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È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile».
Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità: «È il popolo meno retorico, meno idolatrico e meno fanatico della terra. Neanche il tempo lo commuove o lo spaventa, perché l’ha tutto raccolto sull’uscio, a portata di mano, poiché Roma è l’immagine stessa del tempo, della infinita contemporaneità».
Si sente il respiro di una città bellissima, in cui risplende tutta l’autenticità di una «umile Italia», non ancora oppressa dal degrado, e tuttavia già insidiata dalle trasformazioni sempre più accelerate degli anni Sessanta, sotto i colpi della speculazione e della cattiva politica, di una frettolosa e incolta modernità.
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Il popolo di Roma
Uno dei 47 milioni (secondo il più recente censimento) di poeti o versificatore italiani viventi, ha scritto, a proposito del popolo di Roma, la seguente strampalata quartina, che ho letto per caso, e che, se non brilla di certo per eminente valore letterario, se non è il Belli, neanche apocrifo, non è priva, tuttavia, di una certa verità:
"Il popolo di Roma è un populusque
al Senato e alla Curia apparentato
e durerà nei secoli, quousque
l'ultima goccia non si sia scolato."
L'ultima goccia, credo che si debba intendere di vino dei Castelli; a meno che il poeta non intendesse, metafisicamente, l'ultima goccia del tempo, al termine dei secoli, che i romani si sarebbero, con piacevole indifferenza, scolato fino alla fine, come un vino.
Questa mi parrebbe un'interpretazione troppo ardita, forse temeraria; ma comunque la si intenda, l'una e l'altra lezione è egualmente sensata; e, in fondo, esse sono equivalenti, se si pensa che i romani sono i soli a saper resistere, con uguale imperturbabilità, all'ingannevole e greve, veleno del loro vino, così come agli inganni non meno grevi e velenosi del tempo; e che, come, per l'uso da tempo immemorabile, essi si sono adattati, si sono mitridatizzati a quel vino, e l'hanno reso per sé innocuo per opera del tempo, così hanno fatto innocuo, per sé, il tempo, per virtù del vino, nel quale lo hanno affogato tutto intero, con tutto l'antichissimo, passato, tutte le glorie e tutte le miserie.
Luoghi narranti narrati e citati: Piazza dl Popolo - Foro (Campo Vaccino) - Palazzo Chigi - Argentina (largo) - Fontana delle Tartarughe - Ghetto - Montello - Piglio - Museo del Campidoglio - Antica Pesa - Trastevere - Villa Doria (Pamphili) - Porta San Giovanni - Piazza Bologna - Via Nomentana - Viale Tiziano - Garbatella - Primavalle - Campo dei Fiori - San Lorenzo (quartiere) - Porta San Paolo
Ascolta "Il popolo di Roma da «Roma fuggitiva» di Carlo Levi" su Spreaker.
La solitudine di Roma
Anche chi non esce di casa e resta chiuso nella sua stanza, non si affaccia alla finestra, non legge il giornale, non parla con il portinaio o con la donna, anche il recluso, il carcerato o il monaco o il malato, anche il cieco, a Roma, non può non accorgersi dei giorni di festa.
Non può non accorgersene, perché tutta l'aria che lo circonda, la sua qualità, la sua consistenza, la sua elasticità, la sua natura, pare cambiata.
Sono piccoli segni quasi inavvertibili, ma, fin dal mattino, si sente tremare qualche cosa e, soprattutto, si sente alterato e diverso il succedersi dei suoni abituali, quel brusio continuato, come di una conchiglia marina appoggiata all'orecchio, che è il suono barocco della città e che giunge invece mutato, interrotto a tratti, attraversato da inaspettati crepitii e da improvvisi silenzi.
Poiché le feste, le grandi feste, a Roma sono, si può dire, sonore e atmosferiche, e si celebrano nel rumore e nell'aria.
