l'etichetta DOC. Il Verbicaro è prodotto nelle tipologie Bianco, Rosso (anche nella versione Riserva) e Rosato. Questi i principali Vitigni di Uve Bianche: Ditella; Duraca di Santa Domenica; Malvasia; Messinese di Santa Domenica; Moscatella; Senese; Zibibbo o Duraca. Questi i principali Vitigni di Uve Nere: Castiglione; Dammaschina; Greca nera; Lacrima, Moscatella nera; Roia o ruggine
Quindi, da sempre ed ovunque quando si parla di Verbicaro si pensa subito al buon vino. Il clima particolare, la conformazione del territorio, la conservazione del Vino, hanno contribuito a rendere famoso nel mondo questo delizioso prodotto Verbicarese.
La natura dei luoghi favorì la coltivazione della Vite: 3 gli elementi che da sempre sono considerati importanti per la coltivazione dell’Uva: la luce, il calore e l’umidità. Essenziale è l’esposizione del terreno e la sua capacità di riscaldarsi. Per
questo la luminosità del periodo vegetativo giova alla produzione delle
Uve zuccherine di Verbicaro, mentre l’orientamento dei suoi terreni
collinari, esposti ad Ovest, garantiscono un maggior riscaldamento
rispetto a quelli in piano.
Si dice che già i Romani, nel periodo d'oro dell'Impero, facessero in questi luoghi cospicue scorte di questo prezioso nettare. Ha conservato negli anni la sua bontà e genuinità; i famosi «Catuvi» (cantine), custodiscono ancora il segreto della sua fermentazione e conservazione. Per molti secoli, la Civiltà Contadina ha conservato l'Arte della Coltivazione della Vite e della trasformazione dell'Uva secondo i metodi tradizionali. Oggi i ritmi della Vendemmia di un tempo sono solo un ricordo; l'arrivo delle moderne macchine ha modificato le tecniche di trasporto e di lavorazione delle Uve e la Vendemmia ha perso in parte il suo fascino. In passato l'Uva raccolta nei Vigneti veniva trasportata per mezzo di asini e muli nei «Parmienti» (vasche ampie e non troppo profonde utilizzate per la fermentazione del mosto) dove avveniva la spremitura dei grappoli, effettuata con i piedi scalzi. Il Mosto veniva raccolto in Vasche, mentre il succo residuo nelle Vinacce, veniva estratto per mezzo di Torchi muniti di una grossa vite in legno. Il Mosto, infine, veniva trasportato all'interno di Otri ricavati con pelli di capra e depositato nei «Catuvi», nelle botti di legno dove avveniva la fermentazione. L'attesa durava fino all'8 dicembre, Festa dell'Immacolata Concezione, data in cui tradizionalmente veniva assaggiato il nuovo Vino e che, ancora oggi, viene chiamata festa di "Perciavutti".
L’operazione di pigiare l’Uva con i piedi, era effettuata dallo «Scamacciatur» nel «Parmiento», una pratica ormai caduta in disuso, ma a Verbicaro non del tutto scomparsa, è considerata perfetta dagli Enologi, in quanto consente, a differenza della Pigiatura, ottenuta con la macchina, di graduare la consistenza del mosto, a seconda se si tratti di Vini Bianchi o Neri. All'interno del «Parmiento», inteso come locale, oltre alla Vasca larga e bassa in muratura, e alla Vasca più profonda detta fossa, trovano posto il torchio a vite, la pala in legno e l'otre. Quest'ultimo, simile, per forma e materiali alla Zampogna, strumento musicale tipico dei Pastori, veniva utilizzato per trasportare, con i muli, il mosto nel «Catuvu», locale in cui si tenevano le Botti. Oltre all'Otre, nei «Catuvi» si rinvengono una serie di oggetti e di strumenti, realizzati sfruttando i materiali poveri, che costituiscono le risorse del territorio. La produzione del Vino stimolava a Verbicaro la nascita di attività collaterali di tipo Artigianale per la produzione di barili, panieri di varie fogge, anfore, orci, vasi e "fiaschi" con le vesti in iuta, bottiglie e bicchieri di forme particolari, Botti e Tini, Damigiane e qualche sedia prodotta da Artigiani locali. Per quanto riguarda i materiali, oltre al legno, è significativa la presenza della Iuta, ricchezza spontanea e naturale del territorio che veniva utilizzata, oltre che per impagliare sedie e fiaschi, anche per riparare le botti che erano prodotte da Artigiani locali con Quercia e Rovere provenienti dai Monti circostanti. I «Catuvi» sono anche luoghi di ritrovo conviviale per gli uomini della Comunità, tra cibo, suoni di fisarmonica, brindisi e racconti.
