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Giuseppe Cocco
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IL VENTRE DI NAPOLI VENT'ANNI FA (1884)
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Bisogna sventrare Napoli
Efficace la frase.
Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli.
Avevate torto, perché voi siete al Governo e il Governo deve saper tutto.
Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto.
Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto.
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Quello che guadagnano
Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz’aria, senza luce, senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d’immondizie, respirando miasmi e bevendo un’acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa.
Abita laggiù per forza.
È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, on arriva a vincere; non la miseria dell’ozioso, badate bene, ma la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno, l’operaio che non può pagare un affitto di casa che superi le quindici lire il mese.
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Quello che mangiano
Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea.
Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma.
È vero, infatti la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano.
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Gli altarini
Vi meravigliate degli altarini?
Vi scandalizzate della piccola processione di donne scalze e scapigliate, che portano un'immagine della Madonna e salmodiano?
La superstizione del popolo napoletano - oh, povera gente che è vissuta così male e con tanta bonarietà, che muore in un modo così miserando, con tanta rassegnazione! - la superstizione di questo popolo ha fatto una dolorosa impressione a tutti.
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Il lotto
Ebbene, a questo popolo eccezionalmente meridionale, nel cui sangue si incrociano e si fondono tante gentili, poetiche, ardenti eredità etrusche, arabe, saracene, normanne, spagnole, per cui questo ricco sangue napoletano si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno: a questa gente in cui l’immaginazione è la potenza dell’anima più alta, più alacre, inesauribile, una grande fantasticheria deve essere concessa.
Tutte le cose che la vita reale non gli può dare, che non gli darà mai, esso le ha, nella sua immaginazione, dalla domenica al sabato seguente; e ne parla e ne è sicuro, e i progetti si sviluppano, diventano quasi quasi una realtà, e per essi marito e moglie litigano o si abbracciano.
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Ancora il lotto
Il lotto ha una prima forma letteraria, rudimentale, analfabeta, fondata sulla tradizione orale come certe fiabe e certe leggende.
Tutti i napoletani che non sanno leggere, vecchi, bimbi donne specialmente le donne, conoscono la smorfia, ossia la Chiave dei sogni a memoria e ne fanno speditamente l’applicazione a qualunque sogno o a qualunque cosa della vita reale.
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L'usura
Una povera donna che ha bisogno di cinque lire per pagare il padrone di casa, va a cercarle in prestito da donna Carmela, che dà il denaro cu ‘a credenza.
Donna Carmela è una donna grassa e grossa che esercita per lo più una professione di lusso, rammenda merletti, trapuntisce le grandi coltri di bambagia che si usano in Napoli, d’inverno ricama in oro sul velluto: infine una professione per la forma, che lascia godere di lunghi ozii; ma la sua vera professione è il prestar quattrini alla povera gente.
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Il pittoresco
Alla mattina, se avete il sonno leggero, fra i tanti rumori napoletani, udirete uno scampanio in cadenza, che ora tace, ora ricomincia dopo breve intervallo: sono le vacche che vanno in giro per un paio d’ore, condotte, ognuna, da un vaccaro sudicio, per mezzo di una fune.
Queste vacche si fermano innanzi a ogni porta, nel loro giro mattinale: dove le serve dormono ancora, il vaccaro grida forte: «Acalate o panaro»; se non sentono, batte forte il campanaccio della vacca.
È un quadro pittoresco mattinale.
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La pietà
Quando una popolana napoletana non ha figli, essa non si addolora segretamente della sua sterilità, non fa una cura mirabile per guarirne, come le sposine aristocratiche, non alleva un cagnolino o una gattina o un pappagallo, come le sposette della borghesia.
Una mattina di domenica ella si avvia, con suo marito, all’Annunziata, dove sono riunite le trovatelle, e fra le bimbe e bimbi, ella ne sceglie uno con cui ha più simpatizzato.
Questa creaturina, non sua, ella l’ama come se l’avesse messa al mondo.
Una certa pietà gentilissima fa esclamare alla madre adottiva: «puverella, non aggio core de la vattere, è figlia della Madonna».
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IL VENTRE DI NAPOLI (ADESSO 1905)
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Il paravento
Che cosa è falso, che cosa è vero?
Sono, forse importato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, o vi pare che si moltiplicano la tristizia e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte?
O, forse, è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna dei suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, metti, soldi, grandi, appartengono al sogno?
Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi e, intanto, non si sa come, non si sa perché, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il volume delle quinte, dove tutto è rancido, è puzzolente, e nauseante?
Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggero, fragile grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol sapere tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile!
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Dietro il paravento
Cominciamo da quanto esiste, dietro il paravento a sinistra del Rettifilo, venendo dal centro della città, andando verso la ferrovia: e osserviamo se si è risanato, com'era la idea semplice e alta di tutti quelli che vollero salvare il popolo napoletano dalla sporcizia, dal vizio, dalla epidemia e dalla morte.
