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Vi leggo «TERRA NUOVA - Prima Cronaca dell’Agro Pontino» di Corrado Alvaro


«2.500 anni di lotta avevano lasciato in questi 80.000 ettari di terra le tracce dello sforzo umano; Volsci ed Etruschi, imperatori e papi, vi si erano provati come a una delle imprese più memorabili. La storia di questa terra è un poco come la storia della conoscenza del corpo umano. Quanto tempo ha impiegato l'umanità a scoprire il sistema di circolazione del sangue? Dalle origini al 1500 d.C. ne ha impiegati di più a scoprire il sistema del deflusso delle acque da questa regione»

Pubblicato nel 1934 dall'Istituto Nazionale di Cultura Fascista, per i tipi delle Edizioni Nuovissima, Terranuova è un testo di Corrado Alvaro dimenticato spesso anche dalle note bio-bibliografiche, che pur ci mostra uno scrittore capace di far vibrare la pagina e di muovere a ironia una materia che, forse, doveva apparire apologetica.

Ma Terranuova, un piccolo saggio di appena 56 pagine, non è solo la testimonianza storica della nascita di Sabaudia e dell'opera di risanamento delle Paludi Pontina.

L'invenzione e il racconto si mescolano in un libro importante nella produzione saggistica e letteraria di Corrado Alvaro, che ne rivela, ancora una volta, la sottile capacità di tessitura dei contenuti sotto le trame delle parole; una serpe in seno al regime, come già furono molto intellettuali, veramente accusati di compromissione?

In Alvaro, lo si è constatato spesso, produzione romanzesca e saggistica degli anni trenta si trova di  frequente sottoposta ad altre esigenze, si impongono una ideologizzazione dei sentimenti o dei rapporti. 

Nel caso di Terra Nuova è la cronaca della bonifica dell'Agro Pontino a prevalere sulla fiction; non c'è intreccio, non c'è fabula, seppure un tempo narrativo ciclico, il tempo delle stagioni, scandisce i racconti dell’io narrante; e seppure, è la storia dei destini individuali dei coloni che l'autore calabrese narra.


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I - Si fondano le città (20:55)

L'ingegnere andava dietro gli operai che con l'accetta e la roncola gli aprivano il passo fra gli sterpi del sottobosco intricato; calzava alti stivali di gomma; gli operai, con le scarpe da militare e pesanti di fango rossiccio, sembrava d'averli conosciuti altrove, forse in guerra, vestiti da soldati.  Qualcuno di loro indossava i pantaloni grigioverde e la mantellina. Uno di essi, l'ultimo, portava un asse di legno verniciata di bianco su cui era scritto, in stampatello, SABAUDIA. Al cartello con quel primo nome fanno corona ora altri in giro, dove è scritto: Casa Comunale, Poste, Albergo, Scuole, ONB, Dopolavoro. Oggi, 20 novembre 1933, questa città è soltanto un nome, e le sue parti sono dei nomi come uno scenario di Shakespeare. Il 6 novembre 1931 l'Opera Nazionale Combattenti prende possesso di questa Landa. Il 7 novembre 1931 arrivano i primi 1.300 operai. Il 21 gennaio 1932 si fonda la prima casa colonica. Il 5 aprile 1932 il Duce visita la contrada. Il Duce inaugurava Littoria dalla sua torre il 18 dicembre 1932 e già 500 case coloniche accoglievano i primi abitatori: i quali, in numero di 2.013 il primo novembre del 1932 salivano a 17.800, di cui 6.308 stabili e il resto operai, il 18 dicembre giorno dell'inaugurazione. Il 28 ottobre del 1933 le case coloniche abitate salivano a 981. Programma per l'avvenire: il 21 aprile 1934 sarà inaugurata Sabaudia, il 28 ottobre 1935 vi sarà Pontinia. In quella data la contrada racconterà 50.000 persone che vivranno di essa.

II - I vecchi e i nuovi di Littoria (20:14)

