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«...Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta ...» (Nuto Revelli)
Il dialogo con la gente contadina di Revelli incomincia con la primavera del 1941.
Testimonianze di cultura contadina, la pianura, la collina, la montagna, le Langhe: la fame, il lavoro infantile, l'immigrazione, la convivenza tra partigiani e nazi fascisti.
E poi l'abbandono delle montagne, l'avvento di un nuovo mondo: l'industria, i grandi allevamenti, il turismo che figura il paesaggio.
Nei racconti dei 270 intervistati da Revelli - i contadini e montanari delle valli cuneesi, i vinti di sempre - scorre una linfa poetica che affiora negli scatti della memoria, con immagini e parole capaci di lasciare il segno.
A volte cariche di dolore per le sofferenze delle vite passate, a volte cariche di ingenuità.
Il ritratto della condizione umana di una minoranza costretta a lasciare i propri modelli di vita diventa lo specchio di una società malata, la denuncia dell'incapacità di ordinare in modo civile trasformazioni epocali che hanno assunto dimensioni drammatiche, dal Veneto alla Calabria.
ASCOLTA i PODCAST dell’intero libro capitolo per capitolo
CAPITOLO PRIMO completo
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Capitolo Primo
Il mio dialogo con la gente contadina incomincia con la primavera del 1941, nella caserma «Cesare Battisti» del 2° Reggimento Alpini.
Il battaglione Borgo San Dalmazzo era appena rientrato dall'Albania, io ero appena uscito dall'Accademia di Modena.
Stanchi, disincantati, i miei soldati subivano la vita militare come una malattia, sognavano soltanto le «licenze agricole».
Io invece ero orgoglioso della mia divisa, ero impaziente di combattere, di vincere! Poi la Russia, la lunga marcia della follia.
Anche nei quaranta gradi sotto zero il mio dialogo continuava incredibilmente vivo: «Ricorda, - mi dicevo, - ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
E maledico la guerra, i generali, il fascismo.
Il primo confronto elettorale mi disse che il mondo contadino era proprio incapace di una scelta libera, autonoma: il voto diventò subito un tributo da pagare ai parroci, ai capi-mafia, ai padroni.
Risalivo le valli a parlare di Monarchia e Repubblica a portare il discorso nuovo del Partito d'Azione.
Ma incontravo soltanto diffidenza e paura.
Erano gli anni delle grandi scelte.
Occorrevano almeno e subito alcune riforme timide, prudenti, che ponessero fine allo sfruttamento, al colonialismo.
Ma la fiammata della Liberazione si era spenta troppo in fretta, era di nuovo il potere che contava, il potere fine a se stesso; era il controllo delle masse contadine la grande risorsa della restaurazione.
La nostra campagna povera aveva una dimensione enorme, i due terzi della provincia di Cuneo erano fazzoletti di terra dispersi o ricuciti in poderi di pochi ettari.
La montagna e l'alta Langa erano le zone più depresse.
In montagna la terra apparteneva ai morti tanto era difficile frazionare la miseria. In pianura, ai margini dell'agricoltura ricca, la piccola proprietà sopravviveva a stento.
Ristrutturare il mondo contadino voleva dire emancipare la gente, svegliarla, educarla politicamente, inserirla nel sistema, demolendo una volta per sempre i confini del ghetto.
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La Pianura
La pianura Margarita, un paese della pianura quasi ricca, un paese a una dozzina di chilometri da Cuneo, malgrado tutto è ancora un centro contadino.
Ma in crisi, perché la sua campagna è vecchia.
Dopo Margherita, Peveragno, qui altra situazione, qui anche la piccolissima azienda agricola, anche l'azienda di tre giornate, riesce a sopravvivere.
La chiave del miracolo?
Nel recente passato Peveragno ha saputo scegliere una coltivazione valida, la coltivazione della fragola, e oggi esporta quasi tutto il suo prodotto in Svizzera; oggi guarda con una certa sicurezza al domani.
È con le sue sole forze, e con ingegno e laboriosità, che la gente di Peveragno ha trasformato la sua «zona depressa» in una «serra» ricca di prodotti pregiati.
Dopo Margherita e Peveragno estendo la mia ricerca ad altre zone, affidandomi al caso, a chi trovo trovo, per i mie incontri e le mie interviste.
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La Collina
Come primo ponte tra la pianura e la montagna scelgo la zona di Vignolo e di Cervasca, una fascia di piano con alle spalle la collina, una zona a quattro passi da Cuneo.
Oggi, lungo la fascia pedemontana che unisce Vignolo a Caraglio, incontro povertà e benessere, ciabot in disarmo e cascinotte che sopravvivono.
Le colture specializzate, i fagioli, i peperoni, i pomodori, hanno reso prospere non poche piccole aziende agricole.
L'edilizia rurale si è ringiovanita, l'edilizia residenziale un po' rallegra il piano e la collina.
Ma è verso l'alto, dove le strade diventano mulattiere, che riappare l'India!
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La Montagna
La montagna la percorro è lungo e in largo, tocco le valli del Monregalese, salgo e risalgo lungo le valli Gesso, Stura, Grana, Maira, Varaita, e Po.
Valli diverse ma tutte uguali, tutte soffocate da molti problemi senza soluzione.
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Le Langhe
Le colline che si staccano dal Tanaro sono un mosaico di vigneti, di campi verdi e gialli, di terre nude, dure, arse, grigie e bianche, pronte per gli scassi.
Poi il confine tra la bassa e l'alta Langa, il giardino dei vigneti che si dirada le colline che si spogliano, che diventano montagna.
Chi non conosce le Langhe rischia di perdersi in questo oceano di mari calmi e di mari in burrasca, sempre diversi e sempre uguali, riconoscibili dalle pareti di tufo, dai ritani - ossia valloni profondi -, dalle torri, dai castelli, dai bricchi.
È un paesaggio, quello delle Langhe, che sempre mi incanta.
La bassa Langa geometrica ma morbida; l'alta Langa a tratti aspra come tagliata con l'accetta, ma mai cupa come la montagna.
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CAPITOLO SECONDO
La fame di pane, la gente che emigrava in Francia e nelle Americhe, la scuola dei poveri e i bacherot, le masche, il prete, i lunghi inverni le lunghe veglie, questo il mondo dei miei «testimoni».
Mettiamo nel conto anche le guerre e il quadro è completo.
Ma una cosa è inventariare queste miserie, e magari «tornirle», magari abbellirle letterariamente, e un'altra cosa è ascoltare centinaia di testimonianze e poi trascrivere come tanti testamenti.
È tutto qui il senso della mia ricerca, nel dare un nome e un cognome ai «testimoni», nel rispettare, senza mai forzare, senza mai distorcere, i loro discorsi.
Le testimonianze sono un libro a sé, sono un documento leggibilissimo anche senza alcuna chiave di lettura.
Ma il discorso che ho recepito lungo l'arco della ricerca è molto più ampio di quello che esce dalle testimonianze.
Ho intervistato 270 contadini, ma ho avvicinato almeno un migliaio di persone.
Ecco perché giudico non necessaria ma nemmeno inutile una mia interpretazione delle testimonianze, un’interpretazione che tenda soltanto a fare emergere i «grandi temi» così ricchi di suggerimenti, di proposte, di inviti ad allargare e approfondire i discorsi.
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TESTIMONIANZE DI VITA CONTADINA
LA PIANURA
Contiamo sempre di meno nel mondo che cambia
Pietro Balsamo, detto l’American, nato a Margarita, classe 1894, contadino
Concetta Balsamo, nata a Margarita, classe 1930, contadina
Francesco Balsamo, nato a Margarita, classe 1933, contadino
L'America era come l'Italia
Giovanni Forzano, nato a Margarita, classe 1887, contadino
Ero di una famiglia povera, padre, madre, tre sorelle e io, una sorella era da serventa e io da servitore [...]
Per noi l’America era come l’Italia.
Io ho cominciato a lavorare in campagna, e mia moglie faceva la serva alla padrona.
Siamo stati solo tre anni, là non s’era da fare risorse.
Tornati con quattromila lire di risparmio abbiamo comprato un po’ di terra, abbiamo ripreso a lavorare giorno e notte.
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Anche dove non sanno che c'è il comunista, c'è il comunista
Giacomo Martinengo, nato a Margarita, classe 1886, contadino, panettiere, operaio
Mio padre aveva una macelleria, e affittava un po’ di terra.
Eravamo quattro fratelli e due sorelle, io ero il più giovane.
Sono andato da vaché nel 1900: ci mandavano da servi in campagna perché imparassimo a guadagnarci il pane.
La scuola arrivava fino alla terza.
Ma io ho fatto la sesta perché l’anno in cui è morto Giuseppe Verdi sono andato a lavorare a Cuneo, come apprendista panettiere.
Alla vigilia del 1915 a Margarita c’era già il socialismo, eravamo già quaranta e passa gli iscritti in quei tempi là.
Avevamo nascosto la bandiera del socialismo
Battista Martinengo, nato a Margarita, classe 1901, contadino, narratore
Nel paese avevamo nascosto la bandiera del socialismo.
Tutte le notti venivano i fascisti da Fossano, da Cuneo, a cercarla.
Qui nel paese c’erano le spie.
Chi erano gli antifascisti di Margarita?
Erano gente come noi, operai, muratori, tutta gente che lavorava sotto gli altri.
Ma che festa quando è arrivato il 25 aprile!
Paola Martinengo in Ponsetto, nata a Margarita, classe 1906
Dovrei raccontare tutto è un calvario.
Era mica facile essere comunisti in un paese come Margarita.
Una volta, sono arrivati i fascisti da Cuneo, vestiti di nero e col manganello.
Hanno invaso la nostra casa, hanno buttato tutto per aria, «la vostra famiglia la allevate nel fango», dicevano a mio padre e mia madre, e giù insulti e maltrattamenti.
Oggi sono tutti ricchi. Chi accetterebbe ancora una vita come la nostra?
Giovanni Toselli, detto Gianin d’Ariund, nato a Peveragno, classe 1887, contadino, muratore.
Nel 1900 metà della gente di Peveragno era in Francia o in America.
Oh, ne partivano tanti per l'America, partivano per arrivare là a Natale a fare ancora la cuseccia, ossia la campagna del grano, con la vettura fino a Beinette e poi in treno a Genova dove si imbarcavano.
Oh, ragazze disposte a sposarsi, disposte ad andare in America?
Oh, ne trovavano di ragazze, allora si andava facilmente in America.
Qui non c'era lavoro, c'era miseria.
È brutto quando mancano i soldi, quando mancano 19 soldi a fare la lira.
I debiti fanno paura.
Oggi sono tutti ricchi.
Chi accetterebbe ancora una vita come la nostra?
Il più povero di Peveragno è più ricco di allora
Caterina Toselli, vedova Tassone, detta Nuia, nata a Peveragno, classe 1890.
Mio padre da giovane era nell'America del Nord, a New York, a cercare fortuna.
Si diceva che là gli alberi fossero carichi di sterline.
Mia madre da bambina andava a servire in campagna da vachera, dalle parti di San Magno, presso gente che se la faceva bene.
Nel 1875 mio padre torna dall'America per sposarsi.
È un giovane elegante, porta la camicia con il colletto duro, ha i gemelli d'oro, è un buon partito.
Mia madre è una bella donna di vent'anni, lavora alla filatura.
Come mio padre la vede si innamora.
La miseria era tanta, e la gente tirava avanti a forza di economie.
A Peveragno le Magrotule - due vecchie che erano mica povere, che avevano un bel po' di campagna, mi ricordo come se la rivedessi adesso - metteva la polenta nemmeno nel piatto, la teneva in una mano e nell'altra mano tenevano l'acciuga. Mangiavano un boccone di polenta e leccavano l'acciuga.
Quando la polenta era finita l'acciuga era ancora intatta.
Era molto interessata alla gente, anche i pochi ricchi del paese non sprecavano, tendevano a fare sempre più soldi, a risparmiare le cento lire.
Oggi il più povero di Peveragno è più ricco del ricco di allora.
Il più povero di Peveragno è più ricco di allora
Giuseppe Daniele, nato a Cherasco, frazione Cervere, classe 1887, contadino.
Sapesse che vita abbiamo fatto per mettere assieme dieci giornate di terra!
Siamo partiti da zero, abbiamo tribolato fino a che la famiglia è cresciuta, oh sacramenta.
Quante volte abbiamo mangiato uno spicchio d'aglio e pane ammuffito, anticristo. Avevamo niente.
Morivano tanti bambini per dei nutrimento, per fame: eh, la miseria è brutta!
Mangiavamo il pane ammuffito con la barba sopra: con una manata toglievamo il più grosso della muffa e non perdevamo una briciola, altro che adesso che tanti il pane lo buttano via, lo sprecano.
In guerra non ci siamo mai ribellati, non eravamo mica capaci di ribellarci; non avevamo nemmeno più fame in trincea, tanta era la paura, tante erano le sofferenze.
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Via per il mondo a cercare la vita
Michele Costamagna, detto Chin ‘l Giardinè, nato a Isola di Bene Vagienna, classe 1886, contadino.
Mio cè, il padre di mio padre, era fattore alla masueria, grossa tenuta a mezzadria, di Isola sotto un padrone proprietario di cento giornate a vigneto.
Comandava i boari.
Poi ha dato una dote un po' grossa a due figlie, mille lire, allora è stata la sua rovina.
Si è trasferito qui a Crava a fare il giardiniere.
Così sono cresciuto quasi nella miseria perché mio padre aveva niente e la famiglia era numerosa, padre, madre, sei figli, e il nonno, in nove a vivere di niente.
Non sapevo che cosa erano le scarpe, sempre scalzo con gli zoccoli nei piedi.
Nel 1904 sono andato in Francia perché ero stufo di fare il servitore che non mi davano da mangiare.
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A certe mire c'è proprio il Signore, se no dovevo morire
Giuseppe Fino, nato a Revello, classe 1909, contadino, operaio.