La Coltivazione della Vite in Calabria risale ai Greci, i quali, fin dall'VIII secolo a.C., individuarono sui litorali dell'Enotria, ossia «Terra del Vino» come chiamavano questa regione, le zone vocate alla Vite e diedero impulso, con i loro Vitigni e con le loro pratiche enoiche, a un'ottima produzione. La Calabria offre, inoltre, le prime testimonianze di una imponente e organizzata esportazione del Vino verso Nord e Ovest. La Vite era una delle coltivazioni più diffuse e Verbicaro si attestò da subito come «Capitale Vitivinicola» del territorio tanto che il suo Vino era già decantato da Plinio e Strabone. In epoca successiva il suo vino venne denominato «Chiarello» e Papa Paolo III divenne un amatore di questo Vino fattogli conoscere dal suo Bottigliere Sante Lancerio. Alla metà del Secolo il Barrio scrive nel suo «De antiquitate et situ Calabriae» che "nel territorio di Cirella nasce un vino di mirabile qualità che a Roma è molto apprezzato". La Viticoltura in Calabria continua ancora oggi a rivestire un ruolo fondamentale per l'economia della regione, con un patrimonio di varietà locali e tradizionali dalle quali si producono vini di elevata qualità.
Come si Produce
La
metodologia produttiva utilizzata per la produzione del Bianco mira
all'immediata estrazione del succo dal frutto, in maniera che la
fermentazione riguardi solo la parte liquida. Nella Vinificazione in
Bianco sempre più frequentemente la pressatura è effettuata direttamente
su Uve intere, quando non precedentemente pigiate, per separare il
mosto dalle parti solide, riducendo al minimo la lacerazione delle
bucce. Alla pressatura segue l'allontanamento delle particelle in
sospensione o fecce, e la fermentazione del mosto pulito, a una
temperatura massima di 20° C. Si procede, quindi, ai travasi per il
definitivo illimpidimento del vino, il quale è, a quel punto, pronto per
l'imbottigliamento. La metodologia produttiva del Rosso può essere
definita come la vinificazione con la Vinaccia (costituita dalle parti
solide dell'Uva, bucce e vinaccioli) a contatto con il Mosto durante la
fermentazione, per estrarre parte delle sostanze in essa contenuta. In
sostanza, l'Uva viene pigiata e, nella maggioranza dei casi, diraspata,
quindi posta in speciali recipienti per la fase di fermentazione e
macerazione. Al termine della macerazione avviene la Svinatura, che
permette di eliminare dalla parte liquida le Vinacce, ottenendo così il
«Vino Fiore». A questo punto il Vino viene sottoposto a travasi per
eliminare le altre sostanze solide eventualmente precipitate, quindi
viene indirizzato all'affinamento e all'invecchiamento e infine
stabilizzato e imbottigliato. La metodologia produttiva del Rosato,
opera una fermentazione in bianco delle Uve Rosse, cioè senza
macerazione delle Vinacce, ma con il breve contatto con le Vinacce del
mosto fatto fermentare in bianco, dopo averlo separato dalle Vinacce. Trattandosi
di un tipo di Vinificazione adottata per l'ottenimento di «Vini Fini»,
occorrono pigiatrici diraspatrici che lavorino l'Uva con molta
delicatezza; il pigiato così ottenuto viene inviato nei «Fermentini»,
dove subisce una macerazione brevissima. Al termine di queste
operazioni il «Vino Fiore» viene separato dalle vinacce e sottoposto a
travasi, per separare la frazione limpida dalla feccia e per eliminare
le altre sostanze solide eventualmente precipitate, quindi viene
stabilizzato e, infine, imbottigliato.