Per tutti questi giorni di novembre, nella mia vita nell'Agro Pontino, sono stato ossessionato dall'acqua. Pioveva scrosci, interminabilmente, ed era questa una stagione adatta per vedere l'agro: erano gonfi i canali, i rii, le cunette; nei luoghi ancora inesplorati si aprivano gli stagni; la vita si svolgeva sotto l'acqua ugualmente, tutti eravamo tuffati in un elemento fluido e corrente, tanto che era un piacere affondare gli stivali nelle pozze e nel terreno zuppo. Percorrendo le strade lungo i grandi canali, si vedevano gli armenti di pecore nella prateria vicina raccolti come un mucchietto di sementi, i cavalli della tenuta Caetani branchi in fuga sotto il Nembo. Ai limiti della bonifica sul canale Sisto, gente coi mantelli e gli ombrelli stava lungo la proda attenta al filo dell'amo: erano gli ultimi di quella vecchia umanità che cercava alla palude i pesci e la selvaggina. Il ricordo di questa vecchia vita è ancora dappertutto come un cane sperso, e fa da curioso contrasto. Portano mantelli che sono Cenci, così logori che le pieghe si direbbero fisse e rigide come in una creta; stanno sotto gli ombrelli grandi, sotto la tesa del cappello, e levano vecchi visivi su cui i secoli sono passati invano e il tipo s'è riprodotto con la sua prima forza; sono i vecchi avvitatori delle selve e degli stagni, forse generazioni rimaste dalla preistoria, che devono avere sempre portato il medesimo costume. Alla stazione di Littoria, di prima mattina, avevo veduto due "macchiaroli", come li chiamano qui gli abitanti delle selve: erano uomo e donna, avevano portato a vendere sei agnelli che avevano trasportato appesi al braccio per le zampe legate, come borse. Il loro dialetto stretto e duro era fatto di parole antichissime coperte di terra: non capivano molte frasi che si dicevano intorno a loro. Se qualcuno si fosse preoccupato di mettere a fronte il vecchio e il nuovo dell'Agro, non avrebbe potuto combinare una scena migliore: da una parte questi due antichissimi uomini, dall'altra il rosso autocarro che aspettava, quel giorno, un gruppo di coloni all'arrivo, la stazione di Littoria che è di stile razionale, la baracca del posto di ristoro che fumava in attesa della distribuzione del brodo, della carne, dell'arte agli arrivanti.

III - Le famiglie, la terra (24:00)

Il bollettino degli arrivi dei coloni di questo mese segnalava: 75 famiglie del Vicentino e del Ferrarese, distribuite a gruppi di 12 per ogni treno in arrivo. Ho detto che l'arrivo delle famiglie dei coloni si svolge ormai senza cerimonie. I primi che arrivarono furono ricevuti alla stazione dalle autorità dell'agro e da alcuni curiosi di Roma. Per questi che vanno ora a ingrossare la falange basta un incaricato del Commissariato delle migrazioni interne e uno dell'Opera Combattenti che è l'amministratrice di questa zona. L'accoglienza è meno solenne, ma l'ospitalità più perfezionata. Da principio alcune disposizioni vietavano il trasporto di animali, come pure delle provviste e i sementi che qui distribuisce l'Opera Combattenti a ciascuno, come distribuisce animali da cortile e da fatica. Ma poi anche per le sementi e per gli animali da cortile fu fatta concessione. I contadini che partono, e quelli poi che sanno di abbandonare la terra natale, annettono un valore sentimentale, che poi tutt'uno col valore pratico, ai prodotti familiari delle terre delle loro terre; per quanto sia povera la terra che lasciano o la loro vita, ritengono migliori di ogni altra le sementi e gli animali che si sono visti sempre attorno. Il capo di famiglia non è sempre considerato il più vecchio: è il combattente, spesso il figlio maggiore della casa, sposato a sua volta con figli anche lui. Un vecchio uscì per dirci: «Io sono il padre, ma il capo di famiglia è mio figlio che è combattente. Ma io sono il padre. Lui è il capo dell'azienda e ne ha la responsabilità; ma in casa la disciplina la tengo io». C'erano anche alcune sposine, andate a nozze il giorno prima della partenza dalla casa paterna. I poteri si attribuiscono di 8 e 12 ettari nelle zone migliori secondo il numero delle braccia, cioè dei componenti più adulti e capaci di lavoro. Anche la casa è grande secondo il numero dei familiari. L'anno passato alcune famiglie ricorsero, per far numero a famiglia aggregate omonime, ciò che andò in qualche caso a discapito dell'armonia familiare, perché qui è legge che mancando la famiglia il numero di braccia sufficienti, la famiglia decade dai suoi diritti di occupazione del podere. È quindi una preoccupazione essenziale che le famiglie siano omogenee, e lo sono, infatti bastano due generazioni, padre e figlio con la loro donna e i loro figli. A questo scopo si affrettano matrimoni e parentele. Quando l'autocarro si fermò, da giù l'incaricato che accompagnava il carico tirava fuori la carta per l'appello; le famiglie chiamate scesero, si raccolsero in gruppi distinti, con le loro valigie, i loro fagotti, e le madri stringevano le gonne i bambini.

Fu quello un momento che non scorderò mai. Essi guardavano, sulla strada bianca, le case chiuse coi poteri uguali e a uguali distanze. Quale sarebbe stata la loro? Quale la terra? Da quale finestra si sarebbero affacciati a vedere la montagna? Infine, quale era il loro destino? I loro occhi si attaccavano ora a questa ora a quella casa e a una più lontana, come se dovessero orientarsi per fare un volo. Il fattore venne avanti con la chiave attaccata alla tabellina col numero, disse forte il numero, come se l'estrasse a sorte. «La seconda a destra tu sei». Quale? Quale? Gli uomini volsero gli occhi tutti insieme, una donna col bimbo in braccio disse puntando il dito: «Quella, quella è la nostra». Le donne fecero strepitare le chiavi impazienti nelle serrature, l'uomo andava subito a dare un'occhiata alla "sua” terra, si trovava solo con lei, con la sua fatica, col suo avvenire.