Sono, in fondo, feste campestri, per le quali, di colpo e all'improvviso, la città diventa quella che era prima della storia: campagna e foresta; e ai meccanici suoni cittadini si sostituiscono i gridi degli animali e lo stormire delle fronde.
Luoghi narranti narrati e citati: Piazza Navona
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La moneta da due centesimi
Esco di rado, di giorno; per serbarmi il mio tempo e il lavoro: perché le strade sono piene d'incanti, di occasioni, di incontri e di apparenze semplici e quotidiane che nascondono mondi fatati dove chi mette incauto il piede non può più ritirarlo e viene trattenuto dal più forte dei sensi, dall'occhio avido e veritiero, e più potente di qualunque volontà, in un paese di metamorfosi e di contemporaneità.
«Nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali» si può trovare ogni cosa, tutti gli aspetti della grandezza e della miseria, della realtà e della favola, tutti i piani sovrapposti e finiti del tempo, e la gente viva e il suono, e i sopravvissuti, e le architetture modellate dagli anni e parlanti, e i modi del costume, e le macchine e gli animali, e le espressioni infinite di un mondo infinito.
Luoghi narranti narrati e citati: Palazzo Borghese - Via dell’Arancio
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Passeggiata domenicale
Esco nei viali della Villa Borghese, fuori del giardino del lago e delle esposizioni dei cani, dove gli animali si annoiano rinchiusi nelle prigionieri delle gabbie, e le padrone piangono vere lacrime infantili per un premio negato: la primavera splende domenicale, ancora piena di giovani succhi e di verdi teneri, appena ingrigita di un velo di polvere, sotto un cielo gonfio come una gonna alzata dal vento.
Già la gente, come d'estate, sta sdraiata sui prati; dimentico del suo povero commercio, un venditore di lupini dorme nell'erba, col cappello sul viso e a fianco il mastello di legno e i cartocci arrotolati di carta gialla; le ragazze passeggiano tenendosi per mano.
Nel lago si specchia una barca, sotto le colonne del tempietto neoclassico; poco lontano alcuni dei magri leoni egiziani che popolano la città, così ricca di una varia fauna di pietra, sputano l'acqua con l'indifferente bontà dei poeti.
L'Orologio, il famoso orologio ad acqua del Pincio, segna, muovendo le sue palle, nelle sue finte strutture di pianta, le ore eterne della domenica, e la carrozza degli asinelli, che aspetta vuota il trionfo dei bambini, porta lucente sui fianchi rossi la scritta «Coca Cola».
Luoghi narranti narrati e citati: Villa Borghese - Laghetto di Villa Borghese - Orologio ad acqua del Pincio - Teatro dei Burattini (dei Bambini al San Carlino)
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L'elicottero
Dentro una bolla di sapone, che un bambino lascia sfuggire nell'aria e segue con lo sguardo meravigliato, dentro la sfera trasparente dell'occhio di un insetto, di una grande libellula artigianesca che ronza sulla siepe, chiusi dentro a quel vetro cavo, come gli omuncoli nella storia di un alchimista, ci stacchiamo dalla terra, e saliamo verticali, come per una immaginaria levitazione, su in cielo.
È una domenica romana piena di nuvole mutevoli, di soffi improvvisi di vento: qualche goccia di pioggia era scesa, prima, a minacciare un temporale improvviso, ma il sole era ricomparso dietro la frangia lucente delle nubi e brillava sull'erba del campo, svelato ogni tanto di vapori, acceso e temperato via via come una calda pulsazione luminosa.
La bolla trasparente, dove siamo rinchiusi, concentra i suoi raggi come una strana incubatrice piena di manovelle, di maniglie, di pedali, che ricordano le antiche biciclette dell'infanzia.
Ma già siamo diritti in alto, e voliamo leggeri.
La forma stessa dell'elicottero, insieme così bizzarra, naturale ed arcaica come di una vivente macchina preistorica, non ha nulla che si frapponga all'immaginazione; il suo nome, che sembra anch'esso quello di una famiglia di insetti, e il ronzio delle pale rotanti, che è quello delle elitre velocissime, riportano a quel mondo animale meccanico dei cespugli, delle visite ai fiori e dei voli nuziali.