Lo Zibibbo e l'Uva Passa
Sin dai tempi
antichissimi i Verbicaresi si sono dedicati a conservare l'Uva per
poterla consumare durante il periodo invernale. Lo Zibibbo veniva
trasformato in Uva Passa; la produzione e la commercializzazione dei
Passi, nell'Alto Tirreno Cosentino è attestata già nel 1600 da
Gioacchino da Fiore. Fino ai primi anni del 1800, l'Uva Passa,
spedita in sporte o barili, raggiungeva via mare, la Francia, la Svezia,
La Germania, l'Inghilterra, l'Olanda e in Italia Napoli, Roma, Livorno,
Genova, Venezia e Trieste. Dopo il 1860 la produzione, ricca e
pregiata, andò in crisi a causa della distruzione di numerosi Vigneti,
effettuata per consentire la costruzione della Linea Ferroviaria. Con
l'Uva Passa si facevano anche i «Panacieddi» (fagottini di foglie di
cedro con ripieno di uva zibibbo e pezzetti di buccia di cedro, legati
con filo di ginestra selvatica e cotti al forno) dei quali, la materia
prima è l'Uva Zibibbo di Verbicaro, molto ricca di zucchero e
scarsamente acida. I Grappoli d'Uva legati con un sottile spago,
infilati in un bastone, vengono immersi in una soluzione di acqua calda e
cenere di legno, la cosiddetta «Lissia», un tempo usata anche per il
bucato. L'essiccazione dei grappoli viene completata nello «Spannituro» tipico stenditoio Verbicarese. All'essiccazione
segue la diraspatura, e infine, la confezione dei «Passili», almeno
20, che vengono racchiusi in foglie di Cedro legati con rami sottili di
Ginestra e passati nel forno caldo. I «Panacieddi» fino alla metà del 1900 erano esportati in tutto il mondo. La
loro bontà era tale che colpì il palato e l'immaginario di Gabriele
D'Annunzio, al punto da portarlo a descriverli in un bellissimo
passaggio della «Leda Senza Cigno».
ITINERARI DEL GUSTO - CUCINA DEL BORGO
Nell'esigenza di recuperare sapori, profumi e tradizioni ormai in continua scomparsa, in questa zona dell'Alto Tirreno Cosentino, così ricca di storia e tradizioni culinarie, molte Pietanze Tradizionali continuano ad essere preparate con la stessa meticolosità di un tempo. Ricca è la Gastronomia di Verbicaro, a base di prodotti semplici della Tradizione Montanara. Ricca ed abbondante si presenta la varietà dei Primi piatti: i «Fusiddi» conditi con Sugo di Carne di Capra; «Lagani e Fasuoli» Tagliolini fatti in casa con Fagioli. Tra i Secondi abbiamo le «Vrasciole» (Involtini di Carne di Maiale), «Baccalà e Pipi Siccati» (Baccalà con Peperoni Secchi), «Pipi Mpajanate» (Peperoni Secchi mescolati con una Pastella di Farina, Acqua e Lievito), «Mijini» (Pane con Farina di Mais), Pane Bianco ed Integrale fatto in casa. Buonissimi anche i Formaggi: la Ricotta di Latte di Pecora nei «Custigni» (contenitori di giunco intrecciato a mano ed essiccato, che vengono ricoperti con foglie di felce, tenute insieme da un legaccio fatto di steli di ginestra), il «Ricottale» (Ricotta che viene salata e poi affumicata); e i Salumi: il Capicollo, le Salsicce, il Prosciutto, la «Vrina» (Pancetta). Da assaggiare sono anche i prodotti sott'Oliole Zucchine, le Melanzane ed i Pomodori, «i Cosi Siccati» (Zucchine tagliate a spirale ed essiccate al sole, utilizzate durante l'inverno con Patate e Peperoni Rossi macinati), i «Pipi Arrusckuati» (Peperoni Rossi fatti essiccare al sole e poi passati nell'olio caldo), le Olive Nere infornate e poi condite con Pepe Rosso macinato, Olio e Peperoncino. Tra i Dolci si segnalano «i Vuciddati» di Pasqua; «i Cannariculi» e «i Chinuli»: dolci preparati nelle Feste Natalizie, con ripieno di Castagne e ricoperti di Miele; «i Visquotti» (Biscotti Caserecci fatti a forma di Taralli cotti nel forno a legna), «i Grispeddi» (preparati con Farina, Sale, Patate e Lievito), «a Muddicata» (Sangue di Maiale con Cioccolato, Pane, Noci, Mandorle, Aromi vari e Zucchero).
