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Audiolibro Viaggio in Puglia di Raffaele Nigro

Uno scrittore, il fascino di una terra antica, un appassionante affondo antropologico in una regione dai mille volti. 

Dal Gargano al Salento, dall'Adriatico allo Jonio, dall'economia agraria della Murgia a quella mercantile e turistica delle coste e alle industrie di Manfredonia, Bari, Brindisi e Taranto. 

Senza dimenticare la grande Puglia dei miti, dei riti, del mare, della civiltà letteraria e quella del nuovo millennio, dove convivono «valori e ritmi di vita tradizionali e ansie di ammodernamento, diffuse macchie di povertà e sfacciate sacche di ricchezza. Un grande richiamo dal mondo della fede popolare e una più grande attrazione verso un edonismo laico e senza freni».

Il libro del viaggiAutore Raffaele Nigro, uscì nel 1991, a trent’anni dal “Pellegrino di Puglia” di Cesare Brandi.

Tra i due libri molte cose erano cambiate: per esempio, era esploso il gusto per la cucina tradizionale, l’asino martinese che aveva incuriosito Brandi era rimasto giusto in alcune masserie della valle d’Itria; la regione Puglia era stata finalmente toccata da una fortuna turistica e la scolarizzazione di massa aveva visto diffondersi un qualche amore per il territorio, le pietre, il barocco leccese, la tradizione.

Pertanto il reportage di Nigro raccontò tutto questo, in una serie di viaggi in luoghi noti e sperduti, che provò a descrivere, una terra di uomini e non di monumenti, in un affondo antropologico in una regione dai mille volti, lunga, assolata, varia.

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La partenza

Conobbi la Puglia da ragazzo, nel 1956, in un viaggio in treno fino a Taranto.

Della Puglia sentii parlare a scuola, a proposito della disfatta di Canne.

A metà primavera partivano gruppi di pellegrini per il Santuario della Madonna Incoronata o come più volte sentii nei crocchi dei contadini, per Ortanova, dove viveva una maga che sapeva leggere nel cuore e nel futuro della gente.

D’estate arrivavano in paese frotte di mietitori, con le scarpe in spalla e i cappelli di paglia, venivano da Cerignola e dal foggiano.

Ogni tanto, sempre da quella pianura misteriosa, arrivavano bande di rapinatori.

A vent’anni andai a Bari per gli studi universitari.

Da allora avrò solcato la Puglia mille volte, nella spola tra l’università e il mio luogo d’origine, con la tasca vuota all’andata, meno vuota al ritorno.

Da allora ancora la percorro, per viaggi che hanno sempre un ritorno.

Parto dalla mia casa posta alla periferia del capoluogo, verso città, campagne e masserie di una regione lunghissima e ricca di miti.

Con gli occhi del viaggiatore che osserva meravigliato e critico.

Sono un po’ Lenormant e un po’ l’abate di Saint-Non, ma a differenza di questi viaggiatori, che partendo facevano testamento, sicuri di andare verso la Siberia o verso l’Africa equatoriale, io so che mi aspetta il rientro e che in molti posti, prima o poi, tornerò.

Questo diario non vuole trarre deduzioni, chi lo compila è soltanto il cronista di se stesso e dei suoi incontri con le pietre, le colture, la civiltà e gli uomini.

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Dal Subappennino al Tavoliere

«Svegliati andiamo»

L’autostrada per Candela pare disegnata con la riga, poche le curve difese dagli eucalipti che ad ogni inverno muoiono di gelo.

E pochi i saliscendi, almeno fino a Canosa, poi si arrampica verso il falsopiano di Cerignola e ridiscende alla valle dell’Ofanto.

Candela sta su un cocuzzolo e dal terremoto del 1980 appare annunciata da una folta schiera di prefabbricati.

Di sera è una punteggiatura di luci sui primi contrafforti del Subappennino.

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San Michele e i longobardi

L’antro di San Michele divora i pellegrini come la gola dell’Inferno.

