In questo libro Paolo Rumiz racconta la più lunga traversata italiana svolta a bordo di una Fiat Topolino: due grandi viaggi compiuti per il quotidiano “la Repubblica” sulle Alpi e gli Appennini, fatti rispettivamente nel 2003 e nel 2006.
Spiega in dettaglio cosa succede dentro la montagna di casa nostra, metaforica zattera con a bordo una ciurma di piccoli grandi eroi della resistenza dei territori interni.
Ottomila chilometri, la stessa distanza che c’è dall’Atlantico alla Cina.
Era partito per fuggire dal mondo, e invece ha finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta.
Rumiz ne ha scritto con rabbia e meraviglia: meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora.
Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure.
Ma può essere anche il perfetto luogo-rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’insensata monocoltura del mondo contemporaneo.
Questo libro racconta la più lunga traversata italiana: ottomila chilometri, la stessa distanza che c’è dall’Atlantico alla Cina.
Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta.
Ne ho scritto con rabbia e meraviglia: meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora.
Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure.
Ma può essere anche il perfetto luogo-rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’insensata monocoltura del mondo contemporaneo.
Se una sera d’estate in Dalmazia senti un canto di montagna venire da una vela all’ancora, non aver dubbi: è una barca di triestini.
Gente strana, che confonde le baie con le valli, le isole con le cime, le taverne d’angiporto con i rifugi di montagna.
Era l’estate del 2003, un caldo tremendo.
Mi guidava Vieri Pilepic, un fiumano che conosce quelle cime selvose meglio di una martora.
La montagna incombeva sempre.
L’inizio delle Alpi non era riportato da nessuna guida.
Figurarsi la strada per arrivarci dal mare.
Così dovemmo tracciarla noi, a occhio.
La più diretta saliva lungo pendii invasi da arbusti spinosi che un tempo erano stati vigne.
Non fu una partenza. fu un decollo verticale su una superficie ruvida e senz’acqua, lungo una pietraia abbacinante, sovraccarica di odori.
Poco più in basso, migliaia di macchine arrostivano in coda per la Dalmazia.
E milioni di cicale frinivano nel rosmarino.
Bastò alzarsi di poco per volare con lo sguardo.
Maggio 2005.
Nebbia, silenzio, sui gradoni di Redipuglia nessuno.
In basso, sulla spianata, i due obici come neri ramarri e il sarcofago del Duca d’Aosta, che non morì in trincea ma volle egualmente star lì, a comandare l’armata perduta.
C’è aria di neve sul Carso e, novant'anni dopo l’inizio della Grande guerra, i fanti dell’armata perduta sembrano morti un milione di anni fa.
Risalgo l’Isonzo in bici fino a Caporetto, la conca è verde piena di alveari.
Gli sloveni sono matti per le api, se le portano dietro con le loro cassette colorate sistemate su rimorchi.
E poiché in Slovenia ci sono moltissimi orsi, è fatale che i suddetti si facciano scorpacciate leggendarie.
Per questa golosità sono stati ribattezzati medved, dallo slavo med, “miele”, appunto.
Dopo Caporetto, l’odore umido dell’Alpe si fa più forte, dalla bici vedo i contadini che falciano in fretta prima della pioggia.
Piove su Lubiana la paciosa capitale dello stato di Lilliput, profumata di mele.
Ceno con un piatto di lumache in una taverna dal nome Mrak, “ombra”, in mezzo a brindisi esplosivi e risate corali.
La tana di Jorg Haider, governatore della Carinzia e uomo nero del populismo alpino, sta in una valle stretta tra il fiume Drava e i confini con la Slovenia, con in basso un torrente costeggiato da vecchi mulini e in alto radure disseminate di arnie dell’autoctona Ape Carnica, iperattiva e ronzante tra margherite e rododendri.
“Per capire”, mi aveva detto un giorno una guida alpina e albergatore, “devi andare in posti come Pradumbli, un paese di anarchici dove ogni casa è una biblioteca.
O a vedere la Casa delle cento finestre, dove abitavano i signorotti della Val Degano.
Albeggia, l’uomo fiuta la nebbia come un lupo, mastica il sigaro, fruga nel silenzio della sua valle.
Porta una bandana e una canotta nera, i capelli e la barba sono grigio ferro.
E’ Mauro Corona, classe 1950, l’uomo che parla con gli alberi.
Alpinista narratore, scultore su legno, superstite ribelle dell’onda del 9 ottobre 1963.
Racconta Mauro Corona che “una sera nonno Frambol mi chiese se me la sentivo di restare solo la notte, in baita con le bestie. Feci il duro, dissi di sì.
Lui partì e io accesi un fuoco enorme.
Pensavo fosse meglio.
Invece le ombre del bosco si gonfiarono e mi circondarono.
Allora mi rannicchiai tra le fiamme e la baita.
Era l’unico posto sicuro ma così alla lunga mi arrostii e dovetti traslocare nel sottotetto, dove iniziai un dormiveglia pieno di visioni.
Fu allora che lo vidi.
Percorso in automobile, l’orticello Veneto diventa grande come l'Ucraina e non sai mai dove sei.
Solo i campanili ti dicono che qui c’era un paese lì ce n’era un altro.
In bicicletta accade curiosamente il contrario; il territorio si stringe.
L’andatura a venti orari, le soste, il vento sul grano, gli incontri, le locande, l’immersione totale nella vita di strada contribuivano a proporre una geografia familiare perfettamente memorizzabile.
Bassano, è piovuto tutta la notte, al mattino il Grappa è uno scivolo traslucido d’acqua.
Più tendo l’orecchio e più lo sento che gronda.
Decine, centinaia di torrenti, in tutte le tonalità che la pioggia è capace di esprimere.
E’ lunga come un purgatorio, scura come il temporale, la strada che ti porta al grande vecchio della montagna, lassù sull’Altopiano di Asiago.
4.444 gradini, ripidi da bestie, faticosi già a nominarli.
Mario mi porta all’orto.
Ha le rape rosse per fare il barszcz, la zuppa delle grandi pianure slave, ricordo della campagna di Russia.
“La ricetta ucraina è con tre tipi di carne, crauti freschi, aglio, cipolle. Alla fine ci metti lo yogurt, in assenza di panna acida. E un po’ di paprika.”
Un uomo con il violoncello e un bosco di alberi coperto di neve.
Lo strumento ha cinque secoli, è fatto con il legno di quella foresta.
L’uomo lo appoggia a un tronco, ficca diagonalmente il puntale nella corteccia.
Lo accorda, attacca una suite per violoncello solo di Bach.
L’albero - un gigante di trenta metri - reagisce.
Si sveglia, risuona nelle fibre, diventa un prolungamento del liuto.
Riconosce la voce dell’antenato.
Frate Lino da Padova tirò fuori bottiglie di grappa alle erbe.
Lampone, mirtillo, asperula, asparago selvatico, genziana.
Assaggiare il ginepro, un liquido marrone dal forte sapore catramato, fu come sfregare la lampada di Aladino.
Mille odori uccisi dalla modernità igienista sbucarono dal nulla e ne chiamarono altri all’appello.