I «Panacieddi», Fagottini di Foglie di Cedro con ripieno di Uva Zibibbo e pezzetti di Buccia di Cedro, legati con Filo di Ginestra Selvatica e cotti al forno. Per trasformare l'Uva Zibibbo in «Passili» (Uva Passa), bisogna seguire una lenta e paziente lavorazione, infatti, va dalla raccolta di Foglie adatte, nel periodo della potatura, all'essiccazione dell'Uva Zibibbo, all'intreccio dei fili di Ginestra ed allla giusta cottura nel forno a legna. La prima operazione è quella della «lisciviatura»: i grappoli d'uva appena raccolti vengono legati ad un bastone ed immersi per poco tempo in una soluzione di Acqua e Cenere (usata per disinfettare), in questo modo sugli Acini si forma un leggero strato che farà da disinfettante e li proteggerà tenendo lontano gli insetti. I Grappoli, una volta trattati, andranno poi essiccati appendendoli nello «Spannituru» (stenditoio), per completare l'essicazione. Gli Acini, grazie al trattamento subìto, riescono a mantenere un certo grado di umidità, lasciando inalterati i valori zuccherini. L'operazione successiva, è quella della «deraspatura» in cui gli Acini vengono tolti dal Grappolo e selezionati uno ad uno, lavati e posti nelle «Cannizze» (stenditoi realizzati con le Canne intrecciate) per farli asciugare. Una volta pronti, vengono messi su 2 Foglie di Cedro, aromatizzati con Scorzette di Cedro tagliate a pezzetti, avvolti con le foglie come fagottini e legati con Arbusti di Ginestra. Infine vengono cotti lentamente in forno aromatizzato con Legna di Cedro o di Vite e con l'aggiunta di Legni Odorosi a 120°, fino a quando le Foglie di Cedro esterne degli involtini non diventano rosolate. Il prodotto finito si presenta compatto, perchè il calore fa sciogliere lo Zucchero contenuto negli Acini.
I «Panacieddi» furono apprezzati anche da Gabriele D’annunzio che così ne scrisse nel 1916 in «Leda Senza Cigno»:
" … sorrido pensando a quegli involti di fronde compresse e risecche, venuti di Calabria che un giorno vi stupirono ed incantarono, quando ve li offersi sopra una tovaglia distesa sull’erba non ancora falciata … Gli involti erano di forma quadrilunga come volumetti suggellati d’un solitario che avesse confuso felicemente la biblioteca e l’orto. Ci voleva l’unghia per rompere la prima buccia … Ma ecco l’ultima foglia in cui è avvolto il segreto profumato come il bergamotto. L’unghia la rompe: le dita s’aprono e si tingono di sugo giallo, si ungono di un non so che unguento solare. Pochi acini di uva appassita ed incotta … pochi acini umidi e quasi direi oliati di quell’olio indicibile ove ruota alcun occhio castagno ch’io mi so, pochi acini del grappolo della vite del sole appariscono premuti l’un contro l’altro, con che di luminoso nel bruno, con un sapore che ci delizia prima di essere assaporato …"
CINEMA (Film girati a Verbicaro)
Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf(2001)
Briganti per Fame di Erika Ciampa
Trama: il film riguarda la nascita del termine brigante come sostantivo per indicare una categoria di persone che si opponeva con ogni mezzo alle ingiustizie del tempo.
La storia parte dal 25/01/1799, quando a Napoli venne proclamata la Repubblica Partenopea e in molti paesi vennero piantati gli Alberi della Libertà per simboleggiare gli ideali della Rivoluzione Francese.
