Perché, di fronte a un toscano, tutti si sentono a disagio?
Risposta ovvia, per Malaparte: di gran lunga più intelligente degli altri italiani, e libero - la libertà dipende dall'intelligenza -, il toscano è spregioso, disprezza tutti gli esseri umani per la loro stupidità.
Per di più è sboccato, insofferente, crudele, spazioso, cinico e ironico.
Possiede in compenso una greca virtù: il senso della misura, il sentimento della meravigliosa armonia che regge i rapporti fra le cose terrene e le divine: basti pensare alla Divina Commedia, dove il paradiso sembra un angolo di Toscana.
E il più toscano dei toscani, un toscano - diciamo così - allo stato di grazia, e il pratese: becero, certo, visto che non ha paura di parlare come pensa, e rabbioso, rissoso, riottoso, nemico d’ogni autorità, d’ogni titolo e d’ogni prosopopea.
E a Prato, del resto, che in mucchi di cenci polverosi «tutto viene a finire: la gloria, l'onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo».
Concepito come un arioso, amoroso, sfrontato Baedeker, sorretto da una lingua di scintillante nitore, maledetti toscani ci guida attraverso i paesaggi, i popoli, le città, la letteratura della Toscana, mimetizzando sapientemente la violenza del pamphlet: giacché a ben vedere è anche un ritratto degli italiani, che, vili, pavidi e cortigiani, della verità hanno paura, sognano privilegi e invidiano abusi e prepotenze, non sanno essere liberi e giusti, ma solo servi o padroni.
E dovrebbero imparare dai toscani a «sputare in bocca ai potenti».
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E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani
Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l’esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese.
E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro.
O forse perché, quando si tratta d’esser migliori o peggiori degli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, esser migliore o peggiore di un altro.
Nessuno ci vuole bene, e a dirla fra noi non ce ne importa nulla.
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Perfino nell'uso delle parole i senesi lasciano l'olio toscano per il burro
Non posso udire la parlata senese, senza che il cuore mi si muova.
S’entra nel senese come nel burro.
E qualcosa di butirroso è infatti non solo nel parlare, ma nei modi, in quell’atteggiar del viso al complimento, al sorriso riguardoso, all’occhiata liscia del padron di casa bene educato, e un po’ timido, all’ospite forestiero.
Perfino nell’uso delle parole i senesi lasciano l’olio toscano per il burro.
Dicono citto per ragazzo! cittino per bambino!
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Hanno un modo di inginocchiarsi, che è piuttosto uno stare in piedi con le gambe piegate
In fatto di religione, son religiosi: portati come sono per natura alla devozione, son religiosi: portati come sono per natura alla devozione, ed egualmente alla bestemmia, che è una maniera rabbiosa d’esser devoti.
Hanno un modo di inginocchiarsi, che è piuttosto uno stare in piedi con le gambe piegate al contrario di tutti gli altri italiani, che anche quando stan ritti sembra che stiano in ginocchio.
In cima alla Commedia, in vetta a quel Paradiso che sembra un angolo di Toscana, tu avverti la presenza nascosta di qualcuno che ti sta osservando di dietro un pagliaio, una siepe, un cipresso.
Non ci badare: è soltanto il fattore, voglio dire il Fattore.
Passa senza voltarti, facendo finta di niente.
I toscani han l’abitudine di non salutare mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso.
E questo anche Dio lo sa.
Vedrai che ti saluterà lui per primo.
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I toscani, all'inferno, ci vanno a orinare
Sarà bene, a scanso di equivoci, e per evitare d’esser presi per mangiapreti, dir subito che per preti s’han da intendere i parrucconi, i codini, i collitorti, i biasciconi, i lumaconi, e tutti quelli che fanno i loro interesse con l’aiuto della paura dell’inferno.
Come se in Toscana s’avesse paura dell’inferno!
Non perché non si sappia che c’è, ma perché all’inferno ci va soltanto chi ci vuole andare o chi ci si fa mandare.
I toscani, all’inferno, ci vanno a orinare.