Mio padre, assieme ai due fratelli, conduceva in affitto una cascina di cento giornate.
Mia madre, pur di rimediare qualche soldo, lavorava durante l'estate alla filanda di Revello, nella campagna, nella stagione in cui giravano i bozzoli, in cui si preparavano i bozzoli per la cottura.
Sono uscito la prima volta di casa nel 1917, non avevo ancora otto anni.
Nell'estate ci siamo ricoperti di pidocchi, i pidocchi ci mangiavano, ci facevano morire.
Anche le mosche ci mangiavano, di notte ci svegliavano, era un brusio continuo, come di uno sciame di api.
Al mattino avevamo la faccia nera come il soffitto.
C'era una signora che una volta mi disse: «Vieni un po' qui che ti guardi».
Mi apre la camicia, «Oh povero bambino, come fai a vivere così?», ero tutto morsicato, una sola piaga.
È uscita la spagnola, l'hanno presa tutti meno io.
Guardate che il Signore aiuta, a certe mire c'è proprio il Signore, altrimenti dovevo morire.
La sogno ancora adesso la filanda
Teresa Bertolino, nata a Rocca de’ Baldi, classe 1910, contadina e operaia.
In campagna mancava la grana, niente soldi, almeno in casa mia.
Vivevamo con l'economia, seguendo il proverbio di mio padre: «Alla mattina la polenta, a dopo pranzo condita, alla sera la putia, la poltiglia».
La putia era la paciarina, farina di granoturco e acqua e sale, e dentro un chilo di castagne, la cena era tutta lì.
A volte, per pranzo, polenta e rape fritte nel lardo, rape nere, bruciacchiate.
Nel 1921, a 11 anni, finalmente sono diventata una filera, a Crava.
Nella filanda lavoravano 250 persone.
Ero felice di lavorare.
Non c'era ancora la busta paga, niente marchette, dieci ore al giorno, ventiquattro lire alla quindicina.
Occorreva molta agilità nelle dita e la vista buona, l'occhio clinico.
Mi piaceva da matti il lavoro della filanda, la sogno ancora adesso la filanda, tornerei domani a lavorare in filanda.
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Mai guardare il sesso, se no diventi cieco
Bernardino Galleano, detto Nadu, nato a Pianfei, classe 1913, contadino.
Nel 1902 mio padre era in Argentina.
Nel 1909 rimpatria per sposarsi.
Nel 1910 al primo figlio, nel 1912 il secondo, nel 1913 il terzo, nel 1914 il quarto, poi arriva la guerra se no non smetteva.
Il sesso, in quei tempi tanti giovani erano così timidi che non riuscivano nemmeno a parlare con una ragazza.
Quello del sesso era un discorso proibito.
La morale corrente era questa: «Per carità ... non bisogna mai parlare di quella cosa. E mai guardare il sesso, sennò diventi cieco».
Per molti giovani la prima esperienza coincideva con i giorni da bayét: da coscritto si finiva sempre una casa di tolleranza.
Era poi la vita militare che un po' svegliava i giovani.
Fare l'amore era difficile, le ragazze erano mica libere come adesso.
Nelle ore del pascolo magari si diceva una ragazza: «hai bisogno di un manovale» e se la proposta ardita andava a bersaglio tanto meglio.
Anche sui balli si presentavano le occasioni, era più facile concludere con le ragazze che non sapevano ballare che si annoiavano ai bordi delle balene.
Le ragazze ballerine erano più sveglie e sapevano come difendersi!
Il pane degli altri ha sette croste
Giuseppe Castellino, nato a Crava di Rocca de’ Baldi, frazione Scalagrano, classe 1916, contadino.
[...] A fare piazza a Fossano, i giorni di mercato, dove adesso c'è la piazza delle corriere, c'erano sempre un ottantina di servente e servitù che si offrivano.
La fiera era di fronte alla chiesa, e se usciva il padrone si partiva subito, non tornavamo nemmeno più a casa.
Questi mercati c'erano fino a prima dell'ultima guerra.
Poi ci sono stati di nuovo, ci sono ancora oggi, ma solo per i meridionali, per i calabresi, ancora due anni fa ne ho visti alcuni sul mercato di Fossano che volevano aggiustarsi.
Devi sapere che il pane degli altri ha sette croste, ah caro Nuto ..., sette croste, allora era duro caro mio a mangiarlo. [...]
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Li conosco i fascisti che mi hanno fucilato
Bartolomeo Garro, nato a San Benigno di Cuneo, classe 1921, contadino e commerciante.
Il 2 febbraio 1945, era un venerdì mattina, era il giorno della Candelora, alle dieci aveva inizio la funzione della parrocchia di San Benigno.
Mentre fuori della chiesa stavo parlando con alcuni uomini, vedo che arriva una moto-sidecar con sopra una mitragliatrice Breda puntata in avanti.
Tiriamo a scappare, io tento di infilare la porta della chiesa parrocchiale, ma la moto si para dinanzi e uno dei fascisti grida: «Non muovetevi, altrimenti spariamo».
Arriva un camion con una ventina di fascisti armati, indossano i giacconi di pelle, sono della questura, della polizia di Cuneo.
Li comanda un tenente, Frezza, uno piccolo e tozzo, un talpone alto così.
I fascisti radunano tutti noi che siamo sulla piazza della chiesa; poi entrano in chiesa, catturano altri giovani e li portano fuori.
Obbligano i vecchi, le donne, i bambini, a rimanere in chiesa.
Il tenente Frezza ordina di fare fuoco, sento cinque raffiche, non vedo più nessuno vicino a me, resto in piedi.
«Sono rimasto solo», penso.
Il tenente Frezza ordina di nuovo di fare fuoco, uno sten spara contro di me.
Cado in avanti, una pallottola mi ha colpito nel torace.
Sento i gemiti, sento dei colpi singoli di mitra, sono i colpi di grazia.
Infine un gran silenzio.
Un fascista grida: «Signor tenente, questo vive ancora».
Cadendo in avanti ho battuto il mento, ho del sangue in bocca.
Tento di alzarmi per riprendere un po' di fiato, ma come butto le mani in avanti per sollevarmi vedo che il tenente Frezza mi è vicino con il mitra.
Sento un colpo, paf, e ricado giù. Perdo i sensi.
Il tenente voleva colpirmi alla tempia, proprio nel momento in cui mi stavo muovendo, così la pallottola è entrata sotto l'orecchio destro ed è uscita sotto l'orecchio sinistro.
Sento che mi toccano, sento delle voci amiche.
Sento che dicono: «Fai portare l'olio santo».
Adesso che i fascisti hanno aperto la porta della chiesa e sono scappati, anche mia mamma è corsa a vedere la tragedia.
A poco a poco riprendo coscienza, vedo mia madre che mi bacia, che sta piangendo.
C’è chi suggerisce di portarmi via, di soccorrermi. Ma restano tutti lì, immobili. Hanno paura che i fascisti ritornino, sono sotto l'impressione del massacro.
Resto lì due ore, con accanto i due o tre più coraggiosi.
Sento la gente che prega, sento il parroco che dice: «muore da un momento all'altro, muore, muore».
Sento che mormorano, che dicono: «Se arrivano i fascisti ci bruciano la casa». Hanno tutti tanta paura.
Io non posso parlare, ho le mandibole spaccate, ho la lingua bruciata.
E faccio segno con dito, con un dito dico: «no no, non muoio». Mi sento vivo.
Chi non andava in Francia non era gente
Michele Giuseppe Lucchese, nato a Roccasparvera, classe 1885, contadino.
Chi non andava in Francia non era mica gente, Oh per carità, chi non andava in Francia non era pregiato.
Ci andavano rami e ramaglie, uomini e donne e bambini.
Le donne? Partivano di qui, andavano in Francia a raccogliere i fiori a Hyères di Tolone, otto dieci donne in gruppo andavano in là a piedi.
Mio fratello del 1887, Bertu, è stato in Francia a Barcellona a piedi, ma non ha trovato lavoro ed è tornato in qua a piedi, aveva 50 soldi in tasca, due lire e cinquanta, tutto il suo avere, è arrivato e cadeva, crollava della stanchezza.
Eh, la miseria!
In quei tempi là c'era Giolitti che governava, Giolitti era un grande uomo, rispettato all'interno e all'esterno, con un passaporto da quattro soldi la gente andava tutto dove voleva.
Mettere i generali soldati, e i soldati generali
Antonio Giraudo, detto Toni d’ Tunon, nato a Roccasparvera, classe 1883, contadino.
Il governo?
A mio giudizio bisognerebbe toglierli e metterli loro al posto dei poveri diavoli, eh, a lavorare, mettere i Generali soldati e i soldati Generali, più che è giusto.
Una volta fanno uno scandalo, poi altro scandalo, poi un altro, ma quelli là li mettono in tasca e non li tirano mica più fuori.
Entravamo e uscivamo dal fornello di casa
Anna Lucia Giordanengo, detta Lusiota, nata alla frazione Montasso di Robilante, classe 1891, contadina.
La mia frazione era di quattro case e tanti ciabot sparsi attorno, ogni famiglia aveva la stalla e ‘l casot, ‘l casot era l'essiccatoio delle castagne che serviva anche da cucina, una baita senza soffitto e senza camino: no, il soffitto veramente c'era, era fatto di rami intrecciati come una rete, e sopra ci mettevamo le castagne a seccare. Sul pavimento in terra del casot accendevamo il fuoco, così il calore e il fumo seccavano le castagne.
Nel pentolone della minestra cadevano i vermetti, non facevano mica schifo, erano una cosa familiare!
Ha mai sentito dire che i contadini una volta entravano e uscivano dal fornello di casa?
Era proprio così: uscivamo dalla porta del casot che funzionava anche da fornello, come si arriva alla porta il fumo faceva «puf».
Nella nostra frazione c'era una sola famiglia che aveva una vera cucina: tutti gli altri vivevano nei casot.
Con i proverbi dei vecchi i giovani morirebbero di fame
Giuseppe Macario, detto Beppe ‘l Frè nato a Robilante, classe 1929, artigiano.
Con l'arrivo dell'Industria la nostra collina si è spopolata, ormai i giovani sono scappati tutti, i giovani di oggi non ragionano più come i loro padri.
Nel passato i contadini parlavano con i proverbi, regolavano la loro vita con i proverbi.
Oggi i giovani dicono: «Con i proverbi dei vecchi oggi i giovani morirebbero di fame».
La donna non figurava ma comandava
Bartolomeo Spada, detto Tumé ‘d Rubatin, nato a Vignolo, classe 1878, negoziante di bovini.
Contavamo un po' di frottole.
Prima cercavamo l'uomo che era stimato, gli pagavamo bene la sua bestia, gli davamo la buona mano, la mancia.
Poi quello convinceva gli altri a vendere.
Era ancora bel da dominare.
Se la donna era decisa a vendere compravamo a buon prezzo: se la donna diceva al marito di non vendere, non c'era più niente da fare.
La donna non figurava ma comandava.
Una volta, in un giro solo, abbiamo comprato 77 vacche.
Allora c'erano le bestie ...
Il giorno della fiera sulla piazza dei Demonte si contavano 34.000 bestie di lusso. Venivano fin da Alessandria a comprare.
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Trecentosessantacinque polente all'anno
Margherita Lovera, detta nota ‘d Battistin ‘d Rea, nata a Borgo San Dalmazzo, classe 1895, contadina e tessitrice.
Sono una bulgarina, ossia nativa di borgo San Dalmazzo.
Abitavamo in un ex convento di frati, sulla via per Demonte, nella piana, a Tetti Deo.
Quattordici in famiglia, nove maschi e cinque femmine.
Ma ne sono morti cinque da piccoli, non si sa di quale malattia, in due o tre giorni morivano.
Ero la più giovane dei viventi.
Terra ne avevamo quattro giornate, due giornate erano di mio padre e due erano la dote di mia madre.
A 9 anni ho preso ad andare da manuala, a raccogliere le castagne.
Sa quanto mi davano? Quattro soldi al giorno.
A mezzogiorno mangiavamo sempre la polenta, se non si faceva la polenta non era pranzo.
Trecentosessantacinque polente all'anno.
Alla sera tagliatelle al latte o minestrone.
La carne due volte l'anno, a Pasqua e Natale.
Eravamo tutti i grassi così, e mai male a un'unghia.
Vestiti alla meno peggio. Siamo sempre stati ben puliti ma rattoppati.
Chi moriva era morto, e il lavoro continuava
Giovanni Allinio, detto Gianot, nato a San Michele di Cervasca, classe e 1895, contadino.
Appena ho avuto 13 anni allora giù dai Mansuè, giù in pianura a tagliare il grano. Ne avrò fatto 20 campagne del grano.
Il lavoro?
Si lavorava da crepare, dalle cinque del mattino alle otto di sera, da quando il sole spuntava a quando il sole si nascondeva.
Tutte le sere avevamo l'infiammazione in mezzo alle chiappe, un male che ci faceva camminare con le gambe larghe.
Nel fazzoletto da naso mettevamo due o tre manciate di polvere presa dalle strade: andavamo al fosso, ci lavavamo il culo, ci asciugavamo un po', e poi giù giù la polvere in mezzo alle chiappe come se fosse il borotalco.
E l'indomani stavamo benissimo, ma ogni sera era la stessa storia.
Un giorno trattiamo cinque giornate.
A Bota non si scherzava, si doveva lavorare tutto il giorno a tagliare e poi la notte a legare i piccoli fasci di spighe segati dai mietitori, unendo questi fasci si ottenevano i covoni.
Cerchiamo in piazza due garzoni, incominciamo.
Ma dopo 5 o 6 ore, saranno state le undici, uno dei nostri garzoni, il più giovane, si sente male.
Cade lungo e disteso, tira calci, alla schiuma la bocca, e quasi muore.
Un po' di acqua sulla faccia, poi il padrone del ciabot lo accompagna alla stazione, lo mette sul treno che se ne torni a casa, a Bernezzo.
Arriva il cognato del padrone, un uomo grosso, a darci una mano.