Si scende accalcati, in una ressa spaventosa, mentre gli occhi scivolano sui muri istoriati da rozze incisioni, inferte a punta di coltello, di mani e di nomi, come segno di tortura inflitto nella roccia e comunque un legame in sangue e in spirito tra l’Arcangelo e le storie di sofferenze, di devozione, di amarezze ruminate da ogni singolo pellegrino.

Dal ventre delle grotte, sono emerse le testimonianze più arcaiche della devozione ma anche della barbarie dei visitatori.

Le scritte conservano per noi un carico notevole di suggestione, è innegabile, non minore di quella che ci offrono le tre iscrizioni monumentali di apparato fatte apporre dai committenti del santuario, i principi di Benevento, e delle quali vale la pena ricordarne almeno una.

«Spinto dalla devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, il duca Romualdo».

La scritta ricorda la devozione dei longobardi al santo guerriero e il ringraziamento per la vittoria riportata nel 650 da Grimoaldo I, padre di Romualdo, sui bizantini, nella battaglia del promontorio garganico.

Grimoaldo, fratello del più famoso Rotari, avrebbe contribuito così alla diffusione del culto micaelico in Italia settentrionale, ostruendo due santuari a Milano e Pavia, mentre il figlio ne costruiva, anzi ne ristrutturava, un terzo a Mezzogiorno.

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Manfredonia

Manfredonia è la porta meridionale del Gargano.

Se la guardi dall’alto, la città fa da appendice alle ciminiere e alle raffinerie dell’Enichem.

Ti meravigli che una società di contadini sia stata in grado di trasformarsi in un’altra di operai chimici e di metalmeccanici e ti convinci della forte capacità di adattamento dell’uomo.

Se guardi Manfredonia dal mare, si impongono la muraglia del castello normanno e la foresta di alberi, vele, scafi, che infesta il porto, tra gabbiani, pescatori, marinai, guardacoste.

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Barletta e il sole di pietra

Un’abbuffata di pesce, triglie e orate che ancora saltavano nelle ceste, poi a piedi alla Pinacoteca comunale.

Sono centosettantuno, un patrimonio, le opere che Leontine Gruville, la vedova di Giuseppe De Nittis, ha donato, forse per volontà del marito, al comune di Barletta.

Perso a trent’otto anni, nel 1884, macchiaiolo in Italia, impressionista in Francia, De Nittis si è lasciato sempre guidare dall’impulso.

La sera cala rapida sulla città di pietra.

Ma la Puglia che ho visitato, mi accorgo, non è quella monumentale, anche se la monumentalità è onnipresente.

Ho capito da questo viaggio che c’è una Puglia meno appariscente, che non puoi cogliere in un’occhiata, un paese che devi vivere e frequentare, un paese di uomini.

E ho capito anche che la mia disposizione non tende ad ammirare le pietre, l’arte, la bellezza, ma l’uomo sta loro dietro. L’artefice silenzioso.

Ho visto una nuova Puglia, godereccia, ricca e piena di meraviglie.

Il mare per lunghi tratti è ancora bello qui, non ci sono alghe, non c’è molta immondizia.

La costa se la sta divorando il cemento, ma il mare, da Monopoli in giù è meno sporco che altrove.

D’estate diventa una babele di lingue, hanno capito che qui costa ancora poco ed è meno inquinato.

Anche se mancano le strutture e molti albergatori fino a ieri erano contadini.

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Bari

Quanto ho odiato questa città, e quanto l’ho amata in certe controre, affogata nel vento marino, nel silenzio notturno delle strade, improvviso e innaturale, dopo la grande corrida del traffico.

Questa città è diventata un garage, dove tutti sanno di tutti, dove ci si ritrova ora in un circolo, ora in un foyer, sempre gli stessi, a tagliarci i panni addosso, per tenere in vita la tradizione di città di provincia, piccolo borghese, nonostante le arie da megalopoli.

Eppure, questo è il luogo delle fortune, l’eldorado per tanti che vennero dall’interno.