Luoghi narranti narrati e citati: Stadio (Olimpico) - Vigna Clara - Giardini Vaticani - Piazza San Pietro - Fori - Piazza del Gesù - Quirinale - Scalinata di Trinità dei Monti - Villa Strohl Fern - Porta del Popolo - Via del Corso - San Giovanni (in Laterano) - Via Appia
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Apparizioni a Roma
Le cose compaiono, si avvicinano, si mostrano all'occhio, sostano, vivono, si dileguano al volgere del capo o a un batter di ciglia, secondo un modo, una qualità, un tempo diverso nei diversi luoghi e paesi.
Roma è una città di apparizioni: di apparizioni reali, viventi, corpose, determinate, colorate: di cose vere che diventano apparizioni, si direbbe proprio, per la loro straordinaria verità, per la loro sovrabbondante qualità di esistenza.
È una città di apparizioni, non di sogni e di spettri, come la formicolante Parigi di Baudelaire, nell'aria brumosa, grigia e azzurrina, nelle nebbie, nel pallido incanto del crepuscolo.
Qui, in quest'aria chiara, le apparizioni hanno invece la subitanea fisicità degli Dei.
In quest'aria eterna di Epifania (non per nulla la Befana di piazza Navona è la più grande festa popolare dell'anno), il Natale ritrova la sua atmosfera antica, il suo cielo luminoso, la sua stella, il tepore invernale del deserto, il suo orizzonte arido, la sua povera semplicità, di quando non era ancora diventato una festa dei boschi e delle foreste piena di pini neri e di abeti, di candida neve e di intimità.
Luoghi narranti narrati e citati: Piazza Navona - Via Capo le Case - Piazza di Spagna - Barcaccia (Fontana) - Scalinata di Trinità dei Monti
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Il dovere della cometa
La cometa, con la sua testa nebulosa, come un occhio velato di lacrime e la sua chioma, trascinata nel vento degli spazi, sta ruinando, dicono, per il cielo, con una velocità sterminata, risalendo dall'orizzonte tra le costellazioni, fino a perdersi, chissà dove, nel firmamento.
Io non l'ho vista: la primavera, a Roma, è troppo dolcemente avvolta di brume, di nubi mutevoli, di piogge improvvise, fa così viva e presente e giovanile l'atmosfera, la terra, così prepotente quel poco che si muove qui, che quello che avviene di sopra sfugge agli sguardi.
Non l'ho vista, e non l'hanno vista i romani.
Non l'hanno nemmeno molto cercata.
Si direbbe che essi, forse, non credano più nel cielo, nei segni del cielo, nel volo degli uccelli e negli àuguri, come un tempo.
Non alzano gli occhi neppure agli arcobaleni, così meravigliosi sulle cupole, così brillanti sul tenero violetto degli intonaci, sul caldo pallore dei travertini, e talvolta così misteriosamente solenni, come quando ne vidi apparire uno doppio su piazza San Pietro, come un segno inatteso o un divino ornamento, sopra un'immensa folla dagli occhi abbassati.
Luoghi narranti narrati e citati: Piazza San Pietro
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Elegia di Ferragosto
Come i tempi sono cambiati!
Dove troveremo mai uve così primaticce, se non qualche dorata trasparente luglienga, e tini ribollenti dopo le cerimonie della pigiatura, fatta, a gara coi villici, coi piedi ben lavati e i pantaloni rimboccati, dai signori rifugiati in villa?
E dove sono ormai le stesse «smanie della villeggiatura» che, dopo il loro fiorire settecentesco, e i fasti goldoniani, sono continuate per tutto il secolo, fin quasi a ieri?
I preparativi, i debiti, le gelosie, le invidie, i discorsi dei servi, i giochi, le acque, i parassiti, le finte partenze, il decoro?