Lavora tre o quattro ore, poi cade fulminato, la faccia tutta nera come un cappello, nera come una scarpa, morto.
Io grido, chiamo soccorso.
Arrivano con un birroccio, il birroccio parte con il morto corre corre attraverso i campi ma non c'è rimedio.
L'indomani sento la campana che suona a morto e dico a Miciu: «Miciu, un altro ...».
Chi moriva era morto, non se ne parlava più. E il lavoro continuava.
Avevano ragione quelli che scioperavano
Giovanni Battista Comba, detto Batì ‘l Luba, nato a Vignolo, frazione Pavia, classe 1892, contadino.
A Nizza mi presento alla gipiera, la cava di gesso dove lavoravano tanti di Vignolo. Dalle cave portano giù le pietre con i carri, e noi con le mazzette le riduciamo a pezzetti come ghiaia.
Niente libretto di lavoro, niente marchette, quel che conta è lavorare.
Guadagno 3 lire al giorno a fare 12 ore, cinque soldi l'ora.
Nell'estate di lavoro quasi tutte le notti, dopo le 12 ore del giorno faccio ancora la nottata, il turno della notte, altre 6 ore, così guadagno 4 e 50 per le 18 ore. Smonto alle due della mattina, dormo tre ore, poi ricomincio la giornata e la notte.
C'erano padroni che avevano una tenuta come da qui a Cuneo, e questi grossi padroni facevano venire dal Veneto altri s-ciavandè al posto di quelli in sciopero per i lavori della canapa.
I veneti arrivavano sempre di notte chiusi nei vagoni delle bestie, facevano anche una vita, io mi dicevo sempre: «Andrei a impiccarmi piuttosto di fare una vita così».
E poi a guardarli lavorare, un plotone per volta con il moschetto pronto perché sennò arrivavano quelli dello sciopero e li accoppavano tutti, eh, arrivavano con i tridenti e con le zampe e i bastoni.
Le grosse cascine erano come caserme guardate dai carabinieri e da noi soldati: lì i veneti dormivano, lì gli passavano il rancio.
E sul lavoro sempre noi a guardarli.
Un giorno che c'era un festino poco distante, un veneto ha voluto andare a fare il bellimbusto il Don Giovanni, l'hanno poi trovato morto in un fosso.
Oh ne hanno ammazzati due o tre dei veneti. Se potevano prenderli ...
Avevano altro che ragione quelli che scioperavano.
Erano tanti quelli che scioperavano, in gruppo, e canzoni e canzoni, cantavano sempre uomini e donne di giovanotti e ragazze.
Si mantenevano andando a pescare, a prendere rane e anguille nei canali, vivevano così.
Io mi dicevo: «Ma piuttosto vado a fare il ladro che lavorare così»
Voleva che prendessi il fucile, per fare la rivoluzione. Ma io sono scappato via
Bartolomeo Ristorto, detto Berto del Duca, nato a San Michele di Cervasca, classe 1893, contadino.
Il fiume che attraversa Vienna è il Danubio.
C'è un ponte, c'è la ferrovia, e poi una grossa caserma.
Sento che i soldati austriaci stanno rompendo tutti i vetri della caserma.
Poi vedo un soldato austriaco che arriva sulla piazzetta, tiene un maggiore per il collo, il maggiore sanguina dal viso.
«Oh cristu - mi dico - stavolta ci siamo». Fermati, fermati -mi grida il soldato».
Io ho i due cavalli che tirano, stento a fermarli.
Quel soldato mi porge un fucile, e mi dice: «signori tutti i kaput. Ci hanno fatto fare la guerra. Noi eravamo amici e ci hanno mandati al massacro. Li ammazziamo tutti i signori».
Vuole che io prenda il fucile, vuole che mi unisca ai ribelli per fare la rivoluzione.
Ma io scappo via, li faccio di corsa i 17 km che mi separano dal paese.
Quel rompiballe di D'Annunzio
Giuseppe Bruna, nato a Vignolo, classe 1898, contadino.
Avevo nemmeno 18 anni, non mi facevo ancora nemmeno la barba, e mi chiamano a fare il soldato negli alpini. Eh, la guerra!
Noi altri avevamo l'interesse della guerra?
Gli ufficiali ci parlavano della patria, noi altri quando potevamo avere la licenza e venire a casa la patria era quella lì.
Poi è venuto l'armistizio, ero Feltre con la 59ª divisione, alle sei del pomeriggio è arrivato un portaordini con la bandiera bianca.
Arrivavano i camion pieni di fiaschi di vino, nemmeno con la baionetta si riusciva a tenere indietro i soldati; «La guerra è finita», gridavamo, e ballavamo tra soldati, una gran festa, una festa come la nostra patronale.
Poi 40 giorni a raccogliere nei campi le armi abbandonate, le munizioni, i cappelli di ferro, tutta la porcheria.
Poi mi hanno spedito a fiume contro D'Annunzio.
D'Annunzio aveva conquistato Fiume con i suoi arditi e veniva da noi a rubare i cavalli e le artiglierie che noi dovevamo difendere, tre miei amici sono morti lì, contro D'Annunzio.
La guerra era finita e D'Annunzio faceva il caporione, faceva come l'imperatore di Fiume.
Tra noi dicevamo: «Ma cristu, la guerra è finita e quel rompiballe di D'Annunzio ci fa ancora sparare addosso».
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A diciassette anni mi sono detto: «Possibile che il mondo sia tutto cattivo così?» Sono andato in America
Giovanni Battista Giraudo, detto Bambin, nato a Vignolo, classe 1893, contadino.
A 17 anni mi son detto: «Possibile che il mondo sia tutto cattivo così?»
È arrivato dall'America un mio cugino, Gepu Parola, un uomo di 30 anni, che mi ha detto: «St’autunno torno in America. Se vuoi venire ... là io parlo a uno, e là io ti piazzo ti trovo un lavoro da monte o da valle, in un modo o nell'altro».
Mio padre ha preso in prestito le 500 lire del viaggio, l'agenzia ha fatto le pratiche, siamo andati in treno fino a Havre.
Io avevo il passaporto, anche se ero minorenne Gepu garantiva.
Era l'ottobre del 1910.
A Havre ci siamo imbarcati sulla nave "Savoia", era la prima volta che vedevo il mare!
Ero giovane, non pensavo a niente, avevo già del coraggio.
Eh, la vita a Vignolo era troppo grama, tutti parlavano dell'America, e io mi dicevo: «L'America sarà meglio di Vignolo, andiamo in America e qualcosa sarà».
Mi piacciono tanto gli articoli di Vittorio Gorresio e di Arturo Jemolo
Paolo Borgetto, detto Paolin ‘d Chet o Bon d’Entuna, nato a Vignolo, classe 1897, contadino.
Io ero il primo di cinque fratelli, la mia era una famiglia benestante, avevamo cinque vacche nella stalla.
C'era una grande miseria, come nevicava la gente diceva: «Beati quelli che hanno pane e polenta».
Io da giovane leggevo volentieri, allora come andavo a Cuneo compravo un libro, mi piacevano le storie dei Reali di Francia.
Le storie che leggevo sui libri andavo poi a raccontarle nelle stalle dove c'erano delle ragazze.
Le stalle erano serie, bastava che il capofamiglia tossisse che noi ne avevamo già basta, stavamo già zitti.
Cosa penso della politica di oggi? Eh, non vedo chiaro, e mi fa un po' paura.
Io voto socialista perché sono convinto che sia questa la strada.
Io la seguo la politica, mi piace tanto leggere il giornale, soprattutto la politica estera mi interessa.
Mi piacciono tanto gli articoli di fondo, gli articoli di Vittorio Gorresio e di Arturo Jemolo.
Ho soltanto la terza elementare, e a volte gli articoli di politica sono difficili, e allora li leggo due volte!
E poi nei giorni che seguono cerco di capire se quel certo discorso era giusto, cioè voglio la verifica.
Leggo anche qualche libro.
Oh, Vittorio Gorresio è molto in gamba nei suoi scritti, sfiora la legge con molto coraggio e dice la verità.
Sì, sappiamo di essere abbandonati
Spirito Armando detto Prit, nato a Pra Gaudino di Cervasca, classe 1903, contadino.
Qui la gente viveva di economie, la gente viveva mangiando patate, polenta, castagne.
E nella miseria riusciva a risparmiare.
Mangiare un uovo era già un delitto.
Qualcosa si guadagnava con il legname, con il castagno, con il faggio.
Il grano rendeva ancora, e poi c'era l'orzo e la biada.
Facevamo il pane tutte le settimane, tutte le sette famiglie di Pragodin cuocevamo il pane nel forno della frazione.
Carne ne mangiavamo solo quando si faceva una grande festa, due o tre volte l'anno un pezzettino di carne.
Le famiglie erano tutte numerose.
C'erano dieci di una famiglia che vivevano tutti in una stanza, dormivano estate inverno nella stalla.
I nostri vecchi nascevano, vivevano, morivano nelle stalle.
Oggi qui non viviamo mica male, ma siamo in pochi, quattro famiglie piccole. Quando noi moriamo ci sarà più nessuno ...
Sicuro che fa pena ... pensando a tutti i sacrifici, accudire la terra come un tesoro, una spiga di grano per la strada la raccoglievamo, l'erba la tagliavamo anche nei cespugli, adesso ci sono ortiche dappertutto e rovi e tante serpi grosse, e tutti i viottoli sono scomparsi.
Qui qui va a perdere tutto! Sì, sappiamo di essere abbandonati.
Viviamo come cento anni fa al lume del petrolio e del carburo.
La gente è obbligata ad andare via da in montagna, oggi non si mangia più in montagna.
Strade nessuna, e così nessun trattore, lavoriamo ancora a tutto a mano.
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Il mondo sarebbe santo se tutti fossero come noi
Angela Giusiano, nata a Lemma di Rossana, frazione Grossa, classe 1896, contadina.
Noi eravamo un nove di famiglia, più di sedici i nati, mia madre ha comprato più volte una coppia di gemelli e poi sempre seguitava a uno.
Ne sono morti sette o di più, morivano ...
Io mangiare ho sempre mangiato, ai bambini buttavano la roba là e si governavano da loro.
Io ero una tisicona, niente robusta, sottile, fine, non ne valevano nessuna io da giovane, eppure mi sono allevata.
Io le prime scarpe di cuoio le ho comprate a 15 anni, prima avevo le scarpe rosse fatte con la pelle delle bestie.
A 15 anni ho avuto finalmente un paio di scarpe vere, una specie di stivaletti con tanti bottoni, li portavo poco ma andavo sempre a guardarle tanto mi piacevano. Andavo scalza, c'era poi già la brina, e allora mettevo un piede sull’altro per scaldarli un po’.
La nostra vita in questi paesi era semplice, ci accontentavamo di poco.
Eh, il mondo di oggi mi fa impressione.
È cambiato in meglio?
È cambiato che non si vive più, sono tutti avvelenati, anno la porcheria per la testa, non parliamo dei giovani di oggi ...
Ma il mondo sarebbe santo se tutti fossero come noi!
L'America dei cow-boy
Giovanni Giacomo Ruatta, nato alla frazione Riotorto di Verzuolo, classe 1885, contadino.
Nel 1903 mio fratello Sandro, era della classe 1881, torna dalla Francia dopo due anni di miniera e mi fa: «Andiamo in America, io ho i soldi per il viaggio e tutto ciò che occorre».
Abbiamo pensato: «Della campagna siamo pratici abbastanza, poi se c'è da andare nelle mine andiamo nelle mine, a casa c'è poco da guadagnare, laggiù il vitto e a buon prezzo, e poi la paga è superiore».
Siamo partiti in silenzio, vicino a Natale.
Ci siamo imbarcati a Genova.
Sul battimento spagnolo "Manuel Calvo" eravamo tutti emigranti, trecento e passa. A Napoli e a Palermo ne abbiamo caricati altri, solo uomini, della bassa Italia. Mangiare si mangiava, ogni squadra andava a prendere la minestra alla cucina con un grosso casino, poi veniva distribuita nei piattini di latta.
Barcellona, Malaga, Cadice, bei posti. Poi diretti a New York.
Prima dello sbarco la visita medica: mi hanno guardato in faccia, fatto buono, e via. Dopo un anno il lavoro alla galleria è finito e troviamo una buona paga nelle grandi boschine a disboscare. Eravamo dei mille operai.
Due anni e passa, poi decido di girare un po' l'America a piedi seguendo il destino, da solo soletto con un fagotto sulle spalle.
Dove trovo lavoro mi fermo, alla buona ventura.
A Gilroy, vicino a San Giuseppe di California, in un’osteria toscana, incontro un cow-boy che mi dice: «Nel vederti sembra che tu sia piemontese». Ed io: «no, non sono piemontese, sono di Saluzzo».
Mi offre un lavoro, mi accompagna a Monte Madonna in una delle grosse cascine del miliardario Miller Nloc, un grande cow-boy, del quale era fattore.
L'indomani, su un bel cavallo rosso e sella bianca arriva Miller Nloc, un uomo di 70 anni.
Miller Nloc mi racconta i suoi passaggi, di quando girava in lungo in largo per le praterie con sei uomini armati di pistole.
Come incontrava un villaggio cercava l'osteria: primo saluto, un colpo di pistola, ben, nel pavimento di legno del salone.
Poi chiedeva: «Ho fatto qualche danno?» E offriva da bere a tutti.
Aveva idee buone, e la gente capiva qualcosa.
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Sono mica cattivi i cileni. Ma non stimano i soldi
Enrico Draj, nato a Ceva, classe 1884, contadino.
Perché mi sono deciso ad andare in America?
Là avevo già un fratello, e a casa eravamo troppi.
Un mio amico ha detto: «Ah, io vado in America», anche lui aveva già un fratello là. E un altro: «vado anch'io». Così siamo partiti in quattro assieme.
Pensavamo di andare in Argentina a guadagnare qualche soldo, non a fare fortuna.