Di baresi di Bari io ne ho conosciuti pochi.

Arrivarono, dal fascismo in qua, dalla provincia e dalla Basilicata, uomini di ogni condizione, ad invadere uffici e scrivanie e popolarono la città, con un grande spostamento all’interno del Mezzogiorno.

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I segni del nuovo

L’estate è scoppiata improvvisa.

Non è rimasto un centimetro di costa libero, non uno scoglio, non una manciata di sabbia.

Le ragazze sfoggiano mono e bikini lussureggianti, sensuali e variopinte si muovono lungo la costa ricche di ornamenti, di bigiotterie costose e vistose.

Questa non è più la Puglia delle tradizioni arcaiche,non quella rurale, né quella dei grandi miti.

E’ la Puglia che ama divertirsi, che chiama un turismo nazionale e internazionale.

A Bari è esplosa da almeno dieci anni la febbre del jazz.

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Altamura

Da Bari a Matera arranca il trenino a piccole rotaie della Calabro-Lucana, tocca una serie di paesi i cui nomi sembrano inventati da un rimatore bizzarro, Toritto Maglitto Mellitto, e affronta il continente pietroso della Murgia.

La pianura barese comincia a levarsi in colline, mai alte, mai aspre, si fa ondulata nell’altopiano.

Gli olivi e i mandorli che popolano la pianura si diradano, scompaiono dove la roccia gialla, appena nascosta da un sottilissimo strato di terra, detta le proprie leggi e impedisce qualsiasi coltura.

Qui era una volta l’impero degli animali da mungitura, era il luogo delle scorribande di cavalli lucenti, coi mantelli neri, possenti e vivaci:i morelli murgesi.

Li troviamo a due passi da Altamura, nella villa Indro, scalpitanti in un recinto di muretti a secco, sotto gli olivi e i pini marittimi, di una masseria trasformata oggi  in azienda agrituristica.

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Gravina

La lama che da Gravina corre verso Matera è un preambolo dei Sassi.

Le rocce afferrate al burrone, perse nello sprofondo e pure in fuga verso il ponte-acquedotto che taglia l’orizzonte, emergono dalle erbacce e dagli sterpi.

Con difficoltà sorreggono la parte antica della città, annunciata sul versante della grave dal mastodontico monastero di Santa Maria delle Domenicane e dalla facciata non finita della cattedrale.

Proprio il monastero, piagato su un fianco, come un reduce della guerra dei secoli e dell’incuria, spiega il disinteresse dei gravinesi per le pietre che fanno oggi la loro storia.

Gravina dei gloriosi trascorsi sembra scivolare verso il fondo del precipizio, verso un’ingiusta età di silenzio e di barbarie culturale.

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Conversano

Ieri sono stato a Conversano.

In un cantiere alla periferia del paese si era scavato per gettare le fondamenta di un edificio.

Ad un tratto la pala meccanica si è imbattuta in un impedimento.

Ha cavato con più lena e la lastra di pietra si è spaccata.

Poi sono stato per assistere ai lavori di recupero di una tomba apula. Anzi, di due.

Alzai gli occhi verso la collina che ospita oggi il paese.

Un castello elegante dai torrioni tondi offriva l’ingresso al centro storico monumentale, alle porte e alle mura megalitiche.

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Baroni e beati a Bitetto

Il romanico ha lasciato tracce considerevoli anche nei più piccoli centri dell’area barese.

Bitetto, sede vescovile dal 1179 a fine XVIII secolo non conta oggi che quattordici quindicimila abitanti, eppure bisognerebbe osservare dall’alto la sua cattedrale, dedicata a San Michele Arcangelo, per scoprire un galeone di cupole attorno all’albero maestro del campanile barocco.

Ma se mi interesso di Bitetto è per una ragione che non nasce dalle pietre.

Sono qui per due uomini che legano il paese all’opposta sponda dell’Adriatico e a varie città italiane.