Quando il costume era quello solo dei nobili e dei ricchi, e gli altri, i minori borghesi, lo seguivano o imitavano, e il villeggiare riguardava nulla più che una classe sola, attorno a cui un popolo ignoto viveva oscuro nelle città senza stagioni (Giorgio Strehler ne prese forse lo spunto per una sua interpretazione del Goldoni, dove quella classe aristocratica si assomiglia, gonfiandosi e ingigantendosi le sue azioni, agli Dei del Walhalla, alla vigilia di una rivoluzione, che pare, nello sfondo, supposto, un crepuscolo wagneriano degli Dei).
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Turismo iperbolico
In questo stesso momento, mentre io, seduto al mio tavolino, vado scrivendo, con la penna, parola per parola, queste righe, nell'aria densa e umida di scirocco della tarda stagione di Roma, amici e conoscenti (salvo quelli che l'asiatica nasconde tra i cuscini), vanno viaggiando nei paesi più lontani.
Questi è in Giappone, quello in America, quell'altro in Cina, o in Persia, o nel Ghana, o in chissà quale altro remoto angolo della terra.
I telefoni squillano invano nelle stanze vuote: treni, navi, aeroplani velocissimi li conducono qua e là, tra genti diverse, sotto altri cieli, approfittando ciascuno delle mille occasioni di questo tempo di viaggi e di scambi; congressi, delegazioni, compagnie.
In compenso, torpedoni mostruosi invadono, come lucide torme di scarafaggi, le vecchie strade di Roma, e vomitano sui selciati, dai loro ventri metallici, innumerevoli cavalli di Troia, gli anonimi guerrieri del turismo di massa.
Riempiono le strade, le piazze, gli alberghi, le chiese: sono dappertutto, come un'invasione di formiche.
E non si sa che cosa veramente li spinga a lasciare d'un tratto, tutti insieme, le case lontane, e a esporsi, senza un bisogno o un interesse particolare, ai disagi e alle spese dei lunghi viaggi.
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Ammazzare il tempo
In questa eterna città di Roma, dove il popolo, come per un antico genio, è uso assistere al passaggio del tempo, senza illusioni, come a uno spettacolo che già si conosce, a un teatro di paladini, e vi partecipa soltanto come si partecipa a una rappresentazione teatrale, tutto pare volgersi anche le feste, il Capodanno, la Befana, San Giovanni, le partite Roma-Lazio, a contesa, rissa di strada, distruzione, ingiuria.
Più di ogni cosa si offende e si ingiuria il tempo, perché si sa bene che è eterno, e indifferente; la morte, perché tace, e chi è morto, non ha più posto nel teatro del mondo, ha il torto di non esistere, è un vuoto, ha disertato; gli arbitri delle partite, (non è, il tempo, l'arbitro di ogni cosa?); gli oggetti fuori uso, perché sono morti.
«Bisogna sfascia’ tutto», dicono gli operai, chiamati per qualunque riparazione, con viso beatamente feroce.
Così, anche più di tutte le altre feste, il Capodanno è una battaglia.
Per chi è normalmente occupato ad ammazzare il tempo, questo è il momento eccitante in cui si può ammazzarlo veramente, con fragore e violenza.
L'anno finito, è morto, viene stanato, cacciato, insultato, perseguitato, torturato, virgola, ucciso.
Gli oggetti vecchi, fracassati con barbara delizia.
Dall’alta terrazza dove mi trovo mentre l'orologio suona i dodici tocchi, vedo tutta Roma stendersi da ogni parte, nell'aria dolcissima: un cielo a pecorelle con uno spicchio di luna copre la distesa nera e violetta delle terrazze e delle cupole, i fuochi d'artificio, le urla, le sirene, i fischi, le grida, il rumore, gli spari, le castagnole, i tric-trac, i mortaretti, i «botti», le girandole, gli scoppi vicini e lontani, la grande battaglia che si accende da ogni parte, in ogni via, nella grande distesa notturna.