La popolazione in molti paesini della Calabria tra i quali Verbicaro, prese la Repubblica come una rivalsa ed una rivincita alla fame ed alle ingiustizie che subivano da parte dei signorotti del tempo ma i nobili tuttavia non vedevano la venuta dei Francesi di buon occhio, in quanto temevano di perdere i loro privilegi e cercavano di far cadere la Repubblica istigando i cosiddetti “Birri” e banditi comuni affinchè muovessero sommossa contro il Regime Giacobino. Infatti nel Luglio 1799, il Cardinale Ruffo, riuscì a fronteggiare i Repubblicani con l’ausilio di un esercito della Santa Fede composto da Banditi comuni e Birri e fu, infatti, in questa occasione, che il termine Brigante fu introdotto dai Francesi, scesi in Italia Meridionale nel 1799, per indicare coloro che ad essi si opponevano.
Il primo tempo del film mette in risalto in particolare i fatti accaduti a Verbicaro e nei paesi limitrofi, facendo vedere l’invasione del Cardinale Ruffo che portò alla caduta della Repubblica ed alla condanna a morte di alcuni suoi sostenitori e membri del Palazzo Comunale di Napoli tra cui un Verbicarese, l’Avvocato Niccolò Carlomagno che venne condannato a morte per impiccagione il 13 Luglio 1799 e fu il primo di una lunga serie tra cui Luisa Sanfelice, Eleonora Pimentel Fonseca, Pasquale Baffi ed altri che pagarono con la propria vita i loro ideali repubblicani. Una volta caduta la Repubblica il Re Ferdinando IV di Borbone rimase sul Trono fino al 1806 quando ci fu una nuova invasione Francese e fu proclamato nuovo Sovrano il fratello di Napoleone Bonaparte, Giuseppe a cui succedette il Re Gioacchino Murat. Fu proprio nel cosiddetto periodo Murattiano che i Briganti ebbero il loro maggiore periodo di crescita, ed infatti si crearono squadre di Briganti filo-Borbonici che si resero conto del fatto che i Francesi fecero atti di crudeltà contro la popolazione Meridionale a tal punto da attuare violenze contro le donne e saccheggiare case di persone più abbienti. Molti divennero Briganti per opporsi a queste situazioni; altri, poichè facevano parte dell’esercito Borbonico, non si vollero unire ai Francesi, come ad esempio un famoso Brigante Scaleoto “Giuseppe detto il Necco”.
Ecco chi erano i Briganti, uomini che commettevano crimini per fame, altri che invece avevano fame di libertà, di giustizia e di uguaglianza, altri che invece vedevano nei Francesi dei nemici del Meridione e pur di vederli definitivamente fuori dalle proprie terre si univano anche a Baroni dell’epoca per combatterli. Infatti, nel 1810, anche i Baroni locali si resero conto dei pericoli che i Francesi rappresentavano per loro; uno di questi era la "Legge Di Eversione della Feudalità" che avrebbe visto la Nobiltà perdere parte dei loro privilegi a favore della gente comune. Per evitare tutto ciò, essi non persero tempo e scesero a patti con i Briganti, come successe anche a Verbicaro, quando Il Signor De Novellis, conduttore del Feudo medesimo, scese a patti con il Brigante Necco e con atti piuttosto crudeli uccisero molti soldati Francesi. Non mancarono, dall’altro lato, le risposte dei Francesi che tuttavia uccisero molti Briganti ed a Verbicaro per catturarne un numero più alto possibile occuparono la Chiesa di Santa Maria la Nova, ed uccisero molti Briganti della zona. La lotta al primo fenomeno di Brigantaggio ebbe un epilogo: i metodi del famoso Generale Manhès, che portarono il Re Gioacchino Murat, a emanare una legge, che dava al Generale Manhès il potere supremo nelle Calabrie, su ogni cosa militare o civile, al fine didistruggere il Brigantaggio. Così egli con metodi molto discutibili e barbarici sterminò gran parte dei Briganti delle Calabrie e delle Puglie, divenendo per loro il nemico numero uno.