Mio padre mi aveva dato 200 lire: 165 le avevo spese per il viaggio, 15 lire le avevo spese alla bottega del bastimento, con 20 lire che cosa potevo fare, fare fortuna con niente?
Noi siamo andati in Argentina, ma altri di qui andavano negli Stati Uniti, in California e nelle miniere di zolfo.
Arrivato a Buenos Aires sono andato nella pampa.
Eh, il cileno lo chiamano los roto cileno perché è sempre a pezzi, stracciato, lavora ma beve fin che ha dei soldi.
Sono mica cattivi i cileni, ma non sono interessati, non stimano i soldi.
Sono tornato a Ceva nel 1911, mi sono sposato, sono ripartito subito con mia moglie.
Sempre facendo il carradore siamo rimasti in Argentina fino al 1921.
Il fascismo di oggi è solo il risveglio della morte
Lorenzo Falco, nato a Vignolo, classe 1923, contadino e operaio.
All'alba del 27 mi prendono prigioniero assieme a Michele Bruno di Bernezzo e a Giorgio Viale di Cuneo.
Ci portano a Pradleves, dove vedo anche molti tedeschi. Danno fuoco a un albergo.
Poi ci mettono al muro, noi tre e altri prigionieri. Fingono di fucilarci.
Infine ci portano alla Castiglia di Saluzzo.
Dopo alcuni giorni i tedeschi riuniscono una quarantina di noi prigionieri, ci trasferiscono a Torino, alle "Nuove".
Non sappiamo se vogliono fucilarci o deportarci in Germania.
Un fascista mi interroga, in presenza dei tedeschi.
Mi chiede perché all'atto della cattura ero armato.
Gli rispondo: «Piuttosto di farmi prendere dalle camicie nere ...»
Mi dà un pugno, vado a terra lungo e disteso.
Il fascista parla il piemontese come lo parlo io, e si comporta duramente per farsi bello di fronte ai tedeschi.
Arriviamo a Bolzano dove il nostro campo di concentramento è circondato da un muro alto.
Non ci danno niente né da mangiare né da bere, tre giorni e tre notti al freddo, siamo tutti girati, «Qui moriamo tutti», ci diciamo.
Infine ci caricano su una tradotta, siamo come le bestie, uno sull'altro nei vagoni, i bisogni li facciamo lì ...
Quattro giorni di viaggio, e arriviamo a Mauthausen.
Lì ci prendono pochi bagagli, ci obbligano a svestirci, buttiamo i pantaloni qua e la camicia là.
Non ci danno nemmeno una coperta, ci consegnano soltanto una camicia e un paio di pantaloni dei loro.
I forni crematori fumavano giorno e notte.
Molti li facevano morire con i gas, oppure con la mitraglia, mai i più li facevano morire di deperimento.
Eravamo così deperiti che non pensavamo più a niente.
Poi sono arrivati gli americani a liberarci. Le SS erano già scappate.
Ci siamo buttati sui mucchi delle immondizie a cercare le bucce di patate e se nel magazzino trovavamo ancora una pagnotta di pane, si buttavano in cinquanta a tuffo!
Ho incominciato a mangiare dieci volte al giorno, poco per volta se no scoppiavo.
Ero come un bamboccio, ero ebete. L'emozione mi rendeva come un rimbambito.
Venivano a trovarmi gli amici, io li guardavo per ore e ore, in silenzio, senza parlare.
Mi sono occorsi due anni perché mi riprendessi un po'.
Che cosa ne penso del fascismo di oggi?
Non trionferà più, almeno qui da noi. Nel meridione non so.
Qui da noi il fascismo ha procurato troppi danni, troppe sventure.
Il fascismo di oggi è solo il risveglio della morte.
Quando leggo che il governo di Pinochet è al potere scoppio di rabbia!
Mattio Rasetto, nato a Barge, frazione Gabbiola, classe 1912, contadino.
Che cosa ricordo del fascismo?
Ricordo che nel 1922 mio padre e la gente dicevano: «Ma guarda! Hanno tirato fuori Mussolini ... Andiamo male, porco cane, andiamo male».
Io ero un bambino, sentivo che si lamentavano del fascio, sentivo che si chiedevano: «Ma come avrà fatto quel Mussolini? Poi solo un sergente. Avrà salvato qualche generale in guerra ....»
Ma nei nostri posti non si parlava poi mica tanto di politica, mio padre non era in grado di leggere tutto un giornale.
Poi il fascismo è diventato la guerra ... Prima l'Etiopia, poi l’Egeo, poi la Francia, poi l'Albania, la Grecia, la Russia ...
Ma cosa voleva fare Mussolini? Gli Stati Uniti d'Europa? Ma fosse stato a casa sua!
Avesse piuttosto concesso i passaporti a chi voleva andare all'estero, invece di mandare la povera gente a morire in quelle guerre sbagliate.
Lascia vivere la gente, che vada a guadagnarsi il pane per il mondo ...
Quando leggo che il governo di Pinochet è al potere mi indigna, scoppio di rabbia. Mi dico: «Gli stati che sostengono Pinochet vogliono mantenere la guerra».
Sì, sono iscritto al PCI.
Oggi anche tra «Coltivatori diretti» dice che le leggi per l'agricoltura vanno male. La campagna va male, ma temo che anche le fabbriche un giorno o l'altro si troveranno in difficoltà.
La nostra terra, la terra di noi piccoli, vale poco o niente.
Ma la gente della città viene qui a comprare baite.
Non si sa mai, domani che capiti qualche bisbiglio magari una guerra civile ...
È per questo motivo che la gente di città compra le baite di montagna.
Dovremmo fare come la Sardegna ...
Celeste Goletto, detto Celeste Ciapin, nato a Roccasparvera, Tetto Ciapin, classe 1937, contadino, poi operaio, e dal 1974 di nuovo contadino.
La nostra terra è sempre stata poca.
Avevo appena imparato ad abbottonarmi pantaloni e facevo già il boscaiolo a guadagnarmi la pagnotta, a buttare giù piante, i castagni.
Poi il servizio militare, una perdita di tempo, un danno e basta.
Ritorno a casa e vedo che le rendite diminuiscono.
Ci prendono anche in giro, scrivono che non ci devono più essere case rurali senza luce elettrica e senza strade.
Ma almeno non le dicano queste cose.
Non si accontentano di farci tribolare, ci prendono anche in giro.
Siamo troppo rassegnati. Scioperi non ne facciamo, ribellarci non ci ribelliamo.
E il governo non prende provvedimenti.
Dovremmo fare come Sardegna, dovrebbe mettersi qualcuno a fare il brigante, qui dovrebbe uscire qualche elemento così, da cominciare ad accendere qualche focolaio per fargliela capire.
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LA MONTAGNA
Eh, ce n'era gente di Valdieri in America
Giovanni Caranta detto Peru, nato a Desertetto di Valdieri, classe 1896, contadino.
Qui a Tet ‘d Ciuina, in queste poche baracche, una volta vivevano 60 persone.
Mio nonno aveva cinque fratelli, di cui uno si era fatto sette anni di guerra, la guerra del 1848, che tutte le notti davano l'allarme, gridava nel buio e poi è morto per causa di quella guerra.
Quando sono nato io a Desertetto vivevano 750 persone sopra dei dodici anni, qui c'era il prete, 750 che pagavano due lire l'anno, la quota per mantenere il prete. Sotto i 12 anni ce n'erano tanti, la popolazione era sui 1.000 abitanti.
Si mangiava patate.
Il mio bisnonno è quello che ha scoperto le patate: ha visto attorno al forno delle piante strane, ne ha tirato fuori una patata, l’ha fatta cuocere e ha esclamato: «Uh che buona».
Allora hanno cominciato a seminare le patate, questo avveniva duecento anni fa, le prime patate mangiate a Desertetto.
Nel 1923, con mio cugino Alfonso Onorato, ho deciso di andare nel Nuovo Messico, dove viveva un mio zio fin dal 1894, aveva due piccole miniere.
Là la vita era meglio, qui c'era una gran miseria, là c'era un tenore di vita.
Arrivati a New York, a Castel Garda, un'isoletta dove passavano tutti gli emigranti del mondo, facevano la visita medica.
Noi eravamo 1.800, e quaranta non erano in regola, hanno dovuto tornare in Italia. Poi abbiamo preso il treno migranti, ma là non facevano come qui da noi che mettono i viaggiatori come le acciughe in barile, là ce ne sarebbero ancora stati mille sul treno.
Eravamo comodi, con un servizio specialistico di lusso, la compagnia Santa Fé passava pranzo e cena, c'era il "pacco viaggio" o il ristorante sul treno.
Se speravamo di fare fortuna?
Mah, uno ha tante idee, la speranza era di fare un po' di risorsa.
Eravamo come i colombi
Giovanni Giraudo detto Gian ‘d Barca, nato a Valdieri, classe 1885, contadino.
Parliamo degli anni attorno al 1900.
Vivevo con la mia famiglia, padre, madre, tre sorelle e tre fratelli al ciabot ‘d Barca. Avevamo 12 giornate di terra, tre vacche, e due altre vacche le prendevamo "in guardia".
Nel 1910, decido di andare in America, «Vado in America anche se sono piccolo di statura», mi sono detto.
Nel 1930 siamo tornati dall’America, per sempre a Valdieri.
Mia moglie diceva che pativa l’aria dell’America ma erano tutte storie, era più forte di un cannone.
A dire la verità quando ero in America avevo un po’ in testa l’Italia, la nostalgia.
Eravamo come i colombi che vogliono sempre tornare nel posto da dove sono partiti.
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L'ho girata tutta la California, paese per paese
Lorenzo Blua detto Lancin, nato a Desertetto di Valdieri, classe 1884, contadino.
Qui una volta c'era niente, lavoro non ce n'era, la metà della gente non arrivava a farsi il pane, le famiglie al minimo erano di sei figli, certe ne avevano dieci dodici, possiamo parlare di miseria nel mangiare, non c'era un soldo di guadagno.
La gente lavorava bene la terra, ma ci volevano le bestie che aiutassero, e quelle non c'erano.
Nel 1908 sono partito per l'America del Nord, per l'Oklahoma, con un mio cognato che era appena tornato dall'Argentina.
Non sognavo di fare fortuna, chiedevo solo di lavorare e guadagnare qualche soldo. Nel 1910 ho deciso di fare una gita attraverso gli Stati Uniti.
Volevo vedere l'America.
Sei mesi ho girato, la California l'ho girata tutta, paese per paese.
Ah, grandemente bella, bella la campagna e buona la terra, la verdura cresceva talmente che si piegava, troppa potassa nella terra.
Poco distante da San Francisco di California, a Santa Rosa, sono stato 15 giorni nell'hotel di un tirolese, lì scavavo a fare canali, c'erano tante piante di malva, ma giganti, c'erano delle piante di malva con due metri di radici.
In questi sei mesi Io ho sempre marciato che ero un francese, non ho fatto riconoscere in nessun posto che ero un italiano, i francesi erano tanto rispettati, gli baciavano la mano al francese.
in tanti stati l'italiano non lo volevano, perché l'italiano compra e vende il lavoro, negozia e poi cede ad altri, troppo camorrista ...
I neri sono più bravi di noi italiani, ma gli americani li disprezzavano.
Nelle miniere ce n'erano pochi americani a lavorare!
Sono tornato a Desertetto nel 1921, a fare una gita, per vedere mio padre.
Ma il 4 luglio hanno ratificato la legge che limitava l'immigrazione dall'Europa, e non sono più partito.
Quasi tutti i miei risparmi dell'America, 7.000 dollari, li ho perduti con il Banco di Sconto che è fallito.
I libri delle masche, i libri del potere
Giuseppe Bruno detto Beppe ‘d Ciot, nato a Chiotti di Valloriate, classe 1893, contadino.
Nelle nostre borgate c’erano tre giovani, uno era Pietro, il fratello di Malin, io l'ho conosciuto, era un giovane che aveva studiato, era un po' maestro.
Una domenica questi tre giovani decidono di scendere a Valloriate a bere una volta e a fare una partita alle carte.
Partono, bevono, giocano, poi uno di loro propone di andare in veglia in una casa dove ci sono delle ragazze.
Ma Pietro rinuncia, e dice: «Io vado a coricarmi».
Prende la strada in salita, s’incammina nel bosco verso casa.
Arriva nel Vallone delle masche, un vallone che era sempre asciutto, e vede che il vallone è pieno d'acqua, e vede che dalla montagna rotolano giù delle grosse pietre.
Eppure deve superarlo quel vallone.
Si decide, lo attraversa, ma quando è sull'altra sponda si accorge che l'acqua non l'ha bagnato.
Allora si mette urlare ben forte: «Stanotte l'avete combinata a me, ma domani notte la combino a voi. Me la pagherete cara».
L'indomani mattina, era autunno, pioveva, Pietro si mette a segare della legna ben secca, prepara due grosse fascine, le sistema nello s-ciòu.
Alla sera mangia cena, poi i suoi di casa vanno a vegliare in una stalla dai vicini, e Pietro resta solo.
Si accende il fuoco, prende il libro, si mette a leggere, a leggere, mentre nel caminetto l'acqua bolle nel paiolo.
Dopo un po' entra una donna e dice: «Buonasera».
Poi ne entra un'altra, e un'altra ancora.
Pietro non alza mai la testa, continua a leggere.
«Chiudi il libro - implorano quelle donne -, per l'amor di Dio, chiudi il libro».
Ma Pietro continua a leggere fino a quando lo s-ciòu non è ben pieno di masche.
A questo punto Pietro parla a tutte quelle donne, dice: «Guardate, io vi perdono. Ma giurate che non farete mai del male né a me né alla mia discendenza, sennò vi farò passare tutte nell'acqua bollente».
Le masche giurano, e lui finalmente chiude il libro.
Pietro aveva tanti libri, e quando è morto i suoi fratelli che hanno aperto quei libri si sono ricevuti degli schiaffi in faccia senza capire da dove arrivavano.
I libri di Pietro erano i libri delle masche, i libri del potere.