Luoghi narranti narrati o citati: Via di Santa Croce - Piazza di Spagna
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I punti di vista
Si usa dire volgarmente, da coloro che esaminano un problema, o dibattono una questione complessa e controversa, senza una vera volontà di risolverla, che «tutto è questione di punti di vista»: ciò che può essere insieme un'affermazione di tolleranza, o una confessione di indifferenza.
Certo, tutte le cose sono complesse e doppie e molteplici; ed assai diverso, se vogliamo usare l'immagine gastronomica di un poeta, essere «farcitore», o «farcito» (cioè soggetto o oggetto, egemone o subalterno, e così via).
Quello che per l'uno può essere il massimo dei beni, è per l'altro il più grave dei mali: quello che per l'uno e un fuscello può apparire all'altro una trave, quello che per l'uno e un bicchiere mezzo pieno, per l'altro è un bicchiere mezzo vuoto.
Ma lasciamo da parte queste veramente troppo ovvie considerazioni morali: non è, del resto, solo questione di condizione umana; ma le cose possono essere obiettivamente diverse, e avere intensità e valore anche soltanto per una diversa situazione, o costituzione, o abitudine, per un diverso angolo visuale: letteralmente per un diverso punto di vista.
Luoghi narranti narrati o citati: Piazza Navona - Chiesa di Sant’Agnese
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Il potere dei poveri
Da quel mondo misterioso che si accampa attorno alla città di Roma, come un esercito grigio, dalle bandiere di stracci, in eterna attesa di entrarvi, eternamente respinto dalle mura durissime della vita organizzata, arrivano di continuo, fin sulla porta delle nostre case, strani messaggeri.
Quanti sono!
Il campanello squilla: un uomo compare, con una sua vicenda oscura scritta sul viso, e parla, e racconta.
Tutti li spinge il bisogno, il bisogno elementare e vero: anche quelli che usano l'astuzia, l'inganno, per vivere, e inventano bisogni immaginari per soddisfare quelli reali.
Alcuni di essi finiscono per seguirci per anni, quasi complici della pietà e della debolezza, e stabiliscono con noi un rapporto del quale sono essi, nelle fuggevoli apparizioni sull'uso, a determinare il senso umano: perché ad essi appartiene, in questo rapporto, il potere: lo squallido potere dei poveri.
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Briganti e contadini
Scriverò un giorno la storia vera del mio amico Antonio L., contadino di Lucania e, come egli si definisce, «scrittore popolare».
Questa storia, del resto, egli stava già scrivendo da sé, in certi suoi quadernetti di scuola, dalla copertina di tela cerata nera (come molti altri nei suoi paesi, lo fanno, sotto l'impulso è l'esempio delle autobiografie raccolte da Rocco Scotellaro; nel suo libro “Contadini del Sud”), in una sua prosa naturale; in lunghi racconti che descrivono gli avvenimenti quotidiani di una società straordinariamente differenziata, e piena di regole interne, come un'ignota, aristocrazia, che vive nel villaggio e su una terra desolata, e i cui sentimenti, pensieri, reazioni e concezioni del mondo non potranno mai essere immaginati, per opera di pura fantasia, da chi non li viva e li conosca, fosse anche il più grande degli scrittori.
Nel suo villaggio, Antonio è come un albero in un bosco: pieno di rapporti reali, di legami antichissimi e sicuri; ogni suo gesto fa parte di un tutto e questo tutto è presente, chiaro e comprensibile.
Luoghi narranti narrati o citati: Lucania - Monte Mario - Primavalle
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Piante e semi
Ci sono cose che stanno nei loro luoghi, occupano i loro spazi, vivono la loro vita, così naturali e vere da essere invisibili.
L'occhio di ogni giorno si posa su di esse senza discernerle: ci passiamo innanzi, le guardiamo, e non le percepiamo, forse perché sono tutt'uno con il mondo, non distinte dal tutto: come in una armoniosa architettura, una colonna, una cornice, necessaria e nascosta, o in una frase conclusa, una singola parola che non si stacca dalle altre.