Rividi una sequenza olfattiva folgorante: il profumo di cembro di una vecchia camera da letto della Val di Zoldo, con mio padre che richiudeva le imposte spalancate dalla bufera; la sciolina da neve bagnata messa a scaldare accanto a sci finlandesi di legno privi di lamine; mia nonna che apriva d’inverno la marmellata di albicocche messa a bollire l’estate; formaggi appesi ad affumicare sotto il camino di una malga; l’odore di materassi di paglia in una locanda carnica anni cinquanta, con un catino e una brocca come lavabo.
Dopo aver visto quell’ombra gigantesca uscire a notte fonda dal bosco ed entrare nel pollaio di casa, il rottweiler Zora è diventato un agnellino.
Per giorni, il cagnone che difende la villetta della signora Maria Turrini, a Lover in Val di Non, Trentino, non è uscito dalla cuccia, ha rifiutato il cibo, guaito di terrore e forse di vergogna.
Dicono che quella notte non abbia nemmeno abbaiato.
Che in casa le fosse entrato un ladro molto speciale la signora Maria non l’ha capito affatto dal suo cane, ma dallo strepito di oche e galline, quando l’intruso ha cominciato a servirsene tranquillamente per cena.
Se lo cerchi, l’orso, non lo vedi mai.
Torniamo piano, nella notte senza Luna
Il lupo solitario si sporge sulla forra dell’Isarco, guarda il fiume gonfio ottocento metri più in basso.
Sta In piedi sotto il cielo grigio, su un prato che declina come una pista per deltaplani.
Ha scarpe grosse, pelo arruffato, occhi tartari.
Dopo gli incontri con i giovani da parte del giornalista fotografo viaggiatore Kapuscinski, verso mezzanotte ci incamminiamo di nuovo verso il fiume.
C’è un ubriaco steso in mezzo al ponte.
Il Maestro è stanco, si appoggia alla balaustra.
Le ultime notizie parlano di un attentato alle truppe americane in Iraq, ma la cronaca non gli importa.
Ce ne torniamo piano, nella notte senza luna.
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Tortellini a Brennerpass
Il treno fila controvento in un mattino di cristallo, fa oscillare i lunghi orecchini d’argento di una bella senegalese con monto e telefonino, incantata dalla prima neve che appare in quota, verso il Monte Baldo illuminato dal sole.
Brennero, sosta per cambio motrice; il locomotore scarlatto delle ferrovie austriache ronfa già nel binario di servizio.
Ho sempre amato questo posto.
Brennero, con le sue locande per camionisti e gli spartineve già pronti ad agosto.
A Brennerpass sto bene.
Tutto è com’era, intriso di leggenda.
Ci venivo in vacanza da bambino e la mattina partivo a cercar funghi con un ferroviere romagnolo.
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Il turco aveva ragione
Aveva ragione il turco.
Nelle birrerie austriache non spumeggia solo un’identità innocua.
C’è anche un vecchio demone, e dai tempi di Strauss la DC bavarese ci gioca a rimpiattino.
Per fare terra bruciata intorno alla estrema destra, il vecchio Strauss aveva deciso di tenere il grande raduno annuale nell’anfiteatro dei Nibelunghi fatto costruire da Hitler.
Già, ma come tenere a freno il demone?
Come impedire che le parole diventino atti, il populismo si trasformi in nazionalismo e nelle birrerie di Monaco rispunti un pazzo con i baffetti?
“C’è la polizia,” ti dicono.
Monaco è una città di polizia dove nulla, nemmeno il sottosuolo, sfugge al controllo del suo occhio invisibile.
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DALLE VENOSTE ALLA VALTELLINA
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Quando Herr Simon scomparve nella neve
Valle di Otz, sentiero per Brandenburger Haus, metri 3.272, il rifugio più alto del Tirolo.
Siamo vicini alla linea di confine dove nel 1991 fu trovato l’uomo dei ghiacciai, la mummia più famosa del mondo dopo Tutankhamon.
E’ una giornata spettacolare, ma il cielo sereno serve a poco, perché nella testa mi turbina una tormenta di fine autunno, quando Herr Helmut Simon da Norimberga, lo scopritore di Otzi scomparve nel nulla esattamente come la sua creatura.
Cinquemila anni dopo, di nuovo sulle Alpi.
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Il capolavoro dell'ingegner Donegani
“Le vie cantano”, scriveva Chatwin, e anche lo Stelvio ha la sua voce.
Ma è difficile sentirla salendo in automobile.
Per catturarla, devi andar su leggero, scavarti un tunnel di silenzio.
E’ per questo, più che per il paesaggio, che devi salire in bicicletta.
Solo così puoi capire il segreto della strada più alta delle Alpi.
Tagliata a meraviglia.
Ti lascia sempre sotto il limite della fatica.
L’ha tracciata sotto gli Asburgo un ingegnere lombardo di nome Donegani, anno 1818.
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Sul bruco rosso dei ghiacciai
Il trenino svizzero lo riconosci prima dall’odore.
Non emana quell’amalgama stagionato di piscio, diserbante e sudore che regna nelle nostre stazioni.
Se lo avvicini a occhi chiusi, fiuti sapone di Marsiglia, legno di abete, cioccolata espresso.
Eccolo. Il bruco rosso squillante che dalla valle dell’Inn mi porterà sui ghiacciai del Bernina, lungo la linea più alta d’Europa, saldando a nord Trentino-Alto Adige e Lombardia con un bypass in terra straniera.
Ha sul muso lo spartineve e lo scudo con la stemma lucente dei Grigioni.
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Via di notte, come Tuareg nel deserto
Ancora negli anni ottanta, dal Monte Guglielmo, ai primi freddi, potevi vedere ai tuoi piedi la Val Trompia coperta da una prateria di nubi.
Torno sul Guglielmo insieme a Fausto De Stefani, conquistatore dei quattordici Ottomila, le montagne più alte della Terra.
E’ gennaio, in quota fa così caldo ed è così sereno che bivaccheremo sotto la cresta che divide la Trompia dalla Camonica.
Fauto viene da Mantova, ha barba e capelli neri lunghi, incolti; sale come un elfo, di pietra in pietra, lungo il torrente Re.
Il terreno è suo, non ha bisogno di carta.
“Non vengo qui per allenarmi”, dice, “ma per dimenticare il mondo”.
Da quando il clima è impazzito, ha cambiato abitudini:
Si sposta di notte, come un Tuareg nel deserto.
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Dove l'Africa finisce
La Valtellina ha due formidabili guardiani: da una parte, il forte secentesco di Fuentes coperto di vegetazione, dall’altra, Walter Bonatti, forse il più grande alpinista del mondo, che ha casa quassù.
Un misantropo, dicono di lui; un polemico.
Io vedo piuttosto un solitario Dalai Lama, lontano dalle miserie della vita, ma sempre capace di indignarsi con l’Italia e gli italiani.
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DA CHIAVENNA AL TICINO
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Una fanciulla discinta per dopo cena
A Chiavenna comincia un’Alpe arcana, piena di locande, santuari e leggende.
Le strade raccontano di carovane ricche di vino, armi, salnitro, formaggio, tessuti e persino oro, epici passaggi con slitte e cavalli, locande sperdute, frane catastrofiche e devastanti passaggi di mercenari.