Forse eravamo ottantamila i disertori
Pietro Bruno, media valle Stura, classe 1896, contadino.
La mia era una famiglia piccola, fame non ne ho mai fatta: vivevamo a castagne, polenta, e pane misto di grano e di segale.
Poi è venuta la guerra, io ero negli alpini, battaglione Argentera.
Scaricati a Cividale, abbiamo raggiunto a piedi Caporetto.
Da Caporetto vedevamo che sul Monte Rosso era un fuoco solo, non capivamo come lassù potesse vivere della gente.
Tra noi ci dicevamo: «Se andiamo su, moriremo tutti».
Mah, la guerra è una brutta bestia!
Durante gli assalti noi avevamo l'ordine di sparare fino a distanza ravvicinata.
Poi dovevamo andare all'arma bianca e scannarci con le baionette.
Ma prima di arrivare alla lotta corpo a corpo un po' scappavano loro e un po' scappavamo noi, eh ...
Su Molte Fiore una notte siamo andati undici volte all'assalto, gli austriaci erano tutti ubriachi.
Una volta mi hanno mandato con una corvée a fare la pulizia in una trincea.
Era piena di morti, cento e più morti, una gamba qua e un braccio là.
Abbiamo preso quei morti, li abbiamo buttati giù dal burrone.
La guerra era queste cose qui.
Poi è arrivato il disastro di Caporetto.
Sono rimasto ferito a una gamba.
Da Serpelizza, trascinandomi, ho raggiunto il Tagliamento.
Ho visto saltare il ponte con sopra la popolazione, erano 400 i profughi, sono tutti morti.
Gli austriaci erano a 200 metri.
Un mio amico mi ha preso a spalle, e a nuoto mi ha portato sull'altra sponda.
Poi finisce la guerra, viene l'amnistia, forse siamo 80.000 i disertori.
Mi presento al console di Tolone, torno in Italia.
Mi processano, mi condannano a due anni, poi mi assolvono.
Mah! Sul Rumbon avevo visto fucilare due contadini che erano rientrati al reparto con ventiquattr’ore di ritardo.
Il colonnello aveva schierato sei soldati, e i due poveretti erano lì a pochi passi.
«Sparate», aveva ordinato il colonnello, ma il plotone di esecuzione aveva sparato all'aria.
Allora il colonnello ne aveva presi altri sei: «Sparate o sparo io a voi».
E avevano sparato!
Se i comandi non facevano così ne sarebbero rimasti ben pochi al fronte.
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Se Dio era così, era un Dio socialista
Giuseppe Antonio Bruno, detto Giuseppe ‘d Testa, nato a Demonte, frazione Cornaletto, classe 1892, contadino.
Eravamo padre, madre, due fratelli e due sorelle: un altro fratello era morto quando aveva tre mesi, era morto forse di tubercolosi perché le stalle erano malsane.
Nel 1919 sono tornato a casa, in congedo.
C'erano le elezioni al comune, c'era la propaganda, c'era il comizio sulla piazza di Demonte.
Mi pareva che il socialista parlasse meglio degli altri, perché cercava di aiutare il piccolo.
Con pochi compagni ho fondato la sezione socialista.
Alle elezioni il «socialista» è rimasto in minoranza perché il popolo non capiva, ma siamo riusciti gli eletti in quattro.
I contadini avevano paura dei socialisti, dicevano che era l'anarchia.
Avevamo i preti contro, i preti mentre dicevano messa facevano propaganda.
Noi invece eravamo costretti a fare la propaganda di nascosto, passando ogni sera di casa in casa.
I nostri nemici ci criticavano, dicevano di noi: «Si riuniscono a complottare. Sono pochi. Che cosa credono di combinare? Niente».
Abbiamo cominciato in una ventina, e man mano che uscivamo con delle ragioni giuste il partito aumentava.
Il prete dal pubblico diceva: «Ma voi socialisti credete o non credete che esiste Dio?»
Noi non potevamo rispondergli perché rispettavamo la chiesa.
Ma capivamo che il prete usava un modo prepotente di fare la propaganda politica.
Noi eravamo cristiani, ma dicevamo: «La politica è una cosa e la religione è un'altra».
Perché Dio è salito sul Monte Sinai, e ha detto al basso popolo: «Fuggite da lì, dove vi fanno lavorare sotto il bastone, dove vi fanno trascinare l'aratro; e poi loro mangiano il pane e voi mangiate solo miseria».
Se Dio era così, era un Dio socialista, che voleva una società giusta, nuova, e non dei ricchi.
Era un Dio che diceva: «Venite con me sulla montagna, che non sarete più sfruttati, che non sarete più schiacciati».
Noi non eravamo contro la religione, noi dicevamo dei preti: «Ci credete voi in Dio? O fingete di crederci per dominare il basso popolo?»
Il mio moroso mi ha rubata
Margherita Allietta, nata a Trinità di Demonte, classe 1889, contadina.
Quando sono nata c'erano tre metri di neve, mi hanno perduta lungo la strada quando mi hanno portato a battezzare a Demonte, ero dentro una cesta, mi hanno poi subito ritrovata.
Quando mi hanno portata a vaccinare è andata meglio, non c'era la neve, ero dentro a una cesta sull'asino, io da una parte e un bambino dall'altra uno per parte dell'asino.
Eh, siamo nati e cresciuti con la miseria, mangiavamo la miseria.
Ma fame vera non ne abbiamo fatta, mangiavamo quello che avevamo.
Eravamo quattro sorelle e un fratello, io ero la più giovane.
Tre sorelle sono morte da piccole, di tosse asinina, mio fratello è morto in una disgrazia lavorando al bosco.
Eh, dormivamo nella stalla sotto la volta, tra le ragnatele.
A 9 anni ero già a servire nella borgata.
Mio padre non voleva che mi sposassi, voleva che aspettassi ancora un anno.
Io avevo 20 anni e il mio moroso ne aveva 28, era un margaro, ci parlavamo da otto anni.
Lui una notte mi ha rubata.
Oh, succedevano queste cose, avevano già rubato quattro o cinque ragazze della frazione, una sola non si era poi sposata.
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La guerra ... Vedevamo solo un gran massacro
Andrea Marino, detto Ciulin, nato a Vinadio, frazione ventre, classe 1885, contadino.
Mi sono allevato non c'era nemmeno pane per uno, mio padre c'ha allevati nove, quattro figlie e cinque figli, avevamo un po' di prati di montagna una vacca e un vitello, ci siamo allevati da erbe selvagge, una specie di spinaci, li facevamo cuocere con un po' di latte e li mangiavamo con la polenta, un po' di patate, pane poco, non ce n'era.
Ho tirato il numero a Vinadio, su 140 ho tirato il 114 e ho fatto due anni di soldato.
Per forza andare volentieri da soldato, era così....
Poi è venuta la guerra, ero sposato con due figli, ho dovuto lasciare la moglie con padre e madre e i bambini, e partire.
La gioventù non voleva mica andare in guerra, anche qui si sbrogliavano per non passare abili, e poi cosa fare, più che partire.
La guerra....., vedevamo solo un gran massacro!
Andare a rubare la terra a uno e all'altro, la guerra ce l'hanno fatta fare solo per fare ammazzare la gente...., oh povero me!
Noi abbiamo fatto quattro province e poi gli altri ce le hanno mangiate, quelli che hanno poi perduto la guerra del 1940.
Io sono rimasto ferito a Tolmino a una gamba, quattro anni mi sono tenuto quella scheggia nella gamba.
Tornare a casa era l'entusiasmo del nostro pensiero
Pietro Bagnis detto Pierotu, nato a Pianche (Vinadio), classe 1890, contadino.
Caterina Arnaudo in Bagnis, nata a Pianche (Vinadio), classe 1890, contadina.
Pietro Bagnis:
Come vivevamo nel 1900? Di miserie.
Non parliamo della miseria che io ho visto in mia gioventù, la fame che ho visto..... Eravamo quattordici in casa, nonno e nonna, zii e zie....., si viveva su due vacche e un po' di capre e pecore.
La guerra ‘15-’18? Quello che ho passato, signore ...
Quindici giorni a Cuneo, poi subito al fronte con il 33° reggimento fanteria, e poi con il 74°.
Noi non capivamo niente, andavamo al comando come un gregge, «Tu mi comandi e io obbedisco».
E quando mi hanno fatto prigioniero, ferito sul campo di battaglia, sul Montebello di Asiago?
La prima medicazione da parte dei tedeschi è stato un colpo con il calcio del fucile nella schiena, un austriaco mi ha puntato la baionetta contro la fronte e un altro mi ha dato il colpo nella schiena.
Ero ferito a una gamba e a un braccio.
Mica per niente avevo pianto quando ero partito per la guerra, sapevo che cosa era la guerra.
Noi soldati cosa capivamo?
Ci hanno portato a combattere, si combatteva senza sapere perché, si combatteva per vincere e tornare a casa, tornare a casa era l'entusiasmo del nostro pensiero.
Caterina Bagnis:
Noi invece non ne abbiamo fatta della fame.
Eravamo undici tra fratelli e sorelle.
Avevamo una vacca e qualche pecora e abbastanza terra, tante castagne, e l'essiccatoio, vendevamo le castagne a 40 soldi al miriagrammo.
Una volta una nostra manza è stata puntata da uno sciame di vespe, aveva una testa così, e l'ho guarita.
Un'altra volta ho guarito una donna di Sambuco.
Tolgo anche il veleno delle vipere, ma soltanto alle bestie, alle persone non mi fido.
Ero la maestra delle mie marmotte
Giovanna Giavelli, nata a Ferriere, classe 1886, contadina.
Io non sapevo né leggere né scrivere, per mia disgrazia sono mai andata a scuola. Eravamo sette di famiglia, solo il più vecchio sapeva un poco a leggere e a scrivere, ma gli altri niente, tutti alfabeti.
Padre e madre un po' sapevano per l'uso di famiglia, per fare qualche documento, qualcosa.
Ho solo frequentato un po' la prima, tra vecchie giovani eravamo sempre una quarantina a scuola.
Mia madre è morta quando avevo 7 anni, ha lasciato 5 bambini.
Da allora ho incominciato a far ballare le marmotte.
All'autunno mio padre andava a scavare sotto terra, tirava fuori le marmotte, tre o quattro, e le metteva in una cassetta.
Ero io la maestra delle marmotte, con un bastoncino le addestravo, le facevo ballare e fischiare.
Le battezzavo anche, ogni marmotta aveva il suo nome.
Da mangiare da loro delle mele, cavoli, erba, e del pane.
Le marmotte a colpi di bastoncino ballavano, se le toccavo più forte, fischiavano, non volevano che le picchiassi.
Facevo presto ad ammaestrare le marmotte, con l'autunno avanzato le marmotte erano già ammaestrate.
Arrivati a Nizza o a Cannes mio padre si cercava un lavoro, e noi bambini andavamo in giro a chiedere l'elemosina.
Io e un mio fratello, il più giovane, lavoravamo con la marmotta.
La marmotta ballava mentre io cantavo la canzone in francese, una canzone fatta da me.
Soldi non ne davano mica tanti, un soldo o due.
Andavo sempre a Cannes che là c'erano i signori, ci conoscevano da un anno all'altro, come si vedevano dicevano: «Ecco quelli delle marmotte che arrivano».
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Il prete e la montagna
Don Aurelio Martini, nato a Sampeire, classe 1914, parroco di Vinadio.
Ho preso la messa nel 1940, sono quasi sempre vissuto in mezzo alla gente di montagna, prima a Valdieri, poi nel Vallone dell'Arma, poi a Madonna Bruna in Valle Gesso, poi qui a Vinadio.
Dalle frazioni i giovani sono partiti, i vecchi sono morti, le frazioni oggi sono deserte.
A Neraisa vivevano 300 persone, st’inverno c'erano ancora due vecchietti, il padre e la madre di Estienne.
Oggi questo fenomeno dello spopolamento si sta già verificando nei paesi, non solo Vinadio, ma a Aisone a Demonte, noi parroci ne siamo all'atto pratico.
Vinadio non ha più di 600 persone contate, con tutte le frazioni arriviamo a 1.000, nel lontano passato erano 3.000.
Nel 1969 abbiamo avuto 12 matrimoni, dieci coppie giovani sono andate via col matrimonio, e le altre due coppie non è detto che restino qui per sempre.
78 battesimi, e 20 sepolture. Se andiamo avanti di questo passo...
Aisone ha 350 persone, in gran parte anziani e vecchi.
Anche là gran sepolture e battesimi pochissimi.
Qui la religione è nel tradizionalismo di famiglia, se i genitori sono religiosi anche i figli lo sono, altrimenti no.
Della parte vecchia di Vinadio, dove vive il vecchio vinadiese, quasi nessuno frequenta la chiesa.
Le vocazione qui sono rarissime, qui come in tutta la Valle Stura.
Qui la politica è un caos, nei paesi prevale l'interesse personale, familiare, e la politica vera diventa meno che zero.
La vita è cambiata, la società è cambiata.
Oggi c'è contrasto, rottura, tra i vecchi e i giovani.
Nel passato la gente viveva e moriva nelle stalle.
Oggi i giovani guardano l’avvenire in un altro modo, ed è umano che sia così.
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Era già un lusso la polenta
Giovanni Battista Ponzo, detto Carabin, nato a Canosio, classe 1888, contadino e muratore.
Come si viveva nei tempi di una volta? Male, malissimo.
Si faceva il pane di autunno, ai Santi, conforme alla famiglia, sette otto fornate, una settantina di pagnotte.
C'era un forno per tutto il paese di Canosio.
Il pane si conservava sul fienile, nei rastrelli di legno, e serviva per tutto l'anno: il pane di segale, il pane duro.
Mangiavamo tante patate: la marmitta sul tavolo, tutti attorno a pelarle con le unghie, magari c'era una briciola di sale in un pezzo di carta, allora si toccava il sale con le patate.
Carne?