Così, quando da noi si dice governo dei preti, s’intende governo dei parrucconi, dei biasciconi, dei bacchettoni, dei lumaconi.
E se qualcuno ti viene a dire che i toscani son nemici dei preti, sol perché non li posson vedere, dice una calunnia: non essendovi paese al mondo, tranne la Toscana, dove cittadini e preti si guardino in cagnesco con tanta buona grazia, tanti sorrisi, e tanti sbaciucchiamenti in pubblico.
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Io son di Prato vo' esser rispettato e posa il sasso, sai
È Pasqua, la testa di toro sul davanzale della finestra, il bue squartato appeso ai ganci, l'agnello sgozzato disteso sul banco di marmo.
Questo odore di sangue, di carne rossa è Pasqua.
Tutte le volte che torno a Prato, sento che l'occhio del Toro mi guarda: non so di dove, è come se fosse dappertutto e in nessun luogo.
Eppure non vi è nulla di feroce, né di sanguigno, nell'area di Prato.
Fra tutte le città della Toscana, Prato è chiara: chiara come Pisa.
I pratesi, contro la loro fama, son lisci come ciottoli del Bisenzio.
E fama peggiore non potrebbero avere, almeno a dare ascolto agli empolesi che, insieme con i pistoiesi, sono i nemici naturali di Prato.
Io sono di Prato, ma contento d'esser di Prato, e se non fossi nato Pratese vorrei non essere venuto al mondo, tanto compiango coloro che, aprendo gli occhi alla luce, non si vedono intorno le pallide, grigie, canzonatorie facce pratesi, dagli occhi piccoli e dalla bocca larga, ma avere la bocca larga, a Prato, non vuol dire, come altrove, esser boccalone.
E questo dico non perché son Pratese, ma perché penso che il solito difetto dei Toscani sia quello di non essere tutti pratesi.
E qui mi par cosa onesta di dire che, se fra i toscani, i quali son tutti degnissimi di rispetto, ce ne sono alcuni più rispettabili degli altri, quelli sono i pratesi, anche se, non conoscendoli, la gente ne parla male, e peggio ne parlerebbe, bontà sua, si riconoscesse: tanto gli uomini son pieni di invidia e di maldicenza.
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Tutta a Prato va a finire la storia d'Italia e d'Europa: tutta a Prato, in stracci
Una volta, in un mucchio di stracci che veniva dalla Sicilia, lo Scaracchia di San Fabiano trovò un cencio tricolore, lacero e stinto: ed era la bandiera che le donne italiane di Valparaiso, nel Cile, avevano offerto a Giuseppe Garibaldi, quella stessa che Schiaffino da Camogli stringeva alta nel pugno a Calatafimi, e sparì con lui nella mischia.
Era la più gloriosa delle bandiere italiane: e che fosse finita a Prato, in un mucchio di stracci, può far meraviglia a chiunque, fuorché ai pratesi.
I quali sanno che tutta a Prato, e tutta a stracci, va finire la storia d'Italia: gloria, rivolte, battaglie, vittorie, sconfitte.
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«O non lo sai che i toscani stanno a sedere sui buchi degli altri?»
Dal modo di guardare dei Toscani, si direbbe che non sono mai testimoni soltanto: ma giudici.
Ti guardano non per guardarti, come fanno gli altri italiani, ma per giudicarti: e quanto pesi, quanto costi, e che vali, e che pensi, e che vuoi.
E tale e il loro modo di guardarti, che a un certo punto ti accorgi che vali ben poco, o niente.
Forse da questo, e non da altro, nascono l'inquietudine e il sospetto che in tutti i popoli, suscita la sola vista di un toscano.
Com'è, infatti, che tutti si sentono a disagio, e quasi in colpa, in presenza di un toscano?
Per la sola ragione, dirò, che ti guarda in quel modo: non per guardarsi soltanto, ma per giudicarti.
Mi rammento che a u certo punto Bernocchino domandava a Annibale: «Da’ retta, Annibale: o icché ti piglia di venire in Toscana. se non sai nemmeno su quanti buchi sta a sedere un toscano?»