In particolare questo film, racconta queste vicende soffermandosi su quello che in particolare è accaduto a Verbicaro, Grisolia, Orsomarso, Belvedere Marittimo ed altri paesi limitrofi. Il Film si conclude, infine, con la discesa in Calabria del Re Gioacchino Murat e la sua fucilazione a Pizzo Calabro. Queste vicende verranno analizzate dettagliatamente sull’impatto che hanno avuto nei nostri territori, ricordando gli uomini che le hanno vissute: in particolare il Barone Cavalcanti di Verbicaro, Il Principe Carrafa di Belvedere Marittimo, il Barone Brancati di Orsomarso, Il Barone Spinelli ed il Barone Cosentino di Ajeta, che hanno visto l’intrecciarsi delle loro vite con questi nuovi personaggi dell’epoca quali i Briganti, tra cui il Mescio di Verbicaro e Michelino di Orsomarso.
STORIA
Alcuni Storici identificano Verbicaro con l'Aprustum dei Bruzi o con Vergae. Il Centro Storico, ormai parzialmente disabitato costituisce per la sua configurazione caratteristica, Topografica ed Urbanistica, il primo e più significativo documento storico relativamente all'origine ed alla ragione stessa del paese, in difetto di particolari fonti di notizie; infatti, in rapporto alla sua configurazione Topografica, ne deriva che Verbicaro sia sorto come "Castello" che si estendeva dal Palazzo Antico Baronale sino al Quartiere Bonifanti, il che viene anche attestato dal fatto che l'antico Palazzo Baronale conserva ancora il nome di Castello. Si vedono ancora le strutture di un Paese Rifugio: Mura di difesa con 3 Porte d'accesso all'Abitato. Le Case sono tutte di un solo vano, addossate l'una all'altra, edificate a difesa e protezione. Si può ritenere che il primo nucleo abitato sia sorto in funzione difensiva, quando, in Epoca Medievale, le Popolazioni Rivierasche, per scampare alla Malaria ed alla violenza delle Incursioni Piratesche e dei Saraceni, durante il Periodo Bizantino, erano costrette a ritirarsi nell'entroterra, in luoghi alti ed impervi, più sicuri e più adatti alla difesa. Successivamente, il Borgo, in origine ristretto tra i naturali contrafforti rocciosi ed i muraglioni protettivi di cinta, cominciò gradualmente ad espandersi con il crescere della popolazione, diramandosi in Agglomerati Rionali di Case nella campagna circostante, fino a raggiungere le dimensioni attuali.
Nella seconda metà del 1700, fu costruito il
Palazzo Marchesaleaccanto
all'ala di accesso al Vecchio Castello, dove probabilmente alloggiavano i
precedenti Feudatari, durante la loro permanenza in paese. Di
scarso valore architettonico, abbastanza modesto in confronto ad alcuni
fastosi palazzi gentilizi, costruiti altrove da altri feudatari, è stato
sede, per lungo tempo, della Caserma dei Carabinieri e riporta una
scritta sotto il cornicione: «Nicollaus Cavalcanti, de marchionibus
terrae Verbicarii, sibi suisque fecit» ci ricorda che fu costruito da
Nicola Cavalcanti, Marchese di Verbicaro. All’inizio del 1800, Verbicaro è certamente uno dei paesi più popolati del Distretto di Paola. Nel 1807 i Francesi, ne facevano una Sede del cosiddetto «Governo» di cui facevano parte vari paesi, definiti come «Università» tra cui ritroviamo Grisolia con le frazioni di Cipollina e Abatemarco, Maierà con Cirella. Nel 1811 col Decreto Istitutivo dei Comuni e dei Circondari, viene aggiunto il Comune di Orsomarso al Circondario di Verbicaro. Continua ad essere tra i paesi più popolati anche negli anni successivi, tanto da diventare con l’Unità d’Italia, sede di un Collegio Uninominale per l’Elezione di un Deputato del Regno e divenendo anche Comune Autonomo e Capoluogo di Mandamento.
Dal punto di vista Architettonico, non vi sono soltanto Strutture Difensive, ma anche vari elementi di un'Architettura che narra con vari elementi come questo Centro abbia vissuto i tempi della storia, attraverso un adeguamento Artistico e Culturale di volta in volta diverso.