Il primo è il frate converso Giacomo Varingez, il secondo è il citato barone Andrea Matteo Acquaviva, signore di Atri, di Bitonto e di Conversano.

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I fuochi di Adelfia

Montrone e Canneto sono due frazioni di Adelfia,

Le taglia un canalone in secca che costeggia la ferrovia.

Ad Adelfia si svolge ogni anno un convegno singolare, un convegno che raduna i rappresentanti di tutti i comitati feste patronali della Puglia.

Ad organizzarlo è un uomo altrettanto singolare, un autodidatta con un passato contadino e una formazione liceale acquisita in età matura.

Il Comitato organizza di anno in anno al santo protettore, Trifone.

Il 10 novembre il cielo si incendia, la gente si riversa in periferia e nelle campagne.

Arrivano colonne di pellegrini patiti dei fuochi pirotecnici con le bocche spalancate e gli occhi persi nel cielo, in attesa.

Il 1o novembre scoppia l’apocalisse e mastro Michele Perfetto da Sant’Antimo napoletano saluta i suoi fans con quattro granate a scala, esplosioni a scansione equidistante con una tonalità bella sostenuta.

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I tratturi

Masserie, massari, pastoricchi e casari della Regia Dogana delle pecore, tagliavano un tempo le regioni centro-meridionali, partendo da luoghi montani e procedendo verso la piana di Capitanata.

Per queste vie passavano greggi e mandrie accompagnati da muli, asini, cavalli destinati a trasportare i guardiani e le masserizie, preceduti da cani da guardia, pastori abruzzesi e volpini, seguiti talvolta da traini e calessi e da una serie di lavoranti che camminavano a torso e piedi nudi sull’erba, con le scarpe appese per i legacci a una spalla e appoggiati a un bastone.

Erano massari, pastori, pastoricchi, casari, cavallari, guardiani.

Scendevano dalle montagne aquilane, dalla Maiella e dal Gran Sasso, o dal Subappennino dauno-irpino o dalle montagne della Basilicata.

Ad attenderli, all'ingresso della immensa distesa di verde, c’era un ufficiale addetto alla riscossione della tassa d’ingresso, il grassiere.

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Ditelo con i fiori Terlizzi-Leverano

I gerani sono l’addobbo connotativo delle balconate meridionali.

Magari intervallati da basilico e da piante grasse.

E fino a ieri, nessuno avrebbe scommesso che da fiori più duraturi, meno effimeri dei gerani, potesse avere impulso l’economia di un paese.

Dopo Brindisi, un’autostrada di oleandri ci accompagna fino a Lecce.

La lambiamo per raggiungere Leverano.

Qui i fiori si mescolano agli ortaggi,in una commistione che raffigura la stessa composizione sociale.

I raccoglitori sono contemporaneamente datori di lavoro e prestatori di lavoro subordinato, come dire, servi e padroni.

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Storie di San Francesco

Padre Amedeo Gravina è così felice del nostro arrivo che si precipita per le scale del convento.

«San Francesco - comincia - sembra sia passato dalla Puglia quando era diretto in Terra Santa o di ritorno da laggiù.

Ma alcune fonti lo attestano e altre smentiscono.

Sta di fatto che tutti i conventi francescani del Mezzogiorno vantano di essere stati fondati dal nostro santo durante quel viaggio»

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Stefano da Putignano e i propaginanti

Santo Stefano e già nevica.

L’asfalto è viscido per il nevischio.

Per Putignano si può uscire a Gioia del Colle e proseguire per Noci oppure imboccare lo svincolo per Turi.

Sull’ultimo dosso appare Putignano, la città di Stefano, maestro rinascimentale di maternità e presepi.

La sua predilezione per la scultura si è trasfusa nei concittadini, ma con una propensione per la laicità, per l’epicureismo e per una materia più duttile, la cartapesta.

Putignano è un paese di cartapestai e di giullari.

In Puglia è il capoluogo del Carnevale e degli sponsali.