«Su uno» rispondeva Annibale.
«Su uno? O non lo sai che i toscani stanno a sedere sui buchi degli altri?»
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L'Arno è un fiume che ride, il solo fiume, in Italia, che ride in faccia la gente
Quella mattina ad agosto del 1944, quando gli inglesi, passato finalmente l'Arno, entrarono per il Ponte Vecchio in Piazza della Signoria, mi pareva di assistere all'entrata di Carlo VIII in Firenze come è dipinta in quella tela degli Uffizi: dove i fiorentini, assiepati lungo i muri proprio di fronte al palazzo della prefettura, che in quel tempo era il palazzo de' Medici, stanno ad ammirare l’ingresso di re Carlo in Firenze per la via Cavour.
Un riso chiaro scorre fra gli spettatori, quel riso che sempre scorre fra i toscani come un fiume, come il fiume che ha nome Arno: ed è un fiume che ride, il solo fiume, in Italia, che ride in faccia alla gente.
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Se ne vanno all'altro mondo, nell'al di là, come se andassero di là, in un'altra stanza
La morte stessa si vedrebbe costretta, per timor di peggio, a rispettare le leggi morali di un popolo che è il solo a non credere alla morte.
Non credere alla morte non in quanto legge universale, ma in quanto norma particolare di ciascuno, in quanto avventura, fatto personale, è proprio dei toscani. Il pensiero della morte non li rallegra né di razzista.
Se ne vanno all’altro mondo, nell'aldilà, come se andassero di là, in un'altra stanza. E quando se ne vanno, sempre hanno cura di chiudersi la porta dietro le spalle.
Il solo Toscano che sia andato all'aldilà senza chiudersi l'uscio dietro la schiena è Dante.
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E c'è chi dice che, al pari di tutte le cose toscane, quel vento nasce di sotterra, o, come credevan gli etruschi, dall'inferno
Ogni paese ha il suo vento, ogni terra si riconosce al modo come respira: è il fiato che schiarisce le foglie degli ulivi, gonfia le chiome dei pini, liscia le pietre dei muri e l'intonaco delle case, arruffa i capelli sulla fronte delle ragazze, e pulisce il cielo nei torbidi giorni di marzo e l'alito stesso di questa terra, il suo profondo respiro. Anche la Toscana ha il suo modo di respirare, assai diverso da quello della Liguria, dell’Emilia, della Romagna, dell'Umbria, del Lazio.
Ma dire diverso è poco: si dovrebbe dire contrario.
Ed è lo stesso modo col quale respirano i suoi abitanti, le sue pietre, le sue piante, i suoi fiumi, e il suo mare.
Quattro sono, anche in Toscana, i venti cardinali, e sono il grecale, lo scirocco, e tramontano.
Ma non sono questi i venti che fanno il carattere della Toscana, che le danno quel colore, quel respiro, quel tono della pelle e della terra degli occhi e delle foglie.
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«To mae!» (Grido di guerra dei pratesi e dei fiorentini)
«To mae!» dicono a Prato, per dire «tua madre!» ai Fiorentini: ma il guaio è che anche i fiorentini dicono «To mae!» ai Pratesi, perché non si sa bene se siano i Pratesi figlioli dei fiorentini, o i fiorentini figlioli dei Pratesi.
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D'estate, si sa, i fiorentini hanno caldo
Era uno scandalo mai visto, che in una città come Firenze, dove tutti se le davano allegramente e di santa ragione, e rischiavano le ossa per la propria bandiera, lui solo, Giovanni dalle Bande Nere, lui solo, un Medici, se ne stesse tranquillo a sedere in disparte sul suo seggiolone di marmo, come se la cosa non lo riguardasse.
Poi venne l'estate, è d'estate, si sa, i fiorentini hanno caldo.
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Peretola Brozzi e Campi / è la meglio genìa che Cristo stampi
Erano anni che non rimettevo piede in Campi Bisenzio, ma fra tutti i paesi della Toscana è certo il più famoso e, insieme, i più sconosciuto.