Dicevano che era un peccato di gola mangiare un pezzettino di carne, se moriva una gallina preferivano buttarla via ma non fare il peccato di gola, non abituarsi al gusto. Non la mangiavano.
Queste cose le ho viste, le ho vissute io.
Con il grano saraceno si faceva la polenta verde, buona anche la polenta verde.
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Come una guerra che non finiva mai
Giacomo Andreis, detto Soffa, nato a Marmora, residente alla borgata Serre di Canosio, classe 1891, contadino.
La guerra l'ho fatta con i 244º fanteria.
Eh, la guerra ci ha rovinati.
Ci avevano promesso la polizza premio di 1.000 lire, in quei tempi là con la polizza premio avremmo comprato quattro vacche!
Andavamo all'assalto, non capivamo più niente, le punture ci avvelenavano, eravamo come i cani arrabbiati.
Passavamo sui morti senza fare un fiato.
Erano le punture che ci intontivano il cervello, andavamo avanti come ubriachi a infilzare la gente con le baionette.
Sul Piave ero così stufo che marcavo sempre visita, io ero anche un po' carogna, allora mi hanno legato per molti giorni al palo di reticolati.
Gli austriaci erano a meno di cento metri, mi vedevano perché era di pieno giorno, ma non sparavano.
Gli austriaci erano più educati di noi, pensavano: «Quello lì legato al palo è contrario al suo esercito, è un punito, così non spariamo».
Eh, la patria era poco o niente per noi.
Il mangiare era solo come Dio voleva, eravamo carichi di pidocchi.
Dormivamo nel fango con il telo da tenda sotto, senza paglia né niente.
La guerra è la rovina delle popolazioni.
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Io dico la verità, io ci credevo al fascio
Giovanni Tolosano, nato a Marmora, frazione Tolosano, classe 1889, contadino e bottaio.
Io ho sempre pensato che il fascismo ha fatto anche del bene.
Prima del fascismo anche gli altri avevano fatto niente a favore della gente di montagna.
Noi credevamo nella forza dei tedeschi. Poi è l'America che ha deciso tutto.
Che cosa sono oggi?
Oggi sono della democrazia Cristiana, dove prendo un padrone lo servo e lo servo con fiducia.
Avere i capelli a zero era come denunciare la propria miseria
Maddalena Andreis, nata a Marmora, frazione Tolosano, classe 1910, contadina.
Eh, se ne facevano di economie!
Quando avevo 6 anni ho venduto la prima volta i capelli, avevo una capigliatura che scendeva fino ai piedi, madre ha rimediato 70 lire e con quei soldi ci ha vestiti tutti.
A 11 anni li ho di nuovo venduti i capelli, quanto pianto, me li hamo tagliati proprio al raso, proprio a zero, sono andata a tutto l'anno a scuola con la berretta e le amiche ridevano, 75 lire li avevano pagati, io provavo vergogna.
Erano i più poveri che vendevano i capelli, avere i capelli a zero era come denunciare la propria miseria.
Via di qui la malinconia mi uccide
Maddalena Andreis, nata a Marmora, frazione Tolosano, classe 1910, contadina.
Adesso all'inverno vivo in pianura.
Ma mi piace di più qui, in pianura mi sento tanto forestiera, non mi trovo con la gente.
A me piace parlare, mi piace stare con la gente, ma in pianura ognuno pensa per conto suo ed è preso dalla fretta.
Via di qui la malinconia mi uccide.
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La Francia era la nostra seconda patria
Giovan Battista Poracchia, nato a Canosio, borgata Preit, classe 1909, contadino.
L'emigrazione verso la Francia ha avuto inizio negli anni attorno al 1870; in quei tempi qui c'era la miseria.
Mio padre mi raccontava che una donna di Sambuco che andava in Francia a far ballare la marmotta, aveva portato con sé cinque o sei bambini di Preit, i bambini li mandava in giro a chiedere l'elemosina.
Quella donna aveva venduto a un nero uno di quei bambini, un bambino della borgata corte, che si chiamava Roccia.
Molti di Preit andavano in Francia a Parigi i negozianti di stoffa.
Nell'inverno guadagnavano quel tanto da comprare due vacche.
La Francia era la nostra seconda patria.
Quante trecce ho tagliato a Udine!
Daniele Mattalia, nato a Elva, classe 1897, contadino.
Eravamo undici in famiglia.
Come vivevamo? A latte, polenta, e pane duro.
Il pane molle lo mangiavamo soltanto all'autunno quando cuocevamo il pane.
Il pane bianco lo mangiavamo alla festa di San Pietro e non sempre a Natale.
Nelle feste grosse facevamo poi il risotto.
Fame non ne ho mai fatta.
I due terzi della popolazione di Elba viveva sui capelli.
Mio padre aveva dieci dodici ragazze che lavoravano i capelli in casa, e in più mia sorella.
Lavoravano solo i capelli del pettine. Bisognava farli puliti.
Erano matasse di capelli e si doveva selezionarli e mazzolarli con tutte le teste da una parte e le punte dell'altra, capello per capello.
Mia sorella era una specialista a scegliere i capelli, ha fatto questo lavoro fino al 1940.
I capelli selezionati e lavati li vendevamo poi ai grossisti di Saluzzo che li spedivano a Parigi e a Londra.
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Per vivere dovevamo andare per il mondo
Giovanni Pietro Muscat, nato a Elva, classe 1907, contadino.
Come poteva vivere una famiglia con due vacche nella stalla?
Per vivere dovevamo andare per il mondo.
Si può dire che ogni inverno una metà della popolazione emigrava.
La prima volta sono andato in Francia con mio padre, nelle vallate delle Alpi Marittime.
Ci portavamo dietro gli attrezzi, la molla, e giravamo tutti i paesi e le borgate.
Io andavo a raccogliere il lavoro, mentre mio padre lavorava sulla piazza.
Io aggiustavo anche i parapioggia.
Dormivamo sui fienili. Mangiavamo sulla piazza, avevamo il fornellino a carbone.
Se la stagione andava già un po' bene guadagnavamo 200 lire, il valore di una vacca.
Con la primavera tornavamo a Elva.
Poi ho incominciato il mestiere del marsier, giravo le valli Tinea, e del Var, tutte le vallate di Nizza, a fare il mercante di stoffa con il fagotto sulle spalle.
Un inverno, con mio zio, sono andato a tagliare i capelli alle donne.
Avevo 16 anni.
Compravamo soltanto le trecce, i capelli del pettine non ci interessavano.
Pettinavamo le ragazze, e poi avanti con il taglio dei capelli, a zero; mi faceva impressione vedere quelle donne proprio rasate, lasciavamo solo una corona in circolo, così pettinando verso il centro della testa i pochi capelli rimasti riuscivano a coprire un po' il bianco.
Io avevo già il pane
Don Pietro Garnero, nato a Sampeire, classe 1885, parroco di Prazzo.
La mia era una famiglia di contadini poveri, 12 i figli.
Mia madre mi raccontava che fino a che era stata da sposare non aveva mai saputo che cosa volesse dire togliersi la fame.
Tante volte, d'inverno, andavano a letto presto per attutire gli stimoli della fame.
Mi raccontava che la sua padrona usciva dalla baita, raccoglieva delle grosse bracciate di ortiche, le faceva cuocere quelle ortiche, e la minestra era tutta lì. D'altra parte anche a casa, mia madre mangiava tanta erba.
‘L liun, una specie di pisello selvatico, duro; poi tante lenticchie, e i gravaiun, un bulbo un po' più piccolo di una noce, un po' nero, non dolce ma un po' gradevole.
Li ho ancora mangiati io i gravaiun, ma io avevo già il pane, io non l'ho più sentita la miseria.
Il mio pane, ‘l pan ‘d sel, ‘l pan dur, lo conservavamo sul solaio.
L'ammuffito bianco si mangiava ancora, l’ammuffito giallo era immangiabile.
Mia madre per farci mangiare l'ammuffito giallo ci diceva: «Mangiatelo, che vi fa venire alti».
Io ne ho mangiato tanto di ammuffito giallo, infatti sono alto di statura.
Il pane lo tagliavamo al gral, al taiet.
Per rammollirlo un po' lo appendevamo sopra il paiolo delle patate che bollivano, e il vapore lo ammolliva un po'.
Sono parroco di Prazzo da 64 anni, sono venuto qui nel 1908.
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Alpini, indossate la maglia di acciaio
Vincenzo Cucchietti, nato a Stroppo, borgata Caudano, classe 1912, contadino e operaio.
Alla politica eravamo completamente estranei.
Il parroco, il segretario comunale, il medico condotto, erano le sole persone che capivano qualcosa di politica.
Noi sapevamo vagamente che Giolitti era il capo del governo, che saliva qualche volta lungo la valle, che era del partito liberale.
Ma poi le cose assumono una brutta piega.
Scioperi a catena, gli operai occupano le fabbriche, la vita della nazione è paralizzata.
C'è un partito armato che si fa avanti, che approfittando del disordine si impadronisce del governo.
Noi continuiamo a restare estranei ai grandi fatti che agitano il paese, noi siamo inconsapevoli di tutto, l'olio di ricino e il manganello da noi non compaiono.
Entra in carica un «direttorio» capeggiato dal podestà.
Nelle scuole ci insegnano a cantare Giovinezza, arrivano gratis i fez e le camicie nere.
Qualche anziano, qualche reduce di guerra, ci dice soltanto: «Ve ne accorgerete un giorno l'altro ....».
Nel 1935 cominciò le grane.
Con la guerra di Abissinia quattro classi vengono chiamate sotto le armi per istruzione e le classiche dovevano andare in congedo vengono trattenute.
La gente crede davvero nel Duce adesso, la propaganda fascista dopo la vittoria dell'Africa diventa più penetrante, più insistente.
Nel 1935 sono sotto le armi per il servizio da permanente, sono nell'artiglieria alpina.
Poi salta fuori la grana della Russia.
Abbiamo una grande fiducia nei tedeschi, siamo convinti che la guerra è ormai vinta.
Ci facciamo coraggio, sperando. Mah!
Tra noi contadini ne parliamo della Russia.
Abbiamo solo paura che la Russia sia un'avventura, abbiamo paura della lontananza, dell'ignoto.
Sedici giorni di viaggio, poi finalmente le operazioni di sbarco.
Il generale Battisti riunisce tutta la divisione "Cuneese", sale su un’autocarretta, ci dice: "venite vicino voglio che sentiate tutti, ho delle cose importanti da dirvi» e ci parla: «Noi andremo sul Don, in pianura. Quando siamo partiti avevamo tutti il desiderio di andare a combattere in montagna, sul Caucaso. Invece gli ordini superiori dicono che noi alpini dovremo combattere in pianura. La configurazione geografica del fronte che abbiamo da raggiungere è come questa: colline basse, intercalate da tratti di pianura. Siete contenti? Io non sono contento. Dove andremo le nostre corde manila, le nostre piccozze, i nostri scarponi chiodati, i nostri muli, non servono a niente. Noi siamo addestrati per la montagna, ma dobbiamo obbedire ai comandi superiori. E scriveremo anche là su don il nostro motto "di qui non si passa". Alpini, indossate la maglia di acciaio, chi deve dormire dorma, ma chi deve vegliare vegli. Saremo sulla difensiva, ma quando arriverà l'ordine di andare avanti andremo avanti».
L'assassinio di Matteotti ci ha spalancato gli occhi
Spirito Magno Rosso, detto Prit Draghét, nato a San Pietro Monterosso, frazione Pièbruno, borgata Bonaglia, classe 1896, contadino.
Dopo la guerra, nel 1925, in Italia ormai c'era il fascismo.
Per me, per molti di noi, dopo la morte di Matteotti il fascismo era il nemico.
Non che ci interessassimo di politica, non ci interessiamo nemmeno oggi di politica perché non siamo colti.
Ma è l'assassino di Matteotti che ci ha spalancato gli occhi.
Noi non eravamo fascisti, e quel delitto ci ha messo a terra.
L'impressione era quasi come se avesse assassinato uno di noi.
Per tutta la gente della mia frazione quel delitto è stata una cosa grossa, decisiva.
Una vita da sbirri
Magno Arneudo, nato a Castelmagno, frazione di Narbona, classe 1892, contadino.
Oh povero me, a Narbona vivevamo venticinque famiglie, centocinque persone, tutti Arneudo.
Facevamo una vita da sbirri, mangiare pane di segala che cuocevamo una volta all’anno, a Natale.
Ho lavorato in Francia nella carriera a rompere pietre tutto il giorno con una massa di 12 kg.
Dove ci prendevano lavoravamo.
Partivamo all’autunno dopo i fieni, una vita da sbirri ...
Un anno, eravamo in cinque, siamo andati a lavorare sotto il governo, a pulire la sterpaglia sui colli, nei boschi, tre lire al giorno di paga a mangiare pane e acqua, cinque mesi a mangiare pane e acqua.
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Se chi comanda provasse un po' la nostra vita
Maria Isoardi vedova Martini, nata a Castelmagno, frazione Chiotti, classe 1893.
Sì, oggi si vive meglio. Ma la gente scappa tutta dalla montagna.
Ci sono ancora sei famiglie qui a chiappi, quattro bambini in età scolastica.
E ci chiudono la scuola. La scuola per noi è la vita.
Vediamo già le nostre case che crollano, queste poveri case che rappresentano i sacrifici dei nostri vecchi.
Viviamo già nell'abbandono, come se fossimo cittadini diversi dagli altri.
Adesso anche la scuola ci portano via ...
È come se ci portassero via i nostri nipoti: se chiudono la scuola le famiglie devono dividersi oppure scendere per sempre in pianura.
Eh, se chi comanda provasse un po' la nostra vita!
I nostri morti in guerra superano quasi i vivi di oggi
Michelangelo Isoardi, nato a Torino, classe 1931, contadino e operaio.
Magno Martini, nato a Castelmagno, frazione Chiappi, classe 1934, contadino e operaio.
Nella prima guerra mondiale Castelmagno ha avuto quarantatré caduti, nella seconda guerra mondiale ha avuto ventitré morti.