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Ostuni

La pianura marina che dalla Capitanata scende verso Bari, incontra piccole colline alle porte di Polignano.

Da questa piana si alza la Murgia meridionale che accoglie uno stuolo di paesi radunati in un crocevia di province; sono i paesi di calce o di borotalco.

Arroccati su un osso calcareo, offrono agli osservatori un'immagine di candore stagliata contro gli azzurri in questo cielo pugliese.

Tale è dunque Ostuni.

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La Valle dei Trulli

Guardavamo la valle in silenzio, sorpresi dalla bellezza.

La popolavano trulli a schiera, imbiancati di calce, circondati da pergolati e da viti a spalliera e a tendoni, chiusi da muretti a secco.

Guardavamo la valle che ci appariva come il posto più antico abitato da un popolo di contadini.

Le case, come parallelepipedi e cubi di gesso baluginavano tra il verde.

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Santi e acqua

Anzano il primo paese del Subappennino che s’incontra scendendo dall'Irpinia.

Qui i freddi arrivano prima, arriva la prima neve, siamo a mezza montagna e il Tavoliere è lontano.

Ma da qualche tempo le stagioni hanno subito una sorta di slittamento.

Piovere non piove per mesi e il sole fa fiorire mandorli e ciliegi addirittura in pieno inverno.

«La pioggia non caduta in cielo sta» sostengono i contadini.

E siccome custodi e abitatori dei cieli sono i santi, se si vuole acqua è ai santi che bisogna far ricorso.

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Castellana

Due ore di cavità sotterranee mi hanno tolto il respiro.

Ci avventuriamo tra le grotte e i corridoi resi terrificanti e fascinosi dall’uso sapiente delle luci artificiali.

Ci fa da guida un giovane speleologo di Castellana al quale ho chiesto già due volte come faccia ad infilarsi in certi pertugi del suolo senza temere serpenti topi scarafaggi o peggio ancora improvvisi precipizi o restringimenti tali della cavità che non gli permettano più l’uscita.

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Due strade misteriose

L'asfalto corre tra i capannoni della zona industriale di Bari, si lascia alle spalle Modugno, verso Foggia. 

Allo svincolo per Ruvo prendiamo una strada che si perde tra gli ulivi, stretta, sbrecciata, deserta.

E’ l’antica via Traiana, viene, anzi veniva, da Roma, proseguiva verso Brindisi insieme all'Appia.

Per chilometri costeggia la nuova statale, si lascia talvolta tagliare da quella, tra l'altra ne perde i contatti. 

La via Traiana potrebbe corrispondere all'antica via Minucia.

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Primavera

Ogni anno aspettiamo la primavera con ansia, come nel timore che non possa tornare per qualche sortilegio. 

La primavera è l'anno che risorge, l'anno che si riapre alla luce. 

A negare la vita c'è la lunga, interminabile passione dell'inverno. 

Questo avvitamento delle stagioni riempie di simboli le nostre giornate, la nostra fantasia. 

Questo processo di morte e resurrezione coincide ogni anno con la simbologia Cristiana della Passione e Resurrezione di Cristo. 

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Ville e masserie

Qualunque strada si batta, dappertutto, per pianure, colline e murge, si incontrano, isolate come santuari o asserragliate in piccoli borghi spesso fortificati, le masserie.

Apparse già nel Medioevo e fortificate per la difesa contro i turchi, queste ville diventano luoghi lussureggianti, ricchi di giardini e di sovrapposizioni scultoree nel Quattrocento, si moltiplicano nei secoli successivi, quando la vita in villa si fa piacere diffuso tra le famiglie aristocratiche del regno e la difesa interna ed esterna, garantita dagli aragonesi prima e dagli spagnoli poi e dai borboni infine, rende possibile la permanenza in luoghi lontani dalle città.

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Elogio del maiale

Mezza Faeto si è riversata alla festa del prosciutto e del porco, «u cayunn», dicono in questa parlata stranissima che non si accosta a nessun dialetto meridionale.