Si narra che Piuro, in epoca rinascimentale fosse ricca al punto da offrire ai mercanti che sostavano al palazzo Vertemate - il più bell’edificio alpino della Lombardia - una fanciulla discinta per il dopo cena, calandola dall’alto su un’altalena, attraverso una botola, dentro una camera detta “della delizia”.
Ripariamo all’hotel Posta, arrivano delle Topolino svizzere, reduci da un raduno in Italia, penso che quella macchinina bombata, vulnerabile e piena di spifferi, è il mezzo ideale per battere le nostre montagne con la dovuta lentezza e umiltà.
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L'urlo del mare archeozoico
L’urlo della sirena lacera il buio, invade le fondamenta della montagna, si moltiplica in un labirinto di gallerie, volte, cripte, navate, cupole, absidi, duemila metri sotto i ghiacciai.
E’ il segnale, mancano pochi secondi al brillamento delle mine, il cantiere si ferma.
Quello del Gottardo, cuore della Svizzera e bastione orografico delle Alpi, è il viaggio nel tunnel più lungo del mondo.
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Una casa piena di vento
Settembre, la nebbia inghiotte il Lago dei Quattro Cantoni, il trenino elvetico fischia rauco in galleria, sferraglia verso la terra di Schwyz, quello che ha dato il nome alla Confederazione e tempo fa ha votato al settanta per cento contro l’Europa.
Dell’Europa unita neanche parlare.
Il montanaro teme che sia una casa piena di vento, un condominio senza muri.
E come Otzi, l’uomo dei ghiacci svegliato dopo millenni per finire in un museo, anche il gigante della Muotta sente che il suo splendido isolamento protetto dai ghiacci è alla fine.
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Dove le frane diventano paesi
Strapiombi color ferro, un fiume selvaggio, massi enormi precipitati da chissà dove, case e tegole di pietra, gole muschiose intasate di nubi.
Qui anche gli abitanti vivono come capre, da millenni.
Abitano nelle pietre.
Normalmente le frane spazzano via i paesi, rendono impossibile la vita.
Non in Val Bavona, dove le frane diventano paesi.
Si popolano di vani abitabili fra un masso e l’altro.
Stalle, cantine, essiccatoi, cascine, forni, frantoi, rispostigli, officine, rimesse.
Una meraviglia rupestre come Matera, ma trasferita sulle Alpi e senza pubblica illuminazione.
Immersa nel suo buio primordiale.
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DAL ROSA AL BIANCO
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Forse nevica in Transilvania
Un turboelica sulla rotta Bucarest-Milano Malpensa, il motore come un trapano che addormenta.
Una banchisa copre il Centroeuropa e in quel Mar Bianco, le montagne emergono come iceberg, formano arcipelaghi.
Senza le nubi, dal finestrino saprei riconoscere città, fiumi, colline e strade maestre.
Ho un vizio: leggo carte geografiche. Le imparo a memoria.
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Qualcosa si è staccato lassù
La montagna di neve scivola verso il nulla in un mare in tempesta di acqua e detriti, pare un capodoglio sospeso in una luce diafana, alla deriva in un caldo equatoriale.
Gronda, sgocciola, si contorce, emette rumori cupi.
Ogni tanto un blocco si stacca dalla sua mostruosa fronte grigia, precipita, esplode, erutta una pioggia di cristalli, si disintegra come avesse la dinamite in corpo.
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"Les pantalons, les pantalons!"
Per arrivare dal Genulin venendo dal Monte Rosa devi fare un periplo infinito.
Eugenio Gianadda, detto Genulin, anni novantadue, il patriarca di Curino, mi apre la porta.
Sembra un po’ Gandhi, un po’ Luigi Einauidi.
Mi offre albicocche del suo giardino e acqua fresca del pozzo, tagliata con il vermouth.
Curino, seicento abitanti e ventisei chiese, ex feudo pontificio perso sulle colline fra Biella e la Valsesia, terra ricca di minerali e ossa di dinosauri, quasi non lo trovi sulla carta.
Non è un uomo, l’Eugenio, è una biblioteca vivente.
Scandisce le parole con lentezza e semplicità, vuol essere certo di venir capito.
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Sembrava il profeta Ezechiele
Aveva una barba biblica, inestricabile come un roveto ardente, mani da fabbro ferraio e occhi da brigante buono.
Tutto il suo fisico parlava.
Portava stampata addosso l’agilità del camoscio, l’impazienza di darsi da fare, un altruismo febbrile ma senza ingenuità.
Era la quintessenza dell’anima montanara, quella speciale dei biellesi.
Morì in Kossovo.
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D'inverno ti seppelliscono in piedi
Quando la pendola del mezzanino batte le 22.30, l’Hospice sul Passo del San Bernardo, accanto alla tomba del generale Louis-Charles Desaix, eroe della battaglia di Marengo, diventa una cosa viva che respira.
Nelle camerate inizia il letargo dei viandanti e della Confraternita che li ospita.
Se è la tua prima notte quassù, è facile che ti catturi la leggenda di questo severo edificio in pietra, che da quasi mille anni funziona come stazione di soccorso.
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La meringa gigante
Sul lato francese, il tetto d’Europa mi tolse il fiato all’improvviso, mi cadde quasi addosso al curvone di Sallanches.
A fondovalle era già notte, ma sopra il bosco la muraglia di neve era ancora in piena luce, pareva una meringa nell’aria rarefatta.
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Connaisez-vous Ulysse Borgeat
La folla è decuplicata sul Monte Bianco, ma Ulysse Borgeat - il custode del rifugio Couverde - lo ricordo come se fosse ieri.
Era il papà degli alpinisti.
Aveva addomesticato una marmotta che la sera saltava sul tavolo del rifugio e cenava con gli ospiti.
Ulysse non dormiva mai.
Non so come facesse.
Nessuno aveva la sveglia, era lui a scuoterti in branda all’ora giusta.
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DAL GRAN PARADISO A NIZZA
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Il ritorno di fra Dolcino
Nel buio un cartello stradale indica la Val di Susa.
Decido all’istante di andarci.
Chissà che sotto la rivolta degli indigeni contro l’alta velocità ferroviaria covi qualcosa di più antico.
La valle è già devastata da quattro strade parallele, un’autostrada, una ferrovia internazionale e un elettrodotto a 380 mila volt.
La rabbia è antica.
Il dispetto dei valligiani sempre scavalcati da decisioni altrui, che nulla di buono hanno portato alla montagna.
In un alberghetto di Bussoleno trovo la conferma prima ancora di salire a dormire.
In bacheca c’è una lunga lettera di fra Dolcino - bruciato vivo sette secoli prima - ai ribelli anti-Tav di oggi.
Leggo con trepidazione: “Cari valligiani ribelli, è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scrivervi. Da secoli ci aggiriamo, stanchi e obblighi, sopra i fatti del mondo ...”, vediamo “montagne sventrate dall’arroganza del denaro, vallate affogate nel cemento ... genti rassegnate e chine”.
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Il vento soffiò ventun giorni di fila
Il vecchio mi aspettava in un letto a baldacchino, come un lord inglese, protetto da due cani malandati come lui.