Ormai a Castelmagno vivono una settantina di persone, i morti in guerra superano quasi i vivi di oggi ...
Sì la montagna andrà a perdere? È difficile prevedere l'avvenire.
Se le cose vanno come ieri, come oggi, in montagna non resterà più nessuno, sparisce tutto. Muoiono proprio le comunità.
Salvo una recessione, la disoccupazione, fatti grossissimi che non ci auguriamo.
In tutto Castelmagno non c'è più una ragazza da sposare, li conto uno a uno tutti gli scapoli di Castelmagno: sono 30 uomini che hanno superato i 30 anni.
Voglio dire che le ragazze hanno scoperto la città prima degli uomini, sono scappate prima.
Il turismo da noi non risolve nessun problema.
Anzi, favorisce l'esodo, perché mette in mostra il disprezzo che la gente di pianura ha per la gente di montagna: nasce un confronto che offende, che mortifica.
A Limone la comunità contadina è morta: c'è il droghiere, il tabaccaio, l'albergatore, ma il contadino è andato via.
Ormai è tardi per salvare la montagna: anche se volessero stipendiare un giovane perché resti lassù, non lo trovano più.
Nel 1953 Chiappi aveva cento abitanti: ne ha ancora 29, l'età media si aggira sui 60 anni.
A Campomolino sono ancora 19, la persona più giovane ha 40 anni.
Con tutta la gente che dice di voler tirare su la montagna, ecco qual è la situazione delle nostre comunità!
In America, a cercare l'oro
Giovanni Garnero, nato a Sampeire, classe 1895, contadino.
Da Sampeire ne andavano pochi in America.
Toni ‘l Filoso voleva portarmi con lui in America, lui era già stato là a cercare loro, e aveva fatto fortuna.
Era andato in America con suo fratello Milic.
Ma Milic qualcuno l'aveva derubato nel deserto, gli aveva portato via tutto loro. Milic era tornato a Sampeire, ma per il dolore era diventato matto, è morto matto. Io parlo del 1912, quando Toni ‘l Filoso voleva portarmi con lui in America.
Io sarei andato volentieri a provare, ma mio padre non ha voluto.
Mio padre diceva a Toni ‘l Filoso: «Non andare più via, non ne hai più bisogno».
E lui rispondeva: «Ho ancora da fare laggiù».
Toni ‘l Filoso è tornato in America e là è scomparso per sempre.
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Le Langhe
Io in guerra sparavo al cielo!
Pasquale Roggero, nato a La morra, frazione Rivalta, classe 1890, contadino.
Anna Roggero, nata La morra, frazione Rivalta, classe 1897, contadina.
Pasquale Roggero: nel 1910 sono andato soldato da permanente nel 51° reggimento fanteria a Perugia.
Il giorno dei santi mi imbarcano per la Libia, a me la Libia interessava poco, abbiamo fatto un bell'affare, 18 mesi nel deserto sotto le tende, la sabbia che abbiamo mangiato là ..., nelle gavette c'era sempre un dito di sabbia sul fondo, nelle marmitte anche.
Pensavamo: «Ma fare tanti morti per venire a prendere della sabbia e quattro datteri e un po' di limoni ...», c'era niente niente, solo sabbia che volava e riempiva le buche, e tanti morti di malattia e in combattimento, mangiare male, un calore del ghibli che bruciava fino a 45-50 gradi, avevamo sempre sete, sempre solo voglia di bere.
Io non ho mai sparato in guerra. Perché sparare?
A volte mi davano l'ordine di sparare, quando ero di vedetta: piantavo il calcio del fucile per terra e sparavo al cielo, poi ascoltavo che la pallottola tornasse giù: non lo conosco quello lì, perché ammazzarlo ...
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Quando Nenni era un giovanottino ...
Giulio Cesare Mascarello, detto Rino, nato a Barolo, classe 1895, contadino e vinificatore.
A Barolo esisteva «Il Collegio di Barolo», una istituzione importante, preziosa.
L’ho frequentato anch'io quel collegio, fino ai 14 anni, fino alla seconda tecnica.
Uno dei miei insegnanti, il professor Fissore, era rustico, severo, maneggiava sempre un bastone a nodi.
Un giorno mi chiama alla lavagna, c'era su scritta una frase con l'accento grave, io confondevo sempre l'accento grave con l'accento acuto.., «È questo l'accento grave», mi dice il professore, e giù due bastonate in testa.
Da quel giorno non ho più voluto saperne di andare a scuola, anche se mio padre mi diceva che il professore aveva ragione, che me l'ero meritate le due bastonate. Allora mio padre mi ha mandato a comprare il giornale, «La Stampa».
Nelle offerte di lavoro c'era scritto: «Cercasi aiutante pasticcere a Voltri». Benissimo, così avrei mangiato paste a volontà ... mi trasferisco a Voltri.
Il pasticcere capo, un certo Ferrari, emiliano, di Parma, socialista, mi dice: «Sciocco, fatti pagare dal padrone».
Sempre Ferrari mi fa leggere qualcosa sul socialismo, poi mi consiglia di cercare lavoro in un bar di Genova dove avrei guadagnato anche 40 lire.
A Genova c'era una «Società di Mutuo Soccorso tra pasticcieri e baristi» che funzionava anche un po' come ufficio di collocamento.
Lì vicino c'era la Camera del Lavoro e l'Universale.
All'Universale erano frequenti le conferenze e anch'io andavo a sentirle: lì è venuto Nenni, era repubblicano, era un giovanottino.
Ho cominciato così a interessarmi di politica.
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Dio era d'accordo con gli altri
Angelo Fantino, detto Angelin, nato a Monforte, classe 1897, contadino.
Nel 1915 sono partito da Parma con l'artiglieria pesante, e sono andato al fronte. Eravamo dei bambini.
Siamo scesi dalla tradotta vicino a Cormons e siamo andati sul Sabotino.
Non sapevamo nemmeno dove erano gli otturatori dei nostri pezzi.
Allora sono venuti i dei graduati anziani dalla Val Lagarina a farci istruzione, ci raccontavano della vita dura di guerra, e noi credevamo che ci contassero delle balle, invece erano verità.
Sull'altipiano di Asiago noi abbiamo sparato venti minuti di seguito nel culo degli alpini.
Li abbiamo fatti andare avanti per forza, mancavano i collegamenti, tutte le linee telefoniche erano strappate.
Un giorno del 1922 Romita viene a fare un comizio e ci dice: «Tenete duro».
«Tenete duro le balle. Siete voi, i capi, che dovete tenere duro e aiutarci un po’, che non vi vediamo quasi mai. A chi ci rivolgiamo domani, in caso di necessità? A Dio? Dio è d’accordo con gli altri ...»
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Con la prepotenza non si acchiappano nemmeno le mosche
Francesco Abbona, nato a Monchiero, classe 1892, contadino.
Nel 1922 è venuto il fascismo.
Si andava male in quei tempi, molte imposte e pochi introiti, c'era miseria.
Mi perdoni la parola, adesso vivo più tranquillo di allora.
Tacere, ecco cos'era il fascismo.
I fascisti venivano da Bra, se sapevano che uno era rosso andavano a cercarlo, gli davano le purghe, l'olio di ricino.
Eh, il fascismo mi ha aiutato poco, anzi mi ha buttato giù.
Mi sono accorto del fascismo perché sono venuti con la prepotenza, e con la prepotenza non si acchiappano nemmeno le mosche.
Qui hanno paura che Agnelli vada in rovina
Dante Cane, nato a Magliano Alfieri, classe 1899, contadino ed esercente.
Cesare Cane, nato a Magliano Alfieri, classe 1907, contadino ed esercente.
Alla liberazione abbiamo perdonato tutti.
Hanno preso qualche fascista, l'hanno portato in piazza, gli hanno dato qualche pugno e tutto è finito lì.
Oggi a Magliano siamo una cinquantina di comunisti.
I fascisti qui sono sette otto, e stanno nascosti.
Ma la gente di campagna è come sempre antioperaia, e contro lo sciopero.
Ha paura che Agnelli vada in rovina.
Qui ci sono tanti «diccì» "e tanti «piselli» ossia socialdemocratici, nella nostra frazione sono centododici i «piselli».
Il vecchio Romita tanti anni fa ha fatto costruire qui un riparo per le acque del Tanaro, una spesa di 40 milioni.
Prima di quel riparo qui non c'era nemmeno un socialdemocratico, adesso sono forti, raccolgono i voti per abitudine.
Ho letto Pavese e Fenoglio, anche quella è storia, è storia nostra
Giuseppe Bassignana, nato a Murazzano, classe 1896, contadino.
Mio nonno aveva studiato un po’ da prete, poi ha trovato una che studiava da monaca, le ha detto: «Su, facciamo che aggiustarla io e te», l’ha sposata e ha avuto dodici figli.
Mio nonno era uno sveglio, era sempre in mezzo ai preti, lo faceva per tenerseli buoni per l’eredità, aveva due fratelli preti, preti poveri non ce n’erano, uno dei fratelli era il canonico e l’eredità era importante.
Nella nostra famiglia ci sono sempre stati dei preti.
Una volta diventavano preti solo quelli che erano di famiglia benestante, che avevano un certo reddito: sia per non fare il soldato e le guerre, sia per vocazione, erano tanti i contadini che volevano farsi preti.
Io sono un fondatore del Partito dei Contadini d'Italia e me ne vanto.
Qui a Dogliani abbiamo la biblioteca Einaudi, una cosa utile, io la frequento, sono uno dei pochi contadini che la frequentano.
Io leggo i libri che leggeva Einaudi, i libri di agricoltura.
Leggo tanta storia, la storia dell’Italia e dell’Europa, una storia che fa pietà a una pietra.
Ho letto Pavese e Fenoglio, anche quella è storia, storia nostra.
I contadini dovrebbero leggere, imparare, istruirsi.
Era qui la ghenga dei disertori
Lorenzo Boeri, detto Cinu, nato a a Serravalle Langhe, classe 1891, contadino.
Nel 1911 vado soldato a Perugia, in fanteria.
Ma lì c’è tanta istruzione, su e giù a correre in caserma, allora faccio la domanda di volontario per la Libia, mi dico: «Vado laggiù, così sto un po’ fermo».
In maggio sono già a Tripoli, sono già pentito.
Ci mandano dalla parte del mare, ma perdiamo i collegamenti e sti arabas ci accerchiano: io mi trovo sdraiato su un cocuzzolo, loro non sparano a me e io nemmeno a loro, poi mi alzo, mi metto a correre come una biscia, arrivo correndo fino a Tripoli.
Da Napoli eravamo partiti in duecento, siamo tornati in trenta.
Sono arrivato a casa nel febbraio 1914.
Nel maggio del 1915 ero a casa e lavoravo nei campi,quando mi è già arrivata la cartolina del richiamo: mi dicono che domani si parte per il fronte.
Mi mandano sul Sabotino, dove dobbiamo andare all’assalto, poi ci portano sul Carso, dove resto ferito.
Quaranta giorni e più di ospedale e poi vado sul fronte di Gorizia.
Disertori, sì, ne avevo conosciuti tanti.
C’era una squadra di disertori qui, in queste zone, nei boschi.
Eh, qui c’era la ghenga dei disertori, erano una quindicina.
La popolazione non li tradiva, i disertori aiutavano le famiglie contadine nei lavori, i carabinieri li temevano i disertori.
Ascolta "Era qui la ghenga dei disertori da «Il mondo dei vinti» di Nuto Revelli" su Spreaker.
I napoletani gridavano: «Oh sant'Antonio capocchia nera»
Marta Piemonte in Boeri, nata a Mombarcaro, classe 1902, contadina.
Nel 1923, ero sposata da poco, sono andata con mio marito in Argentina.
La nostra nave, l’«Indiana», sembrava sempre dovesse aprirsi da un momento all’altro, marciava inclinata così, in coperta non c’era più nessuno, tutti a cuccia ..., pensavamo di andare ai pesci.
Al piano di sotto al nostro c’erano ancora i meridionali, e anche gli arabi, i beduini.
Facevano delle grida ...
I napoletani gridavano: «Oh Madonna, oh sant'Antonio capocchia nera», non ho più dimenticato quelle grida.
La guerra di Libia l'hanno fatta per distruggere gli alpini
Giovanni Montanaro, detto Linu, nato a Serravalle Langhe, classe 1892, contadino e commerciante.
Come ho incominciato a fare il soldato mi hanno mandato in Libia.
Quattrocento chilometri nella sabbia, abbiamo perduto tutti i camion, i nostri duecento muli sono morti.
C’era cinquanta gradi e siamo arrivati a un punto che abbiamo perso tutto: più niente acqua, più niente viveri; nell’attraversare i cespugli spinati le scarpe si erano rotte, camminavamo con i piedi avvolti nelle giacche.
Più nessuna unghia, le pulci si infilavano sotto e scavavano.
Come ci sedevamo sulla sabbia arrivavano le cicale, tac tac, ci portavano via la pelle dalla faccia.
Eravamo coperti di croste.
«Voglio vedere di che cosa sono capaci questi alpini ...» ha detto quel tenente di merda, ci ha fatto crepare tutti di dispiacere, lui odiava le truppe di montagna.
Gli alpini più grossi di fisico sono morti quasi tutti durante la marcia, noi più piccoli, più magri, eravamo più resistenti.
Ma le nostre colonne dei muli si perdevano lungo le marce nel deserto, gli arabi le attaccavano e arraffavano tutto.
La guerra di Libia l’hanno fatta per distruggere gli alpini, ecco, io lo dico franco e deciso, noi ci hanno distrutti al completo, ci hanno fatto morire di birbanteria.
Aspettiamo che la morte arrivi
Angela Galliano in Travaglio, nata a Somano, classe 1904, contadina.
Mia madre era una santa donna, si accontentava, metteva pazienza.
Vivevamo nella miseria, ci consolavamo cantando durante il lavoro.
Adesso la vita è cambiata, non lo capisco più questo mondo.