Questa non è una festa agostana e infatti viene ripetuta durante l’inverno, perché proprio quando battono i freddi e l’aria è presa di fumo di legna, allora è tempo che nel piatto nuotino i fagioli con le cotiche e dalle pertiche delle case antiche, quelle con le volte alte e col focolare acceso, pendano salsicce, soppressate e prosciutti.

Allora suona in tutta la Puglia una brutta ora per i maiali.

Triste sorte quella del porco, amico fraterno dell’uomo al punto da essere tenuto tutta la vita all’ingrasso per essere poi trasformato in macabra carcassa.

Sorte persino grottesca, vista l’allegria che suscita la sua morte, consumata tra canti, graticole e bicchieri di vino.

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La fiera di Rutigliano

San Lorenzo, cadono le stelle nelle calde nottate, come fiammiferi che si consumano in un baleno.

A Rosignano si tiene in onore del Santo una grande fiera di animali domestici. 

Alla fiera di San Lorenzo si allunga oltre la periferia del paese, corre fino alle campagne. 

Tra le bancarelle di oggetti in plastica mi sorprendono rivenditori di prodotti artigianali. 

Questa, mi spiega un rivenditore di scope di saggina, era una fiera del bestiame e infatti i suoi protettori erano San Lorenzo e Sant'Antonio Abate. 

Un segno dei tempi mutati sta proprio nell'assenza di bestiame. 

Se non fosse perché siamo al 10 agosto nessuno ricorderebbe neppure che questa è la fiera di San Lorenzo. 

Si sono scordati di tutti di lui, persino le beghine, che un tempo venivano a pregare nella sua chiesa cinquecentesca, fuori le mura.

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Gli allegri bandisti di Mascagni

Credo di amare le bande musicali da sempre. 

Ma un interesse particolare mi è nato dalla frequentazione di un anziano professore di musica conosciuto a Bari.

Aveva suonato il bombardino nella mitica banda di Cerignola e raccontava spesso quello che gli avevano raccontati i bandisti più anziani del grande Mascagni. 

Tutto ebbe inizio nel 1886, quando Mascagni viene ingaggiato da Luigi Maresca, un impresario che aveva messo su una compagnia di giro, con la quale intendeva toccare alcune piazze dell'Italia meridionale. 

«Maestro, voi siete pazzo che volete andare laggiù, tra quei terroni».

Maresca alzava le spalle e diceva che la Basilicata era stata la terra del grande Gesualdo da Venosa e la Puglia aveva avuto musicisti e compositori come nessun'altra regione, da Piccinni a Paisiello a Mercadante. 

Tra le tappe della sua tournée c'era Cerignola, col teatro Mercadante. 

Per dieci lire al giorno, Pietro Mascagni accetta di dirigere l'orchestra della compagnia. 

Scende dunque a Cerignola insieme al Maresca, ad alcuni cantanti e musicisti. 

Tra gli artisti c'è anche Lina Carbognani, la futura moglie del compositore.

Cerignola aveva allora una borghesia rurale ricca e molto appassionata di lirica. Mascagni allora era appena diciottenne, ma in pochi giorni era riuscito a conquistarsi le simpatie di mezza Cerignola grazie ad un carattere allegro e vivace. Approfittando del passaggio di questa compagnia, il sindaco cannone di Cerignola decise di contattare il maestro livornese. 

La proposta del sindaco manda a carte quarant’otto il contratto col Maresca e la faccenda finisce a scazzottate.

Nel marzo dell'87 vince il concorso bandito dal comune di Cerignola e viene nominato dal consiglio comunale maestro di suono e canto della costituente filarmonica, con una paga di 100 lire al mese, cifra modesta ma sufficiente per vivere in due.

Il clima di simpatia che si era venuto creando attorno a Mascagni si faceva crescente.