Vederle è una scoperta, un salto in una diversa dimensione di esistenza: se lo facciamo, si apre un altro mondo: il mondo tutto reale della continuità.
In piazza Navona mi sono fermato le migliaia di volte: ma solo ieri, in faccia alla fontana, mi è apparsa la porticina di una botteguccia, e vi ho letto la scritta: «Piante e Semi».
Piantine di rose, in vasi di coccio, stavano in terra sullo scalino dell'uscio; gabbie di uccelli erano appese ai lati della soglia.
Il fischio di un uccello mi ha fatto alzare lo sguardo, e rivelato quella porta antica.
Luoghi narranti narrati o citati: Piazza Navona - Via delle Colonnelle - Arco della Pace - Santa Maria della Pace - Vicolo degli Osti - Piazza di Montevecchio - Via Fezzan - Piazza Amba Alagi - Via Scirè - Viale Etiopia
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Lo scalino di Roma
C'è uno scalino, a Roma, che assai più di una frontiera, di un muro, di un confine; che limite separa due mondi distinti e diversi, che sta, come un simbolo morale e materiale, tra il mondo di fuori e quello di dentro.
Questo scalino, per le donne, è quello dell’uscio di casa.
Al di là di quello, nelle stanze piene di caldo e di disordine, dove non penetra occhio estraneo alla famiglia, le donne si preparano all'uscita, al passaggio di quella soglia, verso la strada degli altri; o si riposano dell'uscita precedente, dell’emozionante fatica dell'essersi mostrate.
Per gli uomini, almeno per quelli dell'antica tradizione popolaresca e plebea, altro è lo scalino, simbolo della virilità e del valore.
«Dentro a Regina Coeli c'è uno scalino / chi non salisce quel non è romano».
Lì si entra, non si esce.
Ma Roma è, per gli uomini e per le donne, fuori dello scalino.
Luoghi narranti narrati o citati: Regina Coeli - Casa di Goethe - Piazza del Popolo - Obelisco del Foro Mussolini - Piazza Augusto Imperatore - Via del Mare - Via della Conciliazione - Albergo Hilton - Eur
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Le città vuote
Il sole sta alto in mezzo al cielo, immobile e invisibile come un re.
È il mezzogiorno della mezza estate, la metà dell'anno, la metà del secolo, la metà, forse, della vita.
Tutto è fermo e senza ombre, tutto è bianco e lucente.
Tutto è amore, o tutto aridezza?
Sotto il sole che penetra dappertutto, fin negli anfratti e nelle fessure dei vicoli, e pare, riempire ogni spazio, ogni cavità, si stendono le città vuote.
Abbandonate dagli abitanti, lasciate sole alla loro natura di pietre, di forme, d'aria, di dimensioni, di solidità, di storia cristallizzata, e se appaiono nuove e diverse, quasi irriconoscibili.
Perché sono così strane e quasi commoventi?
Tanto da trattenermi, e da spingermi, in questi giorni, per strade, piazze, arroventate e accecanti, come a uno spettacolo straordinario?
In una città antica, come Roma, si potrebbe pensare che l'incanto del deserto di Ferragosto sia in un piacere della fantasia che, liberata dalla presenza della folla moderna, automobili, delle macchine, dei rumori, della vita, dell'oggi, creda di ritrovare l'immagine dei tempi veri e passati, delle architetture e goda di questo ritorno.
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Ragazze e alberi
La primavera, a Roma, nasce adulta: non la vedi, se non per un caso fuggevole e raro, uscire freddolosa e tenera dall'inverno.
Quando la incontri, e te ne accorgi, è già grande, come certi ragazzi di crescita precoce, gigantesca che, nei loro giochi ancora infantili, sono più alti dei genitori.