Abitava alla fine del mare padano, in un’insenatura della Val Chisone agli antipodi della sua terra natale.
Quando ero bambino c’erano giornate, raccontava il vecchio, in cui dopo la bora si poteva vedere il campanile di San Marco oltre l’Adriatico.
“Un giorno il vento soffiò ventun giorni di fila, poi il cielo divenne di un blu intenso che non ho visto mai più in vita mia. Pareva di toccare i Colli Euganei.”
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Una locanda di nome di Griselda
Nell’ora viola, le Alpi divennero il profilo di una lanterna magica tutto attorno, e il Piemonte si svelò come uno straordinario Midi.
Un Meridione dove i nomi cantavano, i monti si chiamavano Monviso, Mongioia, Argentera; dove le locande portavano i nomi di Marianna e Griselda, rievocavano Roncisvalle, belle al balcone e prelibatezze d’altri tempi.
Qui cominciava il mondo occitano, un’arcana costellazione che arrivava fino in Catalogna.
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Tutti gli aerei la conoscono
Mi venne indicata una casetta oltre i 2.000, un puntino sotto la cima del Monte Chersogno.
Si chiama Cà di Bornhu, “Casa dei ciechi”.
Non è un nome messo lì a caso.
Quella era davvero la casa dei non vedenti.
Li avevano reclutati i fascisti nel ‘44, perché sentissero, di notte, i bombardieri alleati in arrivo dalla Francia.
“Non avevamo il radar, noi italiani. Ma avevamo i ciechi, che hanno un udito speciale. Così mettemmo in quota gli ‘audiofoni’, gigantesche orecchie che amplificavano i rumori del cielo. E quei poveracci stavano in ascolto, con i turni di guardia. Confinati lì, estate e inverno.”
Succede perché questa valle cieca, binario morto degli uomini, è invece una grande autostrada del cielo.
Tutti gli aerei la conoscono.
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Profumo di baguette
L’ultima Roncisvalle alpina dei ciclisti si chiama Col de la Cayolle, estremo scollinamento del Tour de France, la porta del Mediterraneo, il principio del Midi.
La Route des Grandes Alpes ci spetta.
Sessanta chilometri da lupi, sospesi tra Delfinato e Provenza, senza l’ombra di un segnale nel telefonino.
Fa un caldo tremendo, già ai primi chilometri dobbiamo bagnare il berretto a ogni fontana per non far bollire il cervello.
Esultiamo quando finisce l’Alpe dei fiori ai balconi, comincia quella dei panni stesi alle finestre. La nostra.
Il rumore delle stoviglie arriva sulla strada. Profumo di pane. Il Sud.
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E l'orchestra suonò "La gazza ladra"
Una volta i barbari stavano sulle Alpi; oggi stanno sul mare e sono certamente peggio, non hanno etica né radici.
Ai tempi di Augusto la battigia era vuota; oggi il Trophée des Alpes regna sull’anarchia di un paesaggio saturo di cemento, governato dallo spreco e dalla rapina.
Fino al bagnasciuga, cattedrali di cemento, casinò, culi al sole, ladri in motorino e cafoni in bermuda.
Una perfida orchestrina, sul lato sud del monumento, attacca La gazza ladra.
Dopo lo scippo di Nizza sembra un finale perfetto.
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GLI APPENNINI
DA SAVONA ALLA TREBBIA
Ascolta "Capitolo 9 - Gli Appennini da Savona alla Trebbia «La leggenda dei Monti Naviganti» Paolo Rumiz" su Spreaker.
Tutto cominciò al buio
Scesi fino a quaranta metri sotto terra tra due pareti di cemento, in una navata nuda che dopo mezzo chilometro formò un curvone da autodromo sotto le fondamenta di Sesto Fiorentino e si inabissò nella montagna.
Dieci ore di viaggio in fuoristrada al buio, con solo sei finestre sull’Appennino, sei lampi di luce su foreste, abbazie, torrenti e vecchie stazioni di posta.
Ascolta "Tutto cominciò al buio da «La leggenda dei Monti Naviganti» di Paolo Rumiz" su Spreaker.
Il rettilineo non accorcia un bel niente
E’ un attimo.
Come infilo la chiavetta a forma di chiodo nella toppa dell’accensione, la Calabria diventa lontana come la Patagonia.
E, l’Aspromonte, capolinea del viaggio, si trasforma in un infuocato purgatorio, perso nei miasmi della distanza.
Ce la farò.
Non accendo nemmeno il motore.
Guardo le spiagge roventi della Riviera di Ponente, le prime luci dei ristoranti, le donne tirreniche, le palme, le agavi, e mi chiedo come ho fatto a cacciarmi in un guaio simile.
Fare gli Appennini per le strade minori è già una follia.
Gli Appennini non finiscono mai.
Ma farli con una Topolino del 1953 è un delirio.
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L'ultima trincea di don Luciano
Dopo una curva il cielo sparisce, inghiottito da un fiume di nuvole che sale dal mare.
Poco oltre, nel tunnel grigio, scompare improvvisamente ogni rumore.
Tutto cigolii, spifferi, sferragliamenti, raffiche, scricchiolii della ghiaia.
Scendiamo in un tramonto mandarino su Dova superiore, in provincia di Alessandria.
Il paese ha diciotto abitanti, un magnifico campanile a cipolla e una locanda gestita da un parroco di nome Luciano.
Un prete da queste parti deve sapere fare tutto, anche cucinare.
Qui solo i preti tengono duro: don Luciano gira come una trottola per dir messa in undici parrocchie, ma rischia di non farcela più.
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Sulle tracce di Gurcio Tignoso
La giornata dei briganti, disertori, sbandati stupratori di femmine, comincia alle Capanne di Cònsola, valico in capo al mondo a quota 1.493, dopo una salita da bestie, con il mulo meccanico surriscaldato, un birrino e una strana locanda con il bancone in Emilia, i tavoli in Piemonte e la terrazza in Lombardia.
Ma anche la Liguria è lì, a un tiro di schioppo.
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Persi nella piana ipermercata
Il giorno dopo sono a pranzo dall’amico Franco Sprega nella sua veranda ai bordi della pianura, frazione di San Protaso in quel di Fiorenzuola.
L’auto sputacchia, vorrei che qualcuno le desse un’occhiata prima di tornare in montagna.
Il suocero di Franco, in canottiera, si immerge felice nel motore unto di grasso mentre noi si banchetta.
San Protaso è il luogo perfetto per bivaccare e fare il pieno di storie prima di tornare sui monti.
L’auto pare sia a posto, tira il fiato sotto un gelso dopo un giretto di collaudo verso Castell’Arquato, mentre noi parliamo di guerre fino al tramonto sorseggiando Trebbiano bianco freddo con le bollicine.
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DALLA VAL D'ARDA ALLA LUCCHESIA
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La principessa delle balene
Pochi chilometri, ed è già sosta d’emergenza in una trattoria con pergola.
La macchina non va bene di nuovo: tossisce, fatica a ripartire, ha le batterie scariche nonostante le premurose cure del giorno prima.
In un bar, mi tuffo nella carta al 200 mila del Touring, ma l’ansia aumenta.
L’Appennino emiliano è interminabile; per leggerlo tutto devo spalancare il foglio numero 6 come una fisarmonica, dall’inizio alla fine.