Da almeno sei secoli tutti ne parlano e ne sparlano: ma nessuno c'è mai stato, nessuno ci va.
E dire che è appena qualche miglio da Firenze, sulla strada per Prato: i Medici, andando al Poggio a Caiano, vi passava vicino, a non più di un tiro di archibugio, e chissà quante volte Bianca Capello l'ha sfiorato col gomito.
Dalle finestre di Careggi, Lorenzo morente vedeva lontano fra il verde le torri del castello di Campi.
Tutti sanno dov'è, ma nessuno ci passa.
Eppure non è distante più di due miglia da Peretola e da Brozzi: Peretola Brozzi e Campi è la meglio genìa che Cristo stampi.
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I ladri, in Toscana, non rubano polli
Di tutti gli eroi che, dalle prime letture di Plutarco fino alle mie più recenti esperienze, ho conosciuti da vicino, i ladri di polli del Bisenzio mi son certo i più cari: e ancora oggi li piango.
Oggi si va a campi, a trovare i ladri di polli.
Era per me una gran festa, quel viaggio al paese dei ladri di polli.
Erano, per me, i più fieri e più nobili uomini del mondo.
E si diceva allora a Prato, e non soltanto in Prato, ma in tutta la Toscana, che non v’erano ladri di polli più famosi di loro: percorrevano l'Italia da cima a fondo, spolverando tutti i pollai che incontravano sul loro cammino, e ogni tanto ne arrestavano qualcuno in Puglia, in Sicilia, nel Veneto.
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Oh, le belle livornesi, fanno un figlio ogni due mesi
Oh le belle livornesi, dalle spalle rotonde, le braccia tornite, la fronte è aperta come un davanzale.
Proprio come un davanzale sul mare.
Oh le belle livornesi, in piedi sulle porte delle case delle botteghe, e parlano fra loro a voce alta due uomini, di bambini, di navi.
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O livornesi che sempre state / alla vela al remo al timone / tanto vento voi respirate / che avete il culo chiacchierone (L'Arcitaliano)
Se fossi un Livornese, di quelli veri che dicono "deh" e parlano a mano aperta, muovendo le dita, come per far vedere che nelle loro parole non c'è imbroglio, vorrei stare di casa in qualche scalo della Venezia.
Non già nei quartieri, nelle piazze, nelle strade disegnate con la matita dolce, con l'aiuto di squadre di compasso, dagli ordinati e generosi architetti dei Granduchi, ma in questo quartiere che i livornesi chiamano La Venezia, qui nel cuore della vecchia città.
Che bella via sarebbe, che vita semplice e felice!
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I toscani son la cattiva coscienza d'Italia
Poiché i toscani non appartengono alla razza di quelli, che voltano alla storia un sedere tondo e grasso, e vorrebbero dare a intendere che la storia la fanno loro.
Che è il modo italiano tradizionale, e il più comodo, di farla la storia, un modo, direi, prudentissimo.
Ma se tutti gli italiani fossero, come i toscani, di mele strette, (il che vuol dire che non si fidano di nessuno, nemmeno degli amici parenti), potrebbero senza timore voltare il sedere alla storia, e non correrebbero così quei grandissimi pericoli che ogni tanto, per colpa loro, tutti corriamo.
O poveri italiani che siete schiavi non soltanto di chi vi comanda, ma di chi vi serve, e di voi stessi.
Imparate dai toscani a stimare un onore il male che dicono di voi.
E soprattutto perché noi toscani siamo la cattiva coscienza in Italia.
E questo che io dico, che siamo la cattiva coscienza d'Italia, non è un'offesa, ma un elogio dei Toscani.
Poiché ogni uomo, come ogni popolo, se non vuole addormentarsi nell'àdipe, e affogare nella retorica, ha bisogno di qualcuno che gli dica in faccia quel che si merita, quel che tutti pensano di lui e nessuno osa dirgli, se non dietro la schiena e a voce bassa.