«A Cerignola - ricorderà più tardi Mascagni - negli anni della mia giovinezza si era andato formando un ambiente particolare di artisti già consumati e di artisti in erba. Sempre allegri, allora, qui a Cerignola, quando si aveva meno fama e più fame, fra spensieratezza e allegria! L'arte era rappresentata in ogni sua manifestazione: dalla musica alla pittura, dalla scultura all'architettura».

Ed è proprio a Cerignola che un giorno, Mascagni sa del concorso bandito per un atto unico. 

Scrive subito all'amico Targioni-Tozzetti e gli indica un racconto di Verga quale possibile canovaccio per il libretto. 

Nasce così la Cavalleria Rusticana. 

L'ambiente meridionale aveva contribuito, offrendo un forte impatto con la passionalità della sua gente, a fare esplodere la creatività volitiva del maestro.

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Da Ginosa a Taranto

Oggi Samarcanda è Ginosa, da dove inizia il mio giro di conferenze.

Saremo domani a Taranto, dopodomani ad Aradeo, poi saliremo a Lecce.

La strada si biforca, il ramo di sinistra scende verso Ginosa marina, quello di destra di incunea tra le case di periferia della Ginosa collinare.

Il paese non è stato salvato dagli scempi edilizi, ma il centro storico ricorda in alcuni quartieri l’albore lattiginoso della valle d’Itria.

Nella gravina la gente ci ha abitato per secoli, dal Medioevo, forse da prima, stando ai ritrovamenti archeologici e alle notizie di Plinio sulla Genusium romana.

Il giorno si è levato pulito dalla gravina, pieno di sole.

Risaliamo all’autostrada e scendiamo verso Taranto.

La città che vedi estesa nella foschia della distanza, la città che ha rubato spazi di suolo coltivabile, alle ampie distese di pianura.

Credo che la storia di Taranto, almeno quella dei tempi moderni, sia da rapportare al prima e al dopo Italsider.

Prima e dopo la nascita e lunga agonia dello stabilimento siderurgico.

Taranto è la più spagnola delle città pugliesi, nel Mezzogiorno terza probabilmente soltanto a Palermo e Napoli.

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Verso Aradeo

Il rettilineo per Nardò dopo Avetrana non ha soste.

Si intravvede talvolta la marina poi ci si rituffa nell’interno e dopo Galatone e Seclì ecco Aradeo.

La campagna è animata di contadini.

Le case bianche e basse si nascondono dietro i canneti e gli olivi.

Tengono compagnia alle masserie che si levano imponenti qua e là.

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Lecce

«Facci caso, Lecce è tutta racchiusa nel rosone della chiesa di Santa Croce».

Michele Damiani esce dall’auto e si accosta alla vetrina di mastro Malecore, dove, quasi in fila una decina di statuine in cartapesta osservano i loro osservatori.

Ecco la Lecce che amiamo, la Lecce di calcare, dove l’ansia di meravigliare ha convinto gli scalpellini e gli scultori seicenteschi a tempestare la pietra di colpi.

Pietra tenera questa, friabile, arrendevole.

Questa è la città che ci portiamo nel cuore, la Lecce dei palazzi a quinte ondulate, addossati l’uno all’altro e tuttavia mai disposti a rinunciare ognuno alla propria dignitosa individualità, la Lecce gentilizia che ad ogni portale aperto ti sorprende per le scalee degli interni, gli atrii abbelliti da palmizi che si cercano la luce e si arrampicano al cielo, in trionfi di edere.

Camminando tra i vicoli stretti sei condannato ad appenderti con gli occhi ai terrazzi, alle facciate, alle prospettive.

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Otranto

Oggi a Torre dell’Orso una tedesca di non più di vent’anni si è lasciata sorprendere dal tepore della primavera.

Sono rientrato a Otranto con una domanda insistente sul labile confine tra realtà e immaginazione, con la mente confusa da un contrasto stridente, tra l’immagine erotica e vitale di quel corpo e la lugubre atmosfera di morte che le ossa de martiri soffondono dalle teche della cattedrale.