Mi rendo improvvisamente conto che in linea d’aria è lungo come la costa italica da San Marino a Bari, ma come sviluppo stradale è nettamente più complicato.
Sono disorientato: siamo in un labirinto di montagne, ma Chiavari è a soli cinquanta chilometri in linea d’aria.
Gli Appennini navigano davvero.
“Vai a vedere la Val di Nure”, quasi mi ordina una voce di donna alle spalle, salvandomi a un passo dal naufragio.
E’ una signora dai capelli rossi e corti, attirata dalla mappa piena di annotazioni.
“Ti ci porto io. Piacere, Rossi Carla,“ fa lei spalancando due occhi entusiasti.
Ora, dopo la Donna del Fiume, ecco questa Signora delle Balene che evoca mostri.
Racconta il suo primo incontro, da bambina, con la regina dei mari.
La regina delle balene gesticola, ha in corpo tamtam e cornamuse, malinconie scozzesi e allegrie caraibiche.
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Zwanzing Personen in Automobil
Quando riparto, il grande vuoto ricomincia.
Un vuoto spaventoso punteggiato qua e là di vecchi soli e badanti straniere.
In Africa, anche in pieno deserto, c’è sempre qualcuno sulla strada.
Qui no.
Senti che la vita è altrove.
L’uomo è estinto come l’elefante di Annibale.
Improvvisamente mi accorgo di viaggiare in uno spazio incomparabilmente più ancestrale e arcano delle Alpi.
Queste non sono montagne bomboniera.
Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre.
Solo locande anni cinquanta con la fotografia di Bartali, il manifesto dell’assemblea dei cacciatori e qualcosa di balcanico nell’aria.
"Zwanzig Personen in Automobil ..." sul Passo di Pellizzone, quota 1.029, la strada è così solitaria che per vincere l’angoscia mi sgolo con una vecchia canzone triestina in pseudotedesco.
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Il lupo e le signore degli agnelli
Il macinino ansima in prima, rivela di sé le vibrazioni più intime, soffi, scricchiolii, raschiamenti, acciottolio di stoviglie.
Sale così piano, e su strade così deserte, che può concedersi di andare a zigzag pe schivare le rughe dell’asfalto.
Telefono a Patrizia, che ha appena finito la battaglia campale della tosatura e si concede il lusso di una pausa.
Nella sua fresca casa in pietra, narra la sfida raccolta dal suo gruppo, governato da una solida maggioranza di femmine.
“Stavamo perdendo le tradizioni dei padri, non sapevamo che le nostre bestie sono uniche. Poi sono venuti quelli dell’Università di Pisa, ci hanno detto che l’agnello zerasco era frutto di una selezione unica: abbiamo capito di avere in mano un tesoro e ci siamo consorziate”.
Per tenere d’occhio il lupo, che transita sopra casa sua, Valentina è capace di dormire con il gregge.
Quassù del lupo hanno un rispetto reverenziale.
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Attenti ai Buioni
I denti acuminati delle Apuane, segnati da improvvise tempeste, mi chiamano per l’ultima avventura.
“Attento ai Buioni, i fantasmi che abitano nella pancia delle Apuane” avverte con studiata voce di tenebra lo speleologo che mi aspetta sull’Alpe per un giro a piedi verso il Monte Paglionico e un’orrida grotta ventosa detta “Tana che urla”.
Racconta che lì, sotto il lago artificiale di Vagli, passa l’antica via Vandelli da Modena a Carrara, con la terribile storia del suo progettista, suicidatosi per aver fallito lo scavalco, troppo ripido, delle Apuane.
Quelli del povero Vandelli erano altri tempi.
Chissà se anche lo sventurato ingegnere è diventato un buione.
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DALL'ABETONE ALLA ROMAGNA
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Le vacche vadano al piano
La gloriosa Statale 12 dell’Abetone e del Brennero si addentra nella tetra gola del Serchio, infestata dai Tir e dagli spericolati ciclisti della Lucchesia.
Si narra che, quando su valico il duca di Modena e la duchessa di Lucca ebbero collegato i loro domini con una nuova strada e i due si incontrarono sul crinale per inaugurare la grande opera, la duchessa toscana, scoprendo l’incipiente calvizie del nobile dirimpettaio, gli disse con perfido giro di parole: “Caro amico, quanta neve al monte”.
Al che il duca, gelido: “Amica cara, se c’è neve al monte, le vacche vadano al piano”.
Niente Abetone, dunque: troppo trafficato e banale, penso, per un viaggio alla ricerca dell’Italia minore.
Giro faticosamente il macinino sull’orlo del burrone, con la prima che urla e la retro che gratta, poi ridiscendo al piano, come le vacche e la duchessa di Lucca.
Durante la discesa trovo solo pastori toschi, cani toschi e forestali toschi, tutti egualmente muti e diffidenti come lontre.
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L'oro di Felix Pedro
Il ritorno di Felice Pedroni, alias “Felix Pedro”, il più grande cercatore d’oro della storia, si consuma per caso, alle cinque della sera, nella bottega del barbiere di Fanano, nell’alto modenese, un grosso paese dal tipico aspetto emiliano di premiata colonia estiva.
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Il boa che uccide i torrenti
Sulla mappa del Mugello trovo acque dai nomi favolosi, ma tutti scomparsi, stanno solo sulla carta, il mormorio è perduto.
Qui ogni casa aveva la sua sorgente.
Oggi è tutto finito, il Mugello è stato disidratato dal cielo e dal sottosuolo.
Paoli mi mostra un serpente boa di plastica nera che traversa i boschi del Poggio Rotto.
E’ un tentacolo della Bestia; il tubo con cui fino a ieri la Tav ha pompato acqua per tenere in vita i torrenti.
Oggi è lì, corrotto e abbandonato. Nessuno pompa più niente.
Risento il silenzio desertico del Piave, il mormorio del Po ridotto a rigagnolo.
Il silenzio dei fiumi è il motivo di fondo di questo viaggio tra le montagne d’Italia.
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Mugugni sul fatal sacello
Non so cosa ci ha preso, di andare a Predappio a dare un salutino al Duce.
C’è che la prima versione della nostra macchinina è del ‘36, anno della conquista d’Etiopia e apogeo del regime.
E c’è che vogliamo capire come diavolo l’estetica granito abbia prodotto un’utilitaria così “coquette”, tutta musetto e culo. Sensuale e femminile.
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"I fascisti peggio dei tudòsc"
Ma tra Predappio e le Marche c’è ancora Meldola, paese di rosse logge e bianchi selciati.
Vi stanno giusto rievocando la vita e la morte del partigiano Antonio Carini, massacrato dai fascisti sul ponte lì vicino nel marzo del ‘44.
Racconti terribili, raccolti dagli ultimi testimoni superstiti.
Finire nelle mani dei fascisti era peggio che esser presi dai tudòsc.
I tudòsc erano cattivi quando c’era da esser cattivi, ma non si perdevano in vendette personali.
I fascisti invece ti torturavano per invidia, magari per questioni di soldi o di donne.
Uno lo ammazzarono solo perché era più bello degli altri.