Questo lato è il meno orribile, quando lo si percorre, passo passo, dalle spalle di via Guglielmo San Felice, dalle spalle dello splendido del deserto palazzo della Borsa sino laggiù, laggiù, all'Annunziata.
Eppure!
Camminando dietro il paravento, salendo, scendendo, salvo due o tre traverse di cui una sola è completata, due compiute a metà, le altre sono semplicemente aperte, e alcune di esse non sono neppure accennate, restandovi ancora, massime verso l'Università, i vicoli antichi, umidi, alti, tetri e sporchi.
E il lato meno spaventoso agli occhi, meno nauseante all'odorato quello a sinistra. Eppure!
Sono rimaste intatte le oscure e malfide gradelle di Santa Maria la Nova, le antiche gradelle che conducevano al cerriglio e che ora conducono alla piazza della Borsa; intatte le strette, nere, soffocate, soffocanti gradelle di Santa Barbara, con loro angiporto che avrà duecento anni e che venti anni di risanamento edilizio, a due passi di lì, non hanno distrutto, le famose gradelle di Santa Barbara, celebri per il loro tarallaro, il biscottaio popolare, ma anche per il vizio diurno e notturno, che vi ha i suoi antri più bassi e più tristi: né, a quanto pare, tutto questo è mutato.
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Le case del popolo
Una delle nobilissime, pietose ma fallaci utopie di tutti coloro che hanno voluto o vogliono salvare il popolo napoletano dalla miseria, dal vizio, dal delitto e dalla morte, è stata, è quella di dare a questo popolo, delle abitazioni fatte per esso.
E, difatti, nessuna compassione e nessun ribrezzo più grande che il cacciar il viso a fondo in questi bassi ove vive e malvive il popolo, in questi bassi che sono già oscuri, oppressi, angusti nelle vie più grandi e che nei vicoli, in cento vicoli, in mille vicoli, diventano delle stamberghe sotterranee, quasi diventano degli antri ove si agitano e brulicano le vite umane, piccole, grandi, decrepite.
Il basso è una bottega rudimentale, un terrario, piuttosto, senza finestra, senza cesso, senz'altro sfogo che una porta, talvolta angusta che, d'inverno, deve sta chiusa, che, di notte, non può stare aperta; quando la primavera viene, chi lo abita, si trasporta nella via, sul marciapiede, vivendo sulla soglia, fuori della soglia, occupando il terreno pubblico; coi suoi figli, col suo fornello da stirare e da cucinare, con la sua macchina da cucire, quando non lo occupa col suo banchetto da ciabattino, col suo banchetto di venditrice di castagne e di spighe allessate.
Nel basso dormivano - dormono! - tre, quattro, sino a sette persone e nelle notti estive, due, tre di essi, soffocando di caldo, trascinano uno strapuntino fuori della porta, mettono una sedia, o addirittura si gettano sul lastrico, dormendo all'aria aperta.
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Che fare?
Che chiedo, io, se non l'applicazione della legge umana e sociale, che si tratti quelli come si trattano gli altri, dando loro quel che spetta loro, come esseri viventi come cittadini di una grande città?
Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando, fino a che tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perché chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall'inerzia, dall'ignavia e ha fatto quel che doveva.
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L'ANIMA DI NAPOLI
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L'onore
Malinconicamente assiso presso un desco, nella famosa Osteria della Giarrettiera, c'è il grosso cavaliere Falstaff.
Beve, Falstaff, un largo sorso del suo grog e dice con un sorriso amaro: «L'onore? Che cosa è mai, l'onore? È forse, un giustacuore, l'onore? È un paio di stivaloni, l'onore? Si mangia, l'onore? Si beve, forse, l'onore? Che ne fai, tu, dell'Onore? Si batte moneta, forse con l'onore? Di quale onore, tu parli? Del mio? Del tuo? Il mio è diverso dal tuo! L'onore? Una parola: un soffio, veramente, non altro che un soffio».
E crolla le pingui spalle, bevendo ancora e con la mano quadrata che posa il gotto, fa un cenno per dire a dare questo soffio che è l'onore della sua vita di beone.
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Il rione della bellezza
Una delle cose più amenamente pazze che si dicono, si ripetono, si sostengono, per Napoli e la profonda miseria del suo Comune, è la mancanza della lira e del soldo per tirare avanti.
Io non sono il tutore del Comune, per grazia di Dio e neppure tu, amico lettore, per tua fortuna: ma qualche soldo, è tuo ed è mio.
Interessiamoci a questi pochi centesimi, tuoi, miei, lettore, perché essi sono una parte dei milioni.