Atal proposito, vi
sono, oltre a valide tracce dell'Arte Romanica, Bizantina, Gotica e
Normanna, anche quelle di tipo Classico-Rinascimentale di cui esemplari
ne sono alcuni Portali in pietra scolpita, ad arco saldato con al centro
lo Stemma di Famiglia.
L'Episodio più noto e studiato della Storia di Verbicaro è l'Epidemia di Colera dell'estate del 1911 e la Rivolta che causò. Molto spesso, a torto, il fatto viene strumentalizzato per sottolineare l'arretratezza del paese agli inizi del 1900, senza considerare che, in quegli anni, a vivere in condizioni di emarginazione non era solo Verbicaro, ma tutta l'Italia Meridionale, con gravi responsabilità del Governo Nazionale. Inoltre purtroppo, ai Verbicaresi erano tristemente note le conseguenze di un'Epidemia, poichè già in passato il Paese era stato colpito da simili calamità. La prima di cui si ha notizia risale al 1656, quando per il contagio che colpì il Regno di Napoli, morirono a Verbicaro 1.036 persone, l'altra nel 1844 che registrò 246 morti. Il Colera, implacabile, si abbattè ancora su Verbicaro nel 1855 e fu ancora più drammatico, non solo per l'elevato numero di vittime, ma soprattutto per la rivolta che questo causò, di gran lunga più cruenta e con lo stesso meccanismo di quella del 1911, quando in Italia celebravandosi i primi 50 anni di Unità Nazionale, con grandi manifestazioni e cerimonie, da Verbicaro, piccolo e sperduto paese della Calabria, del tutto sconosciuto alla gran parte degli italiani, cominciarono a giungere notizie inquietanti: l'Epidemia di Colera, che nell'estate del 1911 aveva toccato altre Regioni italiane, era arrivato a Verbicaro, per le precarie condizioni igieniche e sanitarie, con effetti devastanti, anche perché provocò la violenta reazione della Popolazione di Verbicaro, che insorse contro le Autorità Locali, i cosiddetti «Galantuomini» del Paese, considerati responsabili dell'Epidemia, giudicati alla stregua di «untori». Il Popolo, terrorizzato dall'Epidemia, e dovendo nella sua ignoranza, spiegare quella tragedia, giustificava il Colera con la «Polverella»: un Veleno messo dalle Autorità Locali nelle Fontana Pubblica per uccidere gli Abitanti. La causa dell'Epidemia, in realtà, era la mancanza di igiene, e l'acqua della «Fontana Vecchia», l'unica Fontana Pubblica, la cui sorgente era nel sottosuolo, era Inquinata dagli stessi Cittadini, che di notte soddisfacevano i loro bisogni per le vie. Nel Tumulto furono uccise 3 persone, ritenute responsabili dell'avvelenamento e Verbicaro, diventa, in quell'estate del 1911, quasi un monito per la coscienza di un Paese e di uno Stato che dimenticava antichi e non risolti Problemi Sociali. Gli episodi reiterati, distruttivi e desolanti del 1855 e del 1911, segnarono i Cittadini con il marchio infamante della ferocia e della criminalità. In realtà, erano solo dei Poveri Contadini abbandonati a sè, abituati a sopportare i soprusi dei «Galantuomini» e che avevano una sola fede in cui credere e sperare: la Famiglia. Così, quando un'Epidemia senza scampo li privò degli affetti più cari, improvvisamente, e senza nessuno capace di dare spiegazioni plausibili a ciò che stava accadendo, impazzirono di dolore, divenendo Collettività incontrollabile, feroce e devastante. Furono, dunque, l'eccesso di dolore e l'ignoranza a causare le rivolte.
TRADIZIONI - FOLKLORE
La notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo si ripete l'antichissimo rito dei Battenti Flagellanti: alcuni uomini penitenti, vestiti in rosso, a piedi nudi e gambe scoperte percuotono i loro arti inferiori con il cardillo (un pezzo di sughero sul quale sono infisse nove acuminate punte di vetro) fino a farli sanguinare; contemporaneamente i battenti fanno il giro del paese per ben tre volte, “segnando” le strade con le mani sporche di sangue.