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I diavoli architetti

I secoli non hanno reso giustizia alla grandezza della famiglia Del Balzo Orsini imparentata con re e principi, e non hanno reso giustizia alla grandezza di questa terra che viene ricordata oggi soltanto come patria del tarantismo.

Quel fenomeno arcaico che vede molti invasati, tra il 29 e il 30 giugno di ogni anno, recarsi a ballare o piuttosto a dimenarsi fino allo sfinimento sul sagrato di una chiesetta dedicata a San Paolo, in aperta campagna.

Di questa pratica strana, fascinosa per il senso di mistero e di inspiegabilità che le è connesso, incominciai ad interessarmi molti anni orsono.

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Monopoli

La Murgia meridionale comincia ad arrampicarsi sulla sinistra, incontra Ostuni e Fasano.

A destra, il falsopiano scende al mare, si imbatte nelle rovine di Egnazia e prosegue verso Monopoli.

Monopoli è dominata dalla cattedrale, un galeone di pietra che trafigge il cielo con un campanile altissimo.

La città è disseminata di chiese, stretta dalla muraglia possente fatta costruire dagli spagnoli e culminante in un castello svevo.

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Male d'Albania

Ripartiamo nel primo pomeriggio verso Lecce.

In periferia ci attende un giovane, Nanni, un giornalista che conosce a menadito il Salento.

Nanni è amico di Livio Muci, il nostro ospite di Nardò.

Muci è responsabile di un importante gruppo editoriale milanese per l’area meridionale.

Da tempo mi chiede di far visita alla sua piccola azienda agricola.

L’edificio è basso e bianco, una costruzione moderna difesa da un paio di cani e divisa in due abitazioni, quella di Muci e quella del mezzadro.

Sull’imbocco delle stalle brucano le capre, con tre quattro mucche.

In casa c’è una bella libreria.

Le pareti sono tappezzate di quadri, tutti di provenienza albanese.

Muci è patito del paese delle aquile, con quel paese fa di continuo la spola, sta preparando un'edizione lussuosa delle opere di Onufri, un iconografo albanese del XV secolo e un’antologia di narratori schipetari del Novecento.

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Dove finisce il mondo

In cinque risaliamo sulla statale che da Maglie porta a Leuca.

Si fa più insistente la presenza dei trulli a tronco di cono.

Poi un cartello indica Santa Maria di Leuca.

Quattro tedesche in bicicletta pedalano verso il mare, cariche di zaini.

Le auto si sono fatte più rade e il vento più forte.

Quando la strada si biforca prendiamo un gomito stretto che porta verso il santuario di Finisterre, l’altra strada scende a Leuca.

Il vento mi scompiglia i capelli,  e sbatacchia le tende dei rivenditori sul piazzale.

Cerchiamo rifugio nel santuario.

Sobrio nelle sue linee neoclassiche e con un quadro nel cuore dell’altare maggiore, quasi un’icona, di Palma il Vecchio.

Qui vengono i pellegrini in tutte le stagioni.

Se non si tocca la soglia del santuario in vita, dice una leggenda, bisognerà venirci da morti.

Mentre ripartiamo penso a quegli uomini, nudi di fronte al mare infinito, di fronte all’alba di tante vicende.

Iniziavano un cammino difficile, proprio dove per noi oggi questo cammino ha fine.

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L’AUTORE

Raffaele Nigro (Melfi, 9 novembre 1947) è uno scrittore e giornalista italiano di origini lucane, che vive e lavora a Bari, dov'è stato programmista-regista dal 1979 al 1989 e successivamente nominato Direttore e Caporedattore per la sede regionale della RAI.

Come giornalista, Nigro collabora ai quotidiani Avvenire, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Corriere della Sera. 

Con il poeta Lino Angiuli ha anche fondato alcune riviste.

L'inizio della sua attività di scrittore risale alla metà degli anni 1970, quando ha pubblicato le risultanze di alcune ricerche condotte nell'ambito dell'etno-antropologia.

Ha condotto nel contempo indagini sulla letteratura lucana e sulla storia culturale del Sud.

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