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DAL MONTEFELTRO AI SIBILLINI
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Il cielo si oscura, governo ladro
Il Sasso chiamato Simone naviga sotto le stelle, sul confine tra Marche e Toscana, solitario fra i grilli in un mare di querce nel vento.
Sembra una portaerei, con gigantesche murate e una lunga pista sulla sommità.
Il mattino dopo l’auto sale nella boscaglia sopra Pennabilli in un forte odore di aglio selvatico.
Saliamo per una rampa franosa e in cima scopriamo che Sasso Simone è isolato nel saliscendi d’Appennino come la boa di una regata.
Intanto il cielo si oscura, governo ladro.
Sulla sommità facciamo in tempo a vedere un fronte di nubi nero inchiostro arrivare a tutta velocità da occidente.
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Donna in nero con temporale
Negli anni cinquanta don Beppe andava all’eremo ancora a dorso di mulo.
La strada non c’era, il viaggio durava mezza giornata in una “selva oscura” di querce e cinghiali.
Oggi che ha ottant'anni, don Beppe a Fonte Avellana ha scelto di viverci.
E’ uno che parla poco: ma stasera, davanti alla Topolino appena sbucata dal temporale di fronte al portone del convento, gli torna la voglia di raccontare.
Di notte, in un convento può succedere di tutto.
Anche che una donna vestita di nero, bella come una dea, ti svegli alle tre del mattino.
Una dea madre appenninica, o forse l’icona di un volto perduto.
E’ venuta in sogno da chissà dove, ma tu credi di averla vista davvero, ferma con le spalle al muro dello scriptorium, accanto al portone d’ingresso.
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Hitler, Ginetto e san Severo
L’auto partigiana si imbosca nella Provinciale 16 di Sassoferrato, deserta nella pioggia, poi in una ex Statale dal nome pazzo di Septempedana, persa nel polpaccio d’Italia, il punto più largo dello Stivale.
Fa freddo, il parabrezza si appanna, viaggio quasi alla cieca finché, in fondo ad una gola, il bilico su una cascata, appare Piòraco, un borgo medievale dove si fabbrica carta da sette secoli e che la grazia dell’Onnipotente ha risparmiato dalla furia devastatrice dei geometri.
Pochi chilometri dopo, a Seppio, riparo sotto un portico a dar di spugna al fondo della Topo.
Non posso continuare, le previsioni sono pessime.
Accanto c’è un “bar alimentari”, con un tavolo impegnato in una briscola.
Qui sono curiosi, oltre che privi di diffidenza.
Mi offrono da bere, e si prodigano in consigli. “Vicino c’è un buon alloggio”, suggeriscono, “e fra poco arriva Ginetto che può accompagnarti lassù”.
Omettono di aggiungere che Ginetto ha ottantatré anni e il suo mezzo di trasporto è un’Ape, il più glorioso triciclo da combattimento della storia nazionale.
Nel fiume di parole di Ginetto sbuca un certo “Itterle” che deve aver avuto un ruolo nella sua vita, molti anni fa.
Itterle, chi sarà costui?
“Quello che gli dicevano ‘aile Itterle!’ Capito?
E per fare il saluto nazista molla non una, ma entrambe le mani dal manubrio nel punto dove la strada compie una curva pazzesca in un asfalto crivellato di buche.
Hitler, dunque. Colui che l’ha mandato in un campo di lavoro tedesco l’8 settembre ‘43.
Mi porta sotto una tettoia, davanti a una pesante slitta.
“Con questa ho portato le pietre per fare la chiesa”, spiega.
E indica poco lontano, una cappella di venti metri per dieci, in perfetto rettangolo aureo, con il campanile a vela, una finestrella rotonda sopra l’ingresso e una dietro l’abside.
Le pietre hanno mille anni, vengono da una chiesa medievale crollata, poco sopra il cimitero.
“Ti piace? L’ho costruita per sposarmi. Nel 1947”.
Chiedo a che santo è dedicata la chiesa.
“A Severu”, risponde, e smette di ridere, come se nominasse qualcosa di molto importante.
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DAI MONTI REATINI AL MOLISE
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"Immanis horribilisque specus"
Stasera il Lazio comincia con strade deserte e villaggi senza una luce; come se un diserbante avesse annichilito ogni presenza umana.
La capote fischia nel vento, l’abitacolo è pieno di profumi nuovi.
Mi accorgo che senza il mio macinino crivellato di fessure non percepirei nulla della metamorfosi in atto.
Nell’aria c’era anche qualcosa di oscuro.
La Sibilla era solo l’inizio.
Entravo in un territorio a sud-est dove l’invisibile prendeva il sopravvento.
Dopo le balene volanti e gli elefanti di Annibale incontrati in terra padana, ora si svegliavano caverne e acque sotterranee.
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Ottava rima e ragù
Quando arrivo a Villa Pulcini trovo solo quattro case e un cane enorme che, dormendo in mezzo alla strada, mi impedisce di passare con l’auto.
Nessuno in giro, anche la locanda è chiusa.
Ma a un tratto un canto corale rompe il silenzio, le porte della chiesa si spalancano, un piccolo fiume di gente si riversa per strada.
Ora ricordo, Francesco Guccini me l’aveva detto: da queste parti vive ancora la voce antica dell’Appennino.
Qui puoi ancora assistere a pubbliche disfide in rima, a gare fra poeti capaci di continuare per notti intere attorno al fuoco.
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Dove i monti diventano arcipelago
La prima volta ad Amatrice ci vai per un’amatriciana, ovvio.
Succede che nella sua locanda una materna cameriera con chignon ti sussurri un confidenziale “Che je porto?”, sapendo perfettamente la risposta, e poi ti serva con cura d’altri tempi, sotto una gigantografia autografa di Bartali e Coppi.
Quando esco, la cameriera mi rincorre con la minerale non bevuta, perché “nun se sa mai", in viaggio “pò servì”.
Con la neve fresca, i selvaggi Monti della Laga paiono piramidi d’Egitto.
Prismi perfetti, sotto i quali regna l’anarchia: il terreno da Amatrice a Campo Imperatore sembra l’Atlantico quando il vento cambia, e la Topolino si perde in un mare di onde anomale che sembra non portare da nessuna parte.
Per strada, nessuno; una decina di macchine in mezz’ora.
Al Passo delle Capannelle la strada sembra perdere ancor più la direzione, avvitarsi in un dedalo di saliscendi insensati ma poi, oltre un ultimo dosso, ecco i pascoli che cominciano, lisci e regolari come campi da golf.
Ma sì, l’Appennino è solo una Dalmazia senza il mare.
Sognerò un transatlantico pieno di orchestrine, in viaggio tra neri promontori.
L’epifania dei monti naviganti.
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Dispersi nelle Terre di mezzo
Le vecchie auto di una volta ti impregnano del loro odore, come un bravo cavallo da mandria.
In tre settimane di sole e intemperie, la Topolino mi ha messo addosso la puzza di un gaucho.
Mio figlio Andrea, che mi raggiunge in pullman sulla Tiburtina Valeria per farsi un pezzettino del viaggio, mi sente addosso l’odore del trabiccolo prima ancora di salirci.
“Una via di mezzo”, ride, “fra un ranch e una balera di periferia”.