IV - Il borgo, la casa, il focolare (27:38)

La sera dell'arrivo e per qualche giorno ancora, seguimmo la nuova vita di coloni. Occupare la casa, mobiliarla, riconosce la terra, si svolgeva in 24 ore. Le prime 24 ore di vita di un lembo di terra nuova. Un deputato e un incaricato della Federazione di Ferrara, mantenevano gli ultimi rapporti dei coloni con la terra natale, e prima di ripartire ne riconoscevano lo stato, le loro necessità, i loro ultimi pensieri prima del distacco. Tutto si svolgeva assai umanamente; furono fatte replicate visite casa per casa e a tutti furono dette parole adatte. Mi sembra di aver vissuto un tempo assai lungo questo viaggio da casa a casa, lungo la dritta strada bianca, a incroci di altre strade bianche e dritte. Il sistema dell'Agro Pontino ha questo di straordinario, che riproduce in un'estensione di tempo assai breve quello che l'uomo e la sua opera compiono in un lungo giro da anni, talvolta secoli. Canali e strade, intrecciandosi, tagliano regolarmente questa plaga e danno l'impressione della geometria di una scacchiera. Ognuna di queste strade si annoda un borgo che si apre in uno spiazzo e forma nella campagna fuggente, la sosta dell'abitato, con la scuola, la sua dispensa agricola, la chiesetta, gli uffici, i negozi, infine con la sua piccola Torre, grande rispetto a quella paterna di Littoria come la torre di un gioco di scacchi a confronto del pezzo più alto nello stesso gioco. Quelli già popolati acquistano subito color di paese, riproducono angoli di villaggi veduti altrove, e costruiti dalla frequentazione lunga degli uomini, e che sono il paesaggio fisso della vita campestre. Non deve essere mai accaduto di vedere in così breve tempo, e da giorno a giorno, una così vasta e completa trasformazione della terra; o forse nella storia moderna, nel fenomeno della guerra, quando un prato in guerra mutava fisionomia. Guerra ed emigrazione, le due fasi della vita italiana, regole della lotta italiana per vivere, fanno qui un solo eloquente spettacolo; per queste due esperienze di 80.000 ettari di terra dell'Agro Pontino sono un mondo, una storia di civiltà e di lavoro. La prima ora in attesa dell'arrivo dei mobili la casa nuova non fu altro che focolare; tutto era vuoto e sonoro; ancora freddo ed estraneo. La famiglia si diede a cercare legna lì intorno, la dispose sulla corte, certi pali fradici di acqua furono messi a tettoia perché scolassero l'umidità. Altri si asciugavano alla fiamma sotto la cappa del camino, e facevano il loro stridore. Il fuoco cominciava a macchiare il camino dipingendovi la storia nubilosa che sanno leggere le fantasie dei ragazzi. Quel fuoco pareva acceso in una solitudine lontana, un fuoco da bivacco. La pianura era tutta in moto con i suoi autocarri e le biciclette ma qui eravamo come in una posizione occupata da poco e appena segnalata ai comandi. In quell'ora i pensieri erano semplici ed elementari, erano i pensieri dell'attesa. Ma la seconda ora fu tutt'altra. La famiglia vedendoci arrivare si fece sulla porta accennando che i mobili erano arrivati; le ragazze avevano ripreso il gesto abituale di farsi schermo della mano sugli occhi per guardarci da lontano; gli uomini erano già intenti con la vanga a stabilire la pendenza del terreno davanti alla casa e a tracciare una strada per gli ospiti. Parlavano tutti insieme, si scusavano se ci toccava di vedere tutto ancora in disordine, tutto non ancora pulito a modo; loro seguitavano a dire che bisognava tornarci quando tutto fosse perfetto. Rivedersi tra le cose loro aveva sciolto ai nuovi arrivati la lingua: gli uomini continuavano a dire: «le dico che sono contento, che sono propri content. La terra è buona, la casa l'è bella e che noi ci faremo onore». Anche per le donne tutto va bene, ma disse una delle donne, «ma io, dove la stendo la biancheria?» Perché qui bisognava fare i conti con le abitudini della comunità, e con la vita abitudinaria delle donne. Essi avevano portato ogni cosa di loro dalle loro vecchie case senza lasciare nulla, spaghetti aggrovigliati, pezzi di filo di ferro, cocci rotti, scatole di latta. Ma c'era da immaginarselo che ci sarebbero stati degli urti con la vita che ricominciava, tanto i contadini sono abitudinari e conservatori. Nella casa ogni cosa riprendeva il suo posto sullo schema della casa lasciata. Alcuni addirittura chiedevano una porta di più perché erano abituati a quella porta in quel punto preciso.

V - Le prime quattro stagioni di Littoria (19:44)

Proprio un anno fa, vidi la vigilia della vita di Littoria. Era il giorno precedente la visita e il discorso del Duce. Si arrivò in una piazza ancora non lastricata in cui affondavano il terreno nuovo i carri carichi di materiale; a molti edifici mancavano porte