Il Rione della Bellezza! Eccone uno, eccolo qua.
Il suo nome è eminentemente pretenzioso: quando saprai bene che è, questo rione, amico lettore e fratello mio, lo troverai anche evidentemente ridicolo.
Si tratta di quel grande deserto di Santa Lucia nuova, come tutti gli innamorati della vecchia Napoli, preferivano, forse, vedere quel bel mare di Santa Lucia, l'antico, il nostro mare: diamogli un sospiro di rimpianto, il nome del pittoresco, consoliamo gli stranieri nella loro delusione e rinneghiamo la civiltà, decisamente, nel nostro spirito.
Quando non era stato inventato il Rione della Bellezza, questo deserto malinconico, atrocemente triste, in certe ore del giorno, sia fiancheggiato da quella via polverosa e ineguale, doveva essere popolato così, dalla Cassa di sovvenzioni genovese: cioè dovevano sorgervi 13 grandissimi palazzi, 13 caserme enormi, simili alle due già costruite, quella dove si trova l'Hotel Santa Lucia e la seconda che è in costruzione.
Nulla di più brutto, di più grosso, di più pesante: strette, le vie, fra ogni edificio: è completamente perduta, dietro, la via di Santa Lucia vecchia.
Quando queste caserme orribili fossero sorte, un'altra prova della mancanza di educazione estetica, sarebbe venuta da affliggere il nostro spirito inquieto.
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La gran via
Chi ha mai osato, chi oserà mai detronizzare via Toledo dalla sua sovranità cittadina?
Chi toccherà mai la sua corona di gloria e di vita?
Chi potrà mai eguagliare, non vincere il suo fascino?
Chi mai menomerà la sua forza e il suo carattere?
Niente: nessuno.
Non il tempo che tutto modifica e tutto trasforma: non gli uomini folli che delirano di mutare le cose, secondo i loro pensiero e il loro capriccio: non i costumi che si cangiano bizzarramente, pur apparendo sotto novelle forme: non i fatti che sono regolati dalle misteriose correnti del destino.
In questa profonda e palpitante arteria, corre un sangue la cui ricchezza è magnifica: il suo battito può diventare tumultuoso nella febbre dei grandi giorni, non può rallentarsi mai: le sue pulsazioni possono raggiungere il culmine della gioia, mai il minimo della fiacchezza: e mentre tutto l'immenso corpo della città dorme, sotto l'arco stellato del cielo, sotto il nome freddo e molle della luna, dalle sue colline fiorite nella notte fino al mare immobile, la profonda arteria vive espande il suo metro di vita, nell'ombra tenue, fra le case alte.
Via Toledo non ha rivali, anche nelle vie più magnificamente belle di Napoli.
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Guerra ai ladri
Io invoco il lavoro, invoco le società, invoco le industrie, invoco le banche, che dovranno redimere la mia miseria, il mio ozio e la mia inciviltà: ma tutto questo deve essere fatto in un'altra maniera, non più in quella di prima, in una maniera schietta, leale, franca, in una forma delle più integre, con una probabilità perfetta, con quel rigore di coscienza, da tutte le parti, che, in tanto rivolgimento di cose, è la via della verità e della vita!
E, a proposito delle imminenti prossime elezioni amministrative, sapete che dice, Napoli?
Napoli dice questo: «A me importa poco che vadano al Consiglio Comunale dei clericali, dei borbonici, dei moderati, dei liberali, dei democratici, dei socialisti, o degli anarchici: tutto ciò mi è indifferente.
Io voglio degli uomini onesti: io voglio delle coscienze sicure: io voglio delle anime austere.
Le loro opinioni politiche non mi riguardano: solo i loro sentimenti morali mi interessano.
Non voglio ladri, io, al Comune; e per ladri non intendo solo quelli che si mettono in tasca il denaro mio, il mio povero è scarso denaro, ma tutti quelli che aiutano i ladri miei o che permettono, chiudendo gli occhi, che mi si rubi.
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Cristo dice ...
Che gli occhi di tutti i lavoratori del mondo si fissino sulla bella cittadina che si specchia nel mare, e che un senso di rispetto grande nasca per questi operai che servono, con ogni privazione, non solo la loro causa, ma la causa di tutti quelli che lavorano.
Più di due mesi di sciopero essi stanno subendo, pazienti vigili, inaccessibili: e le loro sofferenze materiali sono ben grandi.
Man mano, i denari per sostenere lo sciopero sono finiti ed essi si sono accontentati di vedere sempre più scarsi i soccorsi della loro legame, si sono accontentati di pochi soldi.
Ogni tanto, qualche generoso sussidio arriva, ma essi sono molti, i bisogni sono grandi e dopo qualche giorno la ristrettezza, la miseria, sì diciamolo la miseria diventa più pesante, più lugubre, più nera.