Da molto tempo gli uccelli, sugli alberi del parco, sono tornati a cantare, prima uno solo, poi tutti gli altri insieme, in quel momento di crepuscolo che precede l'alba, quando pare che si sono, nel mondo addormentato, sotto le ultime stelle impallidite, siano in attesa, profeti pennuti di quella nascita luminosa.
Poi il sole sfavilla sul verde scuro, muove tiepide correnti nell'aria che sa di germogli.
La Villa è già da tempo tutto un campo sbocciante, con i fiori, le farfalle, e i cani che seguono le ombre.
Ora si sono mutati, e vestiti di un tratto di verde, anche i viali ritardatari del rione di Prati, dove le strade, le case, le caserme, i platani, sono così piemontesi, che pare trattengano qui a lungo, e rendano distinte, le stagioni, anche qui, dove esse sfumano l'una nell'altra senza risalto, e l'inverno ai colori del marzo, e ogni rigore, di Nord e di Sud, si ferma, come un esercito di barbari intimiditi, alle porte della città, e non entra nelle sue mura.
Luoghi narranti narrati o citati: Prati (quartiere) - Piazza di Spagna - Scalinata di Trinità dei Monti - Pincio
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Cantano insieme i galli e l'usignolo
Da molti anni, è raro che io mi alzi all'alba.
Mi avviene di farlo, a parte qualche occasione straordinaria, quasi soltanto se debbo partire per un viaggio, con uno dei primi treni del mattino.
In questo caso, quel tanto di inabituale, misterioso ed esotico che vi è in quest’ora solitamente nascosta e inesistente, mi trascina già altrove, in un luogo e in un tempo più lontani di quello dove il treno mi porterà.
La città invisibile taceva: ma nella villa l'aria era piena, attorno a me, di una musica altissima e continua: migliaia e migliaia di uccelli la colmavano del loro canto.
Vicino, sul grande albero frondoso che mi copriva il cielo, come un solista in un concerto, con frasi, gorgheggi, fischi, venti, sospensioni, trilli, variazioni, cantava l'usignolo.
Ma, mentre ascoltavo appoggiato al muro, dal basso, dagli orti residui nascosti dietro i palazzi della via Flaminia, un altro canto si levava, e si aggiungeva, in un insieme a me in solido, e straordinario.
Era il canto di decine e decine di galli lontani, con la loro melanconica gloria solitaria, lo squillo lamentoso e trionfale, coraggioso desolato delle creste guerriere, prigioniere dei pollai.
«Cantano insieme i galli e l'usignolo».
E per un momento mi parve, come chi ha scoperto una realtà nascosta, ed è entrato, per amore, una cosa vera, di essere nel cuore delle cose, di essere, con esse, malgrado tutto felice.
Luoghi narranti narrati o citati: Basilica di San Pietro - Monte Mario - Via Flaminia
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Viaggio d'estate
L'estate, quest'anno, è scesa su Roma, pesante, spietata, come un oggetto invisibile che grava sulle cose; come se l'aria fosse solida, e premesse sulle spalle degli uomini come l'età, le cure, o la malattia: come uno zaino militare in una sudata marcia senza fine.
Nuvole grigiastre e confuse si formano nel cielo, come minacce incerte, e svaniscono nell'afa.
Sotto la vampa del sole, l'erba dei prati di Villa Borghese intristisce e perde il suo verde; la terra diventa polvere: sulla polvere e gli steli ingialliti giacciono le carte delle merende passate, gli avanzi di pane secco, invasi dalle formiche.
All'ombra dei grandi platani, stanno stesi, abbandonati come dei cadaveri, con un giornale sul viso, dei corpi umani: i loro sonno e così ostinato, volontario, deliberato, testardo, senza riserve, che assomiglia alla morte: qualcuno, cercando maggior frescura, si sceglie, per giacere, qualche fossa erbosa, dove il sole è forse meno feroce.
È un grande prato, riservato alle passeggiate libere dei cani, che vi possono scorrazzare a loro piacere, e annusare odori deliziosi, e fingersi in remoti campagne selvagge, e inseguire le ombre, felici illusioni infantili.
