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Roma fuggitiva tra 1951 e 1963 di Carlo Levi

È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile». 

Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità: «È il popolo meno retorico, meno idolatrico e meno fanatico della terra. Neanche il tempo lo commuove o lo spaventa, perché l’ha tutto raccolto sull’uscio, a portata di mano, poiché Roma è l’immagine stessa del tempo, della infinita contemporaneità». 

Si sente il respiro di una città bellissima, in cui risplende tutta l’autenticità di una «umile Italia», non ancora oppressa dal degrado, e tuttavia già insidiata dalle trasformazioni sempre più accelerate degli anni Sessanta, sotto i colpi della speculazione e della cattiva politica, di una frettolosa e incolta modernità.

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Il popolo di Roma

Uno dei 47 milioni (secondo il più recente censimento) di poeti o versificatore italiani viventi, ha scritto, a proposito del popolo di Roma, la seguente strampalata quartina, che ho letto per caso, e che, se non brilla di certo per eminente valore letterario, se non è il Belli, neanche apocrifo, non è priva, tuttavia, di una certa verità: 

"Il popolo di Roma è un populusque

al Senato e alla Curia apparentato 

e durerà nei secoli, quousque 

l'ultima goccia non si sia scolato."

L'ultima goccia, credo che si debba intendere di vino dei Castelli; a meno che il poeta non intendesse, metafisicamente, l'ultima goccia del tempo, al termine dei secoli, che i romani si sarebbero, con piacevole indifferenza, scolato fino alla fine, come un vino.

Questa mi parrebbe un'interpretazione troppo ardita, forse temeraria; ma comunque la si intenda, l'una e l'altra lezione è egualmente sensata; e, in fondo, esse sono equivalenti, se si pensa che i romani sono i soli a saper resistere, con uguale imperturbabilità, all'ingannevole e greve, veleno del loro vino, così come agli inganni non meno grevi e velenosi del tempo; e che, come, per l'uso da tempo immemorabile, essi si sono adattati, si sono mitridatizzati a quel vino, e l'hanno reso per sé innocuo per opera del tempo, così hanno fatto innocuo, per sé, il tempo, per virtù del vino, nel quale lo hanno affogato tutto intero, con tutto l'antichissimo, passato, tutte le glorie e tutte le miserie. 

Luoghi narranti narrati e citati: Piazza dl Popolo - Foro (Campo Vaccino) - Palazzo Chigi - Argentina (largo) - Fontana delle Tartarughe - Ghetto - Montello - Piglio - Museo del Campidoglio - Antica Pesa - Trastevere - Villa Doria (Pamphili) - Porta San Giovanni - Piazza Bologna - Via Nomentana - Viale Tiziano - Garbatella - Primavalle - Campo dei Fiori - San Lorenzo (quartiere) - Porta San Paolo

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La solitudine di Roma

Anche chi non esce di casa e resta chiuso nella sua stanza, non si affaccia alla finestra, non legge il giornale, non parla con il portinaio o con la donna, anche il recluso, il carcerato o il monaco o il malato, anche il cieco, a Roma, non può non accorgersi dei giorni di festa. 

Non può non accorgersene, perché tutta l'aria che lo circonda, la sua qualità, la sua consistenza, la sua elasticità, la sua natura, pare cambiata. 

Sono piccoli segni quasi inavvertibili, ma, fin dal mattino, si sente tremare qualche cosa e, soprattutto, si sente alterato e diverso il succedersi dei suoni abituali, quel brusio continuato, come di una conchiglia marina appoggiata all'orecchio, che è il suono barocco della città e che giunge invece mutato, interrotto a tratti, attraversato da inaspettati crepitii e da improvvisi silenzi. 

Poiché le feste, le grandi feste, a Roma sono, si può dire, sonore e atmosferiche, e si celebrano nel rumore e nell'aria. 

Sono, in fondo, feste campestri, per le quali, di colpo e all'improvviso, la città diventa quella che era prima della storia: campagna e foresta; e ai meccanici suoni cittadini si sostituiscono i gridi degli animali e lo stormire delle fronde.

Luoghi narranti narrati e citati: Piazza Navona

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3 - La moneta da due centesimi

4 - Passeggiata domenicale

5 - L'elicottero

6 - Apparizioni a Roma

7 - Il dovere della cometa

8 - Elegia di Ferragosto

9 - Turismo iperbolico

10 - Ammazzare il tempo

11 - I punti di vista

12 - Il potere dei poveri

13 - Briganti e contadini

14 - Piante e semi

15 - Lo scalino di Roma

16 - Le città vuote

17 - Ragazze e alberi

18 - Cantano insieme i galli e l'usignolo

19 - Viaggio d'estate

20 - La luna nuova

21 - San Lorenzo e San Paolo

22 - Un bambino che vola

23 - Dopo la festa

24 - Sostanza e accidente

25 - Le tarme

26 - I giocattoli giapponesi

27 - Calcio e letterati

28 - La marrana e il morbillo

29 - Un ragazzo che rubava autoradio a piazza Navona

30 - Il labirinto

31 - La città dei fratelli

32 - L'estate si scioglie in nebbia

33 - Roma fuggitiva

L’AUTORE

Carlo Levi, nato a Torino il 29 novembre 1902 e morto a Roma il 4 gennaio 1975, scrittore, pittore e politico, è stato uno degli intellettuali di spicco del Novecento italiano. 

La profonda amicizia e l'assidua frequentazione di Felice Casorati orientano la prima attività artistica del giovane Levi, con le opere pittoriche Ritratto del padre (1923) e il levigato nudo di Arcadia, con il quale partecipa alla Biennale di Venezia del 1924. 

Dopo i soggiorni a Parigi, dove aveva mantenuto uno studio, la sua pittura, influenzata dalla Scuola di Parigi, subisce un ulteriore cambiamento stilistico.

Levi, per una precisa posizione culturale coerente con le sue idee, considerava espressione di libertà la pittura, in contrapposizione formale e sostanziale alla retorica dell'arte ufficiale, secondo lui sempre più sottomessa al conformismo del regime fascista e al modernismo del movimento futurista.

Nel 1931 si unisce al movimento antifascista di "Giustizia e libertà", fondato tre anni prima da Carlo Rosselli, e tra il 1935 e il 1936 fu condannato dal regime al confino in Lucania, e da quell’esperienza nacque "Cristo si è fermato a Eboli", oltre a un indissolubile legame con il paese di Aliano, dove volle essere sepolto alla sua morte. 

La sua eclettica attività creativa e politica, dal dopoguerra in poi, fu intensamente intrecciata a quella di instancabile viaggiatore e, tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni settanta, intraprese una serie di viaggi che lo portarono fino in in Russia, India, Cina, Stati Uniti e Cile. 

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