L’auto ha il profumo dei luoghi attraversati.
Un’altra Italia, dimenticata, fatta di mandrie, greggi e pastori; estranea al mondo asettico della modernità.
A cena in una locanda, uomini della Forestale raccontano di un lupo investito sulla via Tiburtina, e mi portano a sentirli, i lupi, ai piedi del Monte Morrone.
Il giorno dopo Nerina morde il pendio verso le gole di Caramanico, in mezzo a sorgenti, fontane, eremi sperduti.
Veleggiamo con la capote abbassata e la Maiella imbiancata pare la Serra Nevada sopra un terreno andaluso popolato di ulivi.
“Attenti”, ci hanno detto prima di partire, “il Gran Sasso è maschio, la Maiella è femmina. Comincia la terra delle dee madri”.
Andrea è stupefatto da questo mondo minore, non ha mai avuto così chiara l’immagine di un’Italia arcipelago di meraviglie ignorate.
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Del brutto tempo e dei santi
Tira un vento gelido, sui monti del Matese, e sulle Mainarde è nevicato fino a bassa quota.
Dal Tirreno arrivano nuovi temporali.
Così facciamo sosta a Carovilli, un borgo delizioso a trenta chilometri da Isernia, risparmiato dalla peste della camorra e dallo spopolamento.
Si parla del brutto tempo e dei santi utili a farlo smettere.
“L’acqua, quando è troppa è troppa”, brontola il locandiere che ha sentito dire che a Somma Vesuviana, per la festa della Croce, hanno occupato la cima del vulcano e acceso fuochi per chiedere il sole.
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Vacche lombarde in Terronia
L’indomani ancora pioggia, freddo e caminetto acceso.
Nerina dorme sotto un telo accanto a un cane pastore e la taverna di Mario, dove ho trovato da dormire, diventa un campo base ingombro di quaderni e mappe.
Nunzio Marcelli, pastore laureato, arriva con le carte dei tratturi, e mi spiega come il mio “passaggio a sud-est” difficilmente potrà evitare le grandi strade delle greggi.
Tutto il paesaggio, dice, ne è segnato.
Nunzio, appena tornato da Kabul, brontola che perfino in Afghanistan sono perfettamente consci del valore immenso dei pascoli.
L’Italia no, ha liquidato una cultura.
Ha dimenticato che la nostra ricchezza nazionale era qui, su queste montagne, e ora fa di tutto per impedire le transumanze, con disposizioni veterinarie prive di senso.
Alla pastorizia, la politica ormai non dà più nulla: né la cultura, né marketing, né la coscienza di una vocazione.
Usciamo a cercare i tratturi.
I cartelli marroni che li indicano sono ovunque, ma trovarli è una caccia al tesoro.
L’Italia, dove non vedi più un animale al pascolo e dove i bambini credono che il latte esca dalle bottiglie, era il regno favoloso del nomadismo transumante.
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La nostalgia di Carmelina
Metti di essere in un posto dove fa freddo, la pioggia tamburella sui vetri, e in cucina si preparano polenta e spezzatino.
Fuori, eco di campanacci con vacche al pascolo.
Ecco: siamo arrivati in un mondo così.
E’ Molise, Italia terrona.
Impossibile ignorare i Colantuono ad Acquevive, paesino tra Isernia e Campobasso sotto i pascoli della Montagnola, sulla via della Puglia.
Cinque fratelli, tutti nati di marzo, da bravi figli di transumanti, cioè di uomini che rientravano di giugno, pronti a ingravidare le mogli dopo aver svernato sul Tavoliere.
Carmelina, la figlia femmina, serve a tavola e racconta: “Da bambina ho odiato la transumanza. Mio padre non c’era mai. Piangevo a ogni partenza della mandria. Poi, col tempo, l’odio è diventato amore. Non sapete cosa significhi veder uscire cinquecento mucche nel polverone, tutte smaniose di andare. Ti viene da piangere”.
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DAL SANNIO ALL'OFANTO
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Un'onda lunga di alture viola
Sera di vento sul Lago Foltore, nero come la pece, al confine con la Puglia.
A ovest, le luci di Pietracatella: un grumo di case attorno a una chiesa fortezza.
Ho lasciato il tratturo che va da Campobasso al Gargano.
Ho visto luccicare a sud, nel cielo del temporale, una sequenza di villaggi su un’onda lunga di alture viola, e ho preso quella strada.
La seguirò sino alla fine, in Aspromonte.
Andrea è ripartito, mi ritrovo più solo che mai all’inizio della parte più tosta del viaggio.
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"Statale 17, sembri esplodere di sole"
Sono sulla mitica Diciassette, cantata da Guccini, e non me n’ero accorto.
Si infila in un canyon tra i monti della Daunia, coronati da pale eoliche fruscianti nel maestrale.
Arrivano il Tavoliere e la strada per Lucera, implacabilmente dritta.
Mi accorgo che è il primo rettilineo.
Avevo giurato: pianure mai, solo curve e montagne.
Queste erano le regole.
Così ora succede quello che doveva succedere: dopo oltre duemila chilometri di zigzag.
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Sulle ali dello spirito santo
Non riesco a staccare lo sguardo ...
“E’ l’insostenibile leggerezza dell’essere! Chi conosce i rapaci sa cosa vuol dire. Dovresti vedere il gheppio”.
“Buon Dio, e che fa di tanto speciale?”
“Lo spirito santo. In un viaggio come il tuo sarebbe importante vederlo”.
“Che roba è?”
“E’ quando lui tiene la posizione da fermo sbattendo le ali come un colibrì. E’ il suo modo di cacciare dall’aria. Un volo ultraterreno”.
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Inno ai cornuti volontari
E intanto il barbiere Gianni Sicuranza mi istruisce si santi protettori.
Politeismo puro.
Esempi: Gerardo, santo delle partorienti, Santa Liggia, la mirabolante protettrice dei ciucci, e San Martino, nume tutelare delle donne dal seno grande.
Ma il massimo è San Liborio, quello che non si invoca mai abbastanza, il provvidenziale Liborio, protettore dei “cornuti volontari”, che suscita ovazioni tra i commensali e tante benedette opportunità mette in piazza.
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DAGLI ALBURNI AL POLLINO
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Praticamente Armageddon
Il Sud, quello vero, mi viene incontro appena la macchinina blu salta le terre di Capossela, incrocia l’antica via Appia e oltrepassa la Sella di Conza, tra i monti irpini e quelli di Basilicata, per iniziare la vertiginosa discesa sul Tirreno.
La selvaggia muraglia dei Monti Alburni mi chiama verso il Cilento, oltre l’autostrada.
Per trenta chilometri, verso Sicignano, non esistono alternative alla maledizione del rettilineo.
Ho un bel consultare le carte.
Tutto mi spinge lì dentro, come un mostruoso imbuto che risucchia la vita intorno.
E non c’è nulla che gli corra accanto.
Niente, nemmeno una carreggiata in sterrato.
Praticamente, Armageddon.