Quel che salva un uomo, o un popolo, è la sua cattiva coscienza, non la coscienza tranquilla: e questo è particolarmente vero in Italia, dove la storia non è intesa se non come panegirico, e tutto, anche i tradimenti, le fughe, diventa materia di lode e di trionfo.
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I toscani hanno il cielo negli occhi, e l'inferno in bocca
In una cosa tutti i toscani si assomigliano fra loro: ed è nel colore degli occhi, che sono chiari, danno sul grigio, son del colore del cielo Toscano.
Dal che nasce l'antico detto, che «i toscani hanno il cielo negli occhi», al quale si accompagna a quell'altro detto antichissimo «e l'inferno in bocca».
Gli altri italiani, dunque, m’han da scusare se nel dir bene dei Toscani, ho avuto l'aria, talvolta di dir male di loro: poiché se avessi detto bene dei toscani, che sono gelosissimi, senza aver l'aria di dir male degli altri italiani, certo mi ammazzerebbero.
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L’AUTORE
Curzio Malaparte (all'anagrafe Curt Erich Suckert; Prato, 9 giugno 1898 - Roma, 19 luglio 1957) è stato uno scrittore, giornalista, militare, poeta e saggista italiano, nonché diplomatico, agente segreto, sceneggiatore, inviato speciale e regista cinematografico, una delle figure centrali dell'espressionismo letterario in Italia e del neorealismo.
È particolarmente noto, anche fuori dall'Italia, per i suoi romanzi Kaputt e La pelle, opere a sfondo autobiografico basate sulla sua esperienza di giornalista e ufficiale durante la prima e la seconda guerra mondiale, e per il saggio Maledetti toscani.
Scrittore dallo stile realistico e «immaginifico», fu definito come «cinico e compassionevole» al tempo stesso e talvolta avvicinato alle tematiche e allo stile espressionista crudo di Louis-Ferdinand Céline con cui ebbe un'amicizia epistolare.
Come intellettuale fu dapprima un sostenitore del fascismo, poi una voce critica e un oppositore dello stesso.
Caratteristica della sua letteratura è la mescolanza di fatti reali - lo scrittore è stato infatti avvicinato alla corrente del neorealismo -, spesso autobiografici, ad altri immaginari, talvolta esagerati in maniera voluta e consapevole, fino al farsesco, specialmente quando deve denunciare le atrocità della seconda guerra mondiale.
Interventista e volontario nella Grande Guerra, ammiratore di Mussolini e "fascista della prima ora", partecipò alla marcia su Roma e fu attivo nelle posizioni di fascismo di sinistra intransigente, sostenendo la cosiddetta rivoluzione fascista; allontanatosi gradualmente dal regime (fu anche mandato al confino, da cui uscì grazie all'amicizia con Galeazzo Ciano, genero del Duce), dopo l'8 settembre 1943 si arruolò nell'Esercito Cobelligerante Italiano del Regno d'Italia e collaborò con gli Alleati (cui pure non risparmiò pesanti critiche) nel Counter Intelligence Corps nella lotta contro i nazisti e i fascisti della Repubblica Sociale.
Prima anticomunista, nel secondo dopoguerra si avvicinò al Partito Comunista Italiano, grazie all'interessamento di Palmiro Togliatti che lo assunse come cronista, sebbene molti dubitassero della effettiva sua adesione, o avvicinamento, al PCI (e contemporaneamente al Partito Repubblicano Italiano, a cui già aderiva da giovanissimo, al quale si iscrisse poco prima di morire).
Morì dopo essersi convertito in punto di morte alla Chiesa Cattolica, assistito dai sacerdoti padre Cappello e padre Rotondi, secondo le testimonianze di questi.
Lo pseudonimo, che usò dal 1925, fu da lui ideato come umoristica paronomasia basata sul cognome "Bonaparte".
Famoso per il suo camaleontismo, si soprannominò e venne soprannominato l'"Arcitaliano", per avere racchiuso nella sua complessa e contraddittoria personalità molti difetti e pregi degli italiani.
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