Luoghi narranti narrati o citati: Villa Borghese - Pozzuoli - Tivoli - Giardino Zoologico
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La luna nuova
Le immagini passano presto, svaniscono nell'ombra della memoria, quando, ogni giorno, altre le raggiungono e vi si sovrappongono, in un fluire tutto pieno, come le acque compatte e sempre nuove di un fiume rapido e tumultuoso.
Ma quella della notte del 13 settembre, dove tuttavia nulla avvenne che potesse essere visto con gli occhi, non si nasconderà nella nuvola del tempo.
Fu una notte commovente di sentimenti arcani, più vaghi, profondi e oscuri che il brillare fantasticante dell'immaginazione.
Tutti guardavamo la luna: una luna di tre quarti, limpida nel cielo sereno, con le sue figure e le sue macchie dove tutti hanno disegnato nei secoli visi e e spine a se stessi; con la zona scura verso la destra dove ci pareva di vedere un cane accucciato, e che avremmo saputo poi chiamarsi col nome del Mare della Tranquillità, della Serenità, dei Vapori.
Era la luna bianca e fredda di ogni notte: ma l'attesa la faceva apparire diversa, come se fosse l'ultima volta che la si contemplava, ed essa potesse a un tratto scomparire.
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22 - Un bambino che vola
23 - Dopo la festa
24 - Sostanza e accidente
25 - Le tarme
26 - I giocattoli giapponesi
27 - Calcio e letterati
28 - La marrana e il morbillo
29 - Un ragazzo che rubava autoradio a piazza Navona
30 - Il labirinto
31 - La città dei fratelli
32 - L'estate si scioglie in nebbia
33 - Roma fuggitiva
L’AUTORE
Carlo Levi, nato a Torino il 29 novembre 1902 e morto a Roma il 4 gennaio 1975, scrittore, pittore e politico, è stato uno degli intellettuali di spicco del Novecento italiano.
La profonda amicizia e l'assidua frequentazione di Felice Casorati orientano la prima attività artistica del giovane Levi, con le opere pittoriche Ritratto del padre (1923) e il levigato nudo di Arcadia, con il quale partecipa alla Biennale di Venezia del 1924.
Dopo i soggiorni a Parigi, dove aveva mantenuto uno studio, la sua pittura, influenzata dalla Scuola di Parigi, subisce un ulteriore cambiamento stilistico.
Levi, per una precisa posizione culturale coerente con le sue idee, considerava espressione di libertà la pittura, in contrapposizione formale e sostanziale alla retorica dell'arte ufficiale, secondo lui sempre più sottomessa al conformismo del regime fascista e al modernismo del movimento futurista.
Nel 1931 si unisce al movimento antifascista di "Giustizia e libertà", fondato tre anni prima da Carlo Rosselli, e tra il 1935 e il 1936 fu condannato dal regime al confino in Lucania, e da quell’esperienza nacque "Cristo si è fermato a Eboli", oltre a un indissolubile legame con il paese di Aliano, dove volle essere sepolto alla sua morte.
La sua eclettica attività creativa e politica, dal dopoguerra in poi, fu intensamente intrecciata a quella di instancabile viaggiatore e, tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni settanta, intraprese una serie di viaggi che lo portarono fino in in Russia, India, Cina, Stati Uniti e Cile.
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Fotografo documentarista geografico dal 1977; 40 anni da viaggiatore resiliente in Italia, oggi Divulgatore Geografico - Storyteller - Travel Blogger - Podcaster; Meridionalista innamorato dell'Italia, narro e faccio conoscere il Bel Paese, il più grande giardino emozionale diffuso.
Nel 2005 apro il blog Penisolabella seguito da Agricoltour e Va dove (ti) Porta il Treno e mi ritrovo ad essere l'unico blogger a raccontare l'Italia minore con la M maiuscola


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