Come andrà a finire?
La campagna diventerà un bel zero.
Tutti i giovani vanno a lavorare in fabbrica, e c’è una grande invidia, l’invidia è più forte di una volta.
Io ho sempre mangiato polenta e castagne, e anche oggi non riesco a mangiare diverso.
Mah, aspettiamo che la morte arrivi ...
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Abbiamo ancora conosciuto la fame di pane
Giovanni Emanuele Viglierchio, nato a Mombarcato, classe 1883, contadino.
Quando sono nato c’era una gran miseria.
Si viveva a castagne, patate, e polenta, uno era più disperato dell’altro.
I bambini morivano di inedia, non passava settimana che non si sentisse a suonare la campana a morto.
Grano ne veniva poco.
C’era la miseria, eppure la gente era più brava e più calma di adesso, con tutta la disperazione di allora la gente cantava e fischiava.
Una lira al giorno per sedici ore di lavoro
Caterina Chiaparco, nata a Monesiglio, frazione Ceriola, classe 1882, contadina e sarta.
Da bambina sono andata a lavorare alla Filanda di Monesiglio.
Guadagnavo una lira al giorno per sedici ore di lavoro.
Mangiavamo lavorando per guadagnare venticinque soldi, cinque soldi in più per lo straordinario.
Avevamo sempre le mani nell’acqua calda che quasi bolliva, le nostre povere mani erano cotte, la pelle bianca e sottile come un foglio di carta.
Facevano male le mani, erano sensibili.
Le masche e la Madonna del Deserto
Giovanna Mosca vedova Bonino, nata a Mombarcaro, frazione Costalunga, classe 1887, contadina.
Le masche? Eh, alle streghe la gente ci credeva, sì sì.
Ma la gente era molto religiosa e tre volte all’anno andava in pellegrinaggio alla Madonna del Deserto di Millesimo, trascorreva là tutta la notte, si coricava sui banchi o sul pavimento del santuario.
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Io ci credo alle masche
Angela Sobrero, nata a Cerreto Langhe, classe 1887, contadina.
Fortunata andava in chiesa ma la gente diceva che era una masca, una strega.
Una volta, per beffa, qualcuno ha fatto una croce sulla sua porta di casa, e lei non poteva più aprire quella porta, non poteva più uscire dalla sua casa.
Ci sono dei libri che comandano, e se uno non è più capace a dominarli succede come è successo a Bossolasco ...
Un giorno a Bossolasco, nell’osteria di Protto, arriva un certo Genesio che faceva il becchino.
‘Sto Genesio era brutto come il diavolo, sembrava uno stregone.
Nell’osteria c’era dieci o dodici persone, e Genesio gli dice; «Cosa volete? Che vi faccia vedere il diavolo a uso di cane?»
Ha preso dalla tasca un libretto, ha letto qualcosa, è saltato fuori un cagnone, era il diavolo, e Genesio, sempre con il libro in mano, non riusciva a far sparire quel cane.
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Mia madre mi ha venduta per poche pagnotte di pane
Letizia, alta Langa, classe 1901, contadina
La mia era una casa povera, lungo il Belbo: due giornate di terra e undici figli.
Mangiare patate, polenta, castagne, ne avessi avuta della polenta per togliermi la fame.
Sono stata da tutte le parti a servire, non avevo dieci anni, ho fatto delle vite, tutto il giorno dietro alle pecore e alle vacche, poi arrivavo a casa e mi davano una fetta di polenta.
Attaccavamo un’acciuga a un cordino, l’acciuga pendeva dal soffitto, c’era tanto sale attorno all’acciuga, gli davamo una strisciata da una parte e dall’altra, si sfregava la polenta contro, alla fine la polenta l’avevamo mangiata, l’acciuga restava ancora lì attaccata, l’acciuga lasciava solo l’odore.
Poi mia madre mi ha venduta tre anni, mi ha venduta per poche pagnotte di pane a gente che mi tenessero, che lei non aveva da mantenermi.
Erano i padroni che ci facevano vedere le masche
Ortensia, alta Langa, classe 1903, contadina
C’è chi dice che io sono una grossa masca, una grossa strega.
Ma io non faccio caso a cosa dice la gente.
Non credo nelle masche, non mi fanno più paura, ce le facevano vedere le masche, erano i preti e i signori, che ci facevano vedere le masche.
È da un po’ che ci penso.
Una volta non capivo, ma adesso è da un po’ di tempo che capisco.
Io avevo bisogno del mondo, erano i soldi che cercavo
Sarino, alta Langa, classe 1891, contadino
Eravamo tanti in famiglia, troppi, e figli di diverse razze, mio padre aveva avuto tre o quattro donne.
Il pane era scarso, c’era poco da stare allegri.
Vedevo che tutti i giovani appena potevano scappavano, chi scappava in Francia e chi in America.
Vivere in quel buco non mi andava.
Io avevo bisogno del mondo, erano i soldi che cercavo.
A sedici anni sono scappato in Francia, sono scappato con una ragazza di nome Rosina, una ragazza di quattordici anni.
L'ottanta per cento dei padri giocavano a bassetta
alta Langa
Nelle osterie, dall’autunno alla primavera, di giorno e di notte, non si trovava un tavolo libero.
L’ottanta per cento dei padri giocavano a bassetta.
Si giocava molto anche nelle cascine.
Ricordo uno di Roddino, che ha perduto il vitello, l’ha perduto così: lui aveva ormai perduto tutti i soldi al gioco, allora è tornato a casa, ha preso il vitello, è andato a venderlo.
Dopo due ore era già di nuovo sul gioco, dove ha perduto tutto.
Ne ricordo un altro che giocava forte, aveva una buona cascina e l’ha perduta al gioco.
Io cercavo i Re del Perù
bassa Langa
Mica solo i contadini giocavano d’azzardo, c’erano i sindaci, i segretari comunali, i farmacisti, i negozianti di bestiame, gli avvocati.
In tutti i paesi delle Langhe si giocava, e c’era chi perdeva perfino le dita.
Io avevo il mio informatore, così arrivavo al momento giusto e regolarmente spennavo i giocatori; gli lasciavo ancora i soldi per pagarsi la corriera.
Io non cercavo il piccolo contadino, no cercavo il vecchio.
Io cercavo i Re del Perù, cercavo i ricchi che si credevano anche furbi, lì faceva anche piacere prenderli.
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Abbiamo un governo malfattore
Contadino, alta Langa, classe 1913
Siamo dimenticati da tutti, dal governo per primo.
Perché abbiamo un governo che protegge il distruttore, non il costruttore.
Abbiamo un governo malfattore.
È giusto che un parlamentare che in una legislatura fa un bel niente, non fa fatica, prenda dai quattrocentomila e più al mese, eh?
E un povero zappatore che fa grano e patate sia inferiore a quella roba là?
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Due miserie messe assieme
Angela Poleri, nata a Castelnuovo di Ceva, classe 1917, contadina
Qui la miseria era miseria vera.
Era una vita così, i soldi non c’erano.
Eppure mio padre e mia madre erano vissuti ancora peggio.
Quando mi sono sposata ho messo la mia miseria assieme alla miseria di mio marito.
Avevamo cinque lire tra tutti e due.
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A Mussolini bisognava sparargli un colpo in testa
Bartolomeo Anselma detto Ambaradam, nato a Monchiero, Tetti Rea, classe 1913, contadino
Il 18 ottobre sono partito per l’Africa Orientale, mi hanno sorteggiato nel cappello, a Borgo San Dalmazzo su quattrocento soldati ne hanno sorteggiati diciotto della mia batteria, eravamo un’ottantina i sorteggiati di tutte le batterie.
Non sapevo dov’era l’Africa.
Che cosa pensavamo della popolazione? Niente, proprio niente.
Dicevamo: «Sono poveri diavoli, e noi siamo in casa loro a rompergli le balle».
Che cosa ne facevamo noi dell’Africa ...
A Mussolini bisognava sparagli un colpo in testa, prima, su vicino al Passo della Mendola, nel 1935, quando è venuto con il Principe a passarci in rivista.
Là ci hanno disarmati per la rivista.
Mussolini ci ha detto: «Tutti gli anni in questi giorni c’era il congedo, e quest’anno il congedo non verrà», era lì che bisognava dargli una schioppettata nella testa, ma eravamo disarmati, senza munizioni, mica solo io gli avrei sparato volentieri, eravamo cinquecentomila uomini a quelle «grandi manovre».
Soldi fanno soldi, pidocchi fanno pidocchi
Don Oreste Camera, nato a Serravalle Langhe, classe 1919, parroco della frazione Cerreta di Cerreto Langhe
Qui tutti i proprietari hanno dalle quindici alle trenta giornate, parte a prato, parte a bosco.
I nostri contadini non sono attrezzati, i macchinari agricoli costano.
Oggi si deve fare a mano solo l’indispensabile, per il resto far lavorare le macchine.
Si dice che per fare una cascina ce ne vuole un’altra, «soldi fanno soldi, pidocchi fanno pidocchi», per dire che la miseria è miseria.
Io non so come sarà l’avvenire.
L’operaio prende la paga ogni mese, il contadino prende la paga una volta l’anno, tutto l’anno a guardare il sole, ad aspettare le nocciole, le uve ...
Se avessi detto che non ero comunista il gallo avrebbe cantato!
Tersilla Fenoglio Oppedisano, nata a Serravalle Langhe, classe 1924, insegnante
Io avevo vent’anni, avevo la «Patria» in testa, io avevo la retorica di Mussolini in testa.
Ho iniziato la mia attività partigiana svolgendo un lavoro di volantinaggio ad Alba.
Mi infiltravo tra i repubblichini, ascoltavo i loro discorsi, i loro programmi, e riferivo.
Quel lavoro di staffetta mi entusiasmava perché l’obiettivo che intravvedevo era un’umanità nuova, un mondo giusto, pulito.
Io avevo la Patria che continuava a disturbarmi dentro, avevo Dio che mi disturbava dentro.
Se la Repubblica di Salò non avesse voluto un esercito repubblichino, non avremmo avuto un esercito partigiano così imponente.
Nel 1948 non ero ancora comunista, dopo la Liberazione ho sofferto due anni i silenzio politico.
Non ero comunista ma lasciavo che tutti dicessero che ero comunista.
Se avessi detto che non ero comunista il gallo avrebbe cantato!
I partigiani avrebbero dovuto fermare i tedeschi, far correre i «repubblichini», e vivere d'aria
Carlo Altare, nato a Bonvicino, classe 1921, contadino
Che cosa pensano i partigiani?
Il novanta per cento dei contadini erano e sono critici nei confronti dei partigiani.
C’era e c’è ancora una mentalità marcia, dovuta all’ignoranza e all’egoismo.
La critica ai partigiani parte sempre da lì.
I partigiani avrebbero dovuto fermare i tedeschi, far correre i repubblichini, e vivere d’aria: farsi ammazzare tutti e basta.
Ci saranno anche stati degli elementi partigiani sbagliati, bisogna ammetterlo, specialmente i primi erano senza comando e approfittavano della situazione facendo del male.
È tutta una camorra quella della «Coltivatori Diretti»
Alessandro Scotti, nato a Montegrosso d’Asti, classe 1889, esponente del Partito dei Contadini d’Italia
Ai contadini avevano promesso la terra, anch’io in parte ho creduto nelle promesse della terre ai contadini.
Nell’agosto 1919 ho scritto sul «Popolo d’Italia»: «Noi dovremmo fare un governo con maggioranza contadina».
Sono tornato a casa, in congedo, il 20 settembre 1919, e con mio fratello Giacomo ho partecipato subito a un congresso che si svolgeva ad Alessandria contro Nitti, contro l’imposta sul vino.
Il 50 per cento delle nostre popolazioni era di contadini piccoli proprietari, ecco perché abbiamo dato vita al Partito dei Contadini.
L’altro giorno mi hanno chiesto: «Che cosa pensa dei Coltivatori Diretti?»
«Penso che sono dei mendicanti, cioè aspettano e vivono con questo po’ di pensione. Siamo tornati al tempo della trippa, quando i liberali davano le cinque lire per il voto: «Vai a mangiare la trippa».
Quando ci sono le elezioni si aumentano di duemila lire le pensioni, e così comprano la classe.
La «Coltivatori Diretti» vuole le tessere, e qualsiasi pratica se la fa pagare dal contadino.
I medici sono generosi con gli iscritti, regalano le pensioni di invalidità.
È tutta una camorra quella della «Coltivatori Diretti».
L’AUTORE
Benvenuto Revelli, detto Nuto (Cuneo, 21 luglio 1919 - Cuneo, 5 febbraio 2004) è stato uno scrittore, ufficiale e partigiano italiano.
Ufficiale effettivo degli Alpini durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla seconda battaglia difensiva del Don.
A partire dal settembre 1943 prese parte alla Resistenza italiana, dapprima con una propria formazione, poi entrando nella Banda Italia Libera delle formazioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Nuto Revelli fu anche uno scrittore, e i suoi primi libri, tutti pubblicati da Einaudi, trattano della sua esperienza come ufficiale alpino sul fronte russo durante la seconda battaglia difensiva del Don del gennaio 1943 ed il suo successivo passaggio nelle file della Resistenza.
L'altro tema al quale Revelli ha prestato particolare attenzione è stato lo studio e la denuncia delle condizioni di vita dei contadini poveri delle vallate cuneesi, con l'emigrazione di massa nel dopoguerra verso le grandi industrie della città.
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Fotografo documentarista geografico dal 1977; 40 anni da viaggiatore resiliente in Italia, oggi Divulgatore Geografico - Storyteller - Travel Blogger - Podcaster; Meridionalista innamorato dell'Italia, narro e faccio conoscere il Bel Paese, il più grande giardino emozionale diffuso.
Nel 2005 apro il blog Penisolabella seguito da Agricoltour e Va dove (ti) Porta il Treno e mi ritrovo ad essere l'unico blogger a raccontare l'Italia minore con la M maiuscola
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