Successivamente, alle tre del mattino prende il via la processione del Mistero della Passione di Cristo con statue e quadri viventi ispirata alla Via Crucis e al Mistero della Passione.
Ci
sono luoghi di Calabria, dove il tempo sembra essersi fermato; luoghi
in cui basta un attimo, per ritrovarti ad osservare tra le mura di
piccoli borghi, scene che si ripetono senza soluzione di continuità da
tempi lontani, scene ed atmosfere suggestive, fuori dal tempo, che hanno
origine in tempi in cui era normale percuotersi a sangue per espiare
una colpa o un peccato. Fino a quando ci sarà ancora un Vattiente a Nocera Terinese(vedi servizio), o un Battente di Verbicaro o di Guardia Sanframondi (BN)(vedi servizio), il nostro passato sarà il nostro presente, e lo potremmo vedere oggi come fosse ieri.
In
particolari periodi dell’anno, a Nocera Terinese è possibile rivivere
il rito dei Vattienti (vedi servizio), come a Verbicaro quello dei Battenti,
eventi che sono tipici di epoche lontane, e fanno vivere emozioni
forti, tipiche di epoche remote, atmosfere dell’epoca medioevale, come
nella settimana Santa della Pasqua di Resurrezione in Calabria, dove è
il sangue di alcuni uomini, che si flagellano durante lo svolgimento di
un rito che ha origini proprio nel medioevo, con il rito dei disciplinati.
Il 1º luglio di ogni anno, nella vigilia della festività patronale della Madonna delle Grazie, si svolge la tradizionale fiaccolata dei Zigni.
Questi ultimi sono degli alberi e/o rami di pino (appositamente raccolti nei vicini rilievi montuosi del Parco nazionale del Pollino), portati a spalla da un gruppo di persone per le vie principali del centro abitato.
La fiaccolata dei Zigni, a metà del suo percorso, si incontra con la processione religiosa, svolta in onore della Santa Patrona della cittadina.
Inoltre, la mattina del 2 luglio vengono preparate, da volontari del luogo, delle infiorate lungo le vie principali del centro abitato, che saranno attraversate dalla processione nel tardo pomeriggio
SANTA PATRONA
Madonna delle Grazie (in latino Mater Gratiarum) è uno degli appellativi con cui la Chiesa Cattolica venera Maria, la Madre di Gesù, nel Culto Liturgico e nella pietà popolare.
Il titolo «Madonna delle Grazie» va inteso sotto 2 aspetti: Maria Santissima è Colei che porta la Grazia per eccellenza, cioè suo figlio Gesù, quindi Lei è la «Madre della Divina Grazia"»; Maria è la Regina di tutte le Grazie, è Colei che, intercedendo per noi presso Dio ("Avvocata nostra"), fa sì che Egli ci conceda qualsiasi Grazia: nella Teologia Cattolica si ritiene che nulla Dio neghi alla Santissima Vergine.
Specialmente il secondo aspetto è quello che ha fatto breccia nella devozione popolare: Maria appare come una Madre amorosa che ottiene tutto ciò che gli uomini necessitano per l'Eterna Salvezza. Tale titolo nasce dall'Episodio Biblico delle «Nozze di Cana»: è Maria che spinge Gesù a compiere il miracolo, e sprona i servi dicendo loro: «fate quello che Lui vi dirà».
Lungo i secoli, moltissimi Santi e Poeti hanno richiamato la potente opera di intercessione che Maria opera tra l'uomo e Dio. Basti pensare a: San Bernardo, che nel suo «Memorare» dice: «non s'è mai udito che qualcuno sia ricorso a te e sia stato abbandonato». Dante nel XXXIII Canto del Paradiso della Divina Commedia, mette in bocca a San Bernardo una preghiera alla Vergine poi divenuta famosa: «Donna, se' tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz'ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre»
COME RAGGIUNGERE Verbicaro
In Auto
Autostrada del Mediterraneo A3; uscita Lagonegro Nord fino il centro abitato di Marcellina e la SP 5
In Treno
Le Stazioni più vicine sono Marcellina-Verbicaro-Orsomarso e Scalea-Santa Domenica Talao
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