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"Sali, la Madonna ti aspetta"
“Vieni”, mi ha detto al telefono l’antropologo Marino Niola, che in Cilento passa l’estate, “vieni, se vuoi capire la terra delle grandi madri”, e mi ha parlato di un santuario a 1.700 metri di nome Santa Maria di Novi Vella, in arabo Gelbison, “un’Alta Signora cui i devoti portano in pellegrinaggio cuori di pietra e le ragazze da marito cinti fatti da candele. Si sale di notte, è favoloso”.
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Dell'incredibilità del viaggiare
Se volete capire la meraviglia delle vecchie strade italiane, fate la Statale 18, dimenticata dal traffico, tra Vallo della Lucania e il Golfo di Policastro.
Rotonde virate a mezzacosta tra gelsi e ciliegi che chiazzano di sangue l’asfalto, uliveti verde metallico nel vento.
Fontane zampillanti e paesi nel posto giusto, bar sulle curve a gomito e gente che saluta come al Giro d’Italia.
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Dove Nerina si svela una signora
Ci ho messo un po’ per capire il sesso della mia automobile.
Maschio o femmina?
Qui al Sud spero ogni dubbio. Femmina.
Dai bar i giovanotti le fischiano dietro.
Agli incroci perfino i camion la lasciano passare anche senza precedenza.
Gli uomini adulti la guardano con stupore infantile e un po’ d’invidia, come se volessero ricominciare a giocare.
Ma la controprova sono le donne mature.
La squadrano con sospetto, talvolta con fastidio.
Oppure fanno finta di non vederla.
Fiutano nel trabiccolo il civettuolo magntismo sull’altro sesso.
Sentono la sua pericolosa sensualità, familiare e al tempo stesso birichina.
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DAL CRATI AL CAPO SUD
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Guida al centro e avanti
Pauroso è l’attraversamento delle Calabrie descritto da Stanley Williams nel suo “l’Italia in Topolino” all’inizio degli anni cinquanta.
Salite e discese senza fine, paesaggio ansiogeno, alberghi gestiti da incapaci, colazioni che non arrivano mai.
In posti simili, scrive l’americano in viaggio con la moglie, la macchinina era “la nostra unica amica”.
Sarà. A me i calabresi stanno simpatici già solo per il fatto che tanti mi mettono in guardia contro di loro.
Persino in Campania, Puglia e Basilicata, mi hanno messo in guardia asfissiandomi di storie sulla fosca reputazione della regione più “arretrata” del Mezzogiorno.
Ma con l’esperienza ho imparato a ignorare simili avvertimenti.
In Calabria, sulla strada come in politica, non esistono destra e sinistra.
C’è solo un grande centro.
Immagino succeda perché in Calabria il centro - cioè il potere - è fisicamente spalmato sul territorio; sta ovunque e quindi in nessun luogo.
Dunque, guida al centro e avanti.
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Gamberoni verdi sul parabrezza
Caldo da vipere, cielo schiantato dallo scirocco.
E’ da queste parti che, nel 2000, ho visto le prime locuste d‘Italia sulle fiumare di Sibari e Metaponto.
Erano grandi come gamberoni, color grigioverde.
Alcune sbattevano sul parabrezza con un colpo secco, feroce; poi restavano lì a guardarmi con occhio inespressivo.
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Il miracolo di Santa Maria Assunta
Salita verso la Sila e il paese di San Domenico, un nome greco che promette finalmente bibite, frescura e tovaglie bianche.
Il caldo invece aumenta ancora.
Davanti all’unico bar, un’ombra striminzita, ma è quanto basta per sedermi accanto a un tavolo, levarmi senza vergogna scarpe e calze, appoggiare i piedi sul parafango posteriore destro della Topolino.
La strada è profumata di origano, deserta.
Sulla Sila la frescura è anche troppa.
Sono esausto.
Il cervello è un uovo alla cocque, la Calabria uno specchio ustorio, tutta la natura in apnea.
Il radiatore beve come una spugna, ormai non distinguo più la sua sete dalla mia.
La mia tartarughina non arriverà da nessuna parte. Tirerà le cuoia sullo Ionio.
Invece, il miracolo arriva.
Lo fa Santa Maria Assunta, una chiesa dal cui portale esce un inatteso torrente d’aria fredda.
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Nella Bocca del vento
Senza preavviso, l’abitacolo comincia a tremare.
Vento! Improvviso e benedetto.
A Roccella si spalanca un altro cielo.
La Topolino è felice: viaggia controcorrente, se potesse si alzerebbe come un deltaplano.
Sono nel punto più stretto d’Italia: tra qui e la piana di Lamezia, sull’altro mare, appena trenta chilometri.
Forse per questo tra la Sila e le Serre la corrente d’aria è così forte.
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L'ultima dea di pietra
Il Monte Cocuzza, l’ultimo “Pen”, l’ultima delle ee di pietra che danno il nome alla schiena d’Italia.
Verso nord-est si apre la forra con il santuario di Polsi, nascosto tra i dirupi.
Ma il peggio viene dopo, con le terre nude verso Africo e Roghudi, ultimo resto di una gloriosa terra greca che fu Magna e oggi è il monumento all’abbandono.
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Una birra, una tovaglia, la risacca
La strada per scendere a Capo Sud è la stessa fatta, all’incontrario, da Garibaldi dopo il secondo sbarco, nell’estate del 1862.
Il viaggio è finito.
Capo dell’Armi: un albergo e una sera viola con l’Etna oltremare, una birra, una tovaglia bianca, la risacca, navi solitarie che vanno.
Finiti i paracarri, gli alberi di more, le case cantoniere, le fontanelle sui curvoni.
Nerina è parcheggiata nel sotterraneo di un hotel.
Sarà dura lasciarla andare via.
Ha trasformato le strade di casa in un’avventura, ha visto la neve e temperature irachene, ha scoperto un’Italia pulita e senza voce.
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L’AUTORE
Paolo Rumiz, nato a Trieste il 20 dicembre 1947, è un giornalista, scrittore e viaggiatore italiano.
Iniziò come inviato speciale del Piccolo di Trieste, e in seguito divenne editorialista de la Repubblica.
Molti dei suoi reportage narrano i viaggi compiuti, sia per lavoro che per diletto, attraverso l'Italia e l'Europa.
Nell'estate del 1998 pedala in bicicletta da Trieste a Vienna, in compagnia del figlio Michele; in seguito pubblica il reportage “Dove andiamo stando?”, su Diario, nell'autunno 1998.
Nella primavera del 1999 esplorò le regioni della costa adriatica italiana in automobile, da Gorizia al Salento, pubblicando poi il reportage “Capolinea Bisanzio”, su Repubblica; nell'inverno del 1999 percorse in treno la tratta Trieste-Kiev (L'uomo davanti a me è un ruteno, pubblicato sul Piccolo nello stesso anno); nella primavera 2000 si imbarcò sul Danubio a Budapest per arrivare al confine tra Serbia e Romania (Ljubo è un battelliere, inserito in “È oriente” del 2003); nell'inverno del 2000, ancora in treno, da Berlino a Istanbul (“Chiamiamolo Oriente”, pubblicato su Repubblica); nella primavera 2001 girò il Nord-Est in bicicletta, da Trieste al Gavia (“Il frico e la jota”, inserito in “È oriente” del 2003).
Da qualche anno fa un viaggio ogni estate, in agosto, raccontandolo di giorno in giorno, su Repubblica.
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