Sapete che mangiano molti di essi? Patate!
I contadini, i massari delle campagne con animo misericordioso, permettono che le famiglie degli operai vadano a raccoglierle senza molestarli: e ogni mattina con i sacchi sulle spalle, i ragazzi degli operai vanno fuori, nei campi, negli orti, nelle masserie, a raccogliere queste patate.
Quando Cristo passò quaranta giorni in preghiera sul monte della Quarantena, in Palestina, in solitudine, in penitenza, dopo che il precursore lo ebbe battezzato nelle acque del Giordano, solo, era, sulla montagna: e il maligno lo tentava.
Cristo era disfatto dalle orazioni e dal digiuno.
Diceva, il maligno: «Tu muori di fame; se sei figlio di Dio, fai un miracolo e cangia in pane queste pietre!»
E Cristo, allora, gli disse: «L'uomo non vive solo di pane».
È per i poveri, per i deboli, per gli infelici, per i sofferenti, che questa parola è stata detta: è contro i ricchi, i potenti, i superbi, i malvagi, che essa è stata pronunciata: è per la guerra che è sempre stata, che mai finirà, fra i miseri e gli epuloni, che questo è stato proclamato.
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Il pane dell'anima
Mancherà, spesso, all'immensa folla di piccini e di piccine, di ragazze e di ragazzi, il modo come sfamarsi poiché, pare, la povertà napoletana sia molto pittoresca e i custodi dell'estetica adorano questa manifestazione possente e triste di dolore sociale: mancherà, senz'altro, il pane dell'anima, quello che dovrebbe dar frutto di bene intellettuale, di bene morale, mancherà senz’altro l’istruzione.
Vi è ancora tra il popolo, una istituzione strana e caratteristica: una specie di piccola scuola tenuta, da qualche donnetta, in un basso più spazioso degli altri: altre donnette, operaie, serve, lavandaie, stiratrici, vi portano i loro figliuoli e le loro figliole, alla mattina, prima di andare al lavoro e pagano un soldo al giorno: le più facoltose, diciamo così, venti soldi, e quindici al mese le più sventurate.
La donnetta che ha la scuoletta non insegna nulla a tutte quelle creature: le tiene raccolte un poco, poi, le lascia scorrazzare.
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Il padre del popolo
Un popolo ha urlato di disperazione, ha gridato di collera, ha pianto di dolore, perché Ettore Ciccotti non è più deputato di Vicaria: e per tre giorni e tre notti, questo furore di popolo, pieno di singulti e pieno di lacrime, si è espresso nelle forme antiche, puerili e semplici, della rivolta popolare: il sasso raccolto nelle vie suburbane e che vende l'aria, fischiando, il pezzo di legno greggio che non è neppure un bastone ma che difende ed offende, il vaso di fiori lanciato dalla finestra del tugurio.
In un angolo di Porta Capuana, una donna parla, fra un gruppo di donne: eccitata, ha le lacrime agli occhi, narrando non so quale beneficio che ella ebbe da Ciccotti; e le altre, poco a poco, si mettono a gemere, intorno: e come se qualcuno fosse morto, esse e esclamano: «Avimmo perdute nu patre, nu padre!»
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Una donna
O passato, tu solamente sei vero!
Ecco, io ho innanzi un tanto antico ritratto, di una donna: di una signora: è una fotografia, che avrà trent’anni, forse, e che fu data alla donna che, degnamente, io ho più amata e venerata nel mondo, a mia madre.
Questo ritratto è di Teresa Ravaschieri e già in quel tempo in cui fu amichevolmente donato, non era un ritratto nuovo: vengo un viso ovale, sereno, sorridente, evidentemente giovanile.
E dei bruni e folti i capelli neri, ove si appoggia un diadema prezioso: un vestito da festa che scopre un collo e delle spalle statuarie, adorne di una collana ricchissima: una testa da cameo, infine, ove la purezza delle linee animata dall’espressione più spirituale nella luce dei cari occhi larghi e limpidi, nel sorriso della bella bocca, in tutta la quiete vive e fresca della fisionomia.
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L’AUTORE
Matilde Serao (Patrasso, 14 marzo 1856 - Napoli, 25 luglio 1927) è stata una scrittrice e giornalista italiana.
È stata la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma, esperienza successivamente ripetuta con Il Mattino - da lei fondato assieme al marito, lo scrittore Edoardo Scarfoglio, nel 1892 - e Il Giorno.
Negli anni venti fu candidata sei volte, senza mai ottenerlo, al Premio Nobel per la letteratura.
Indicata da Angelo de Gubernatis nel 1895 come "La più poderosa per ingegno, vivace fantasia e vigore di stile fra le nostre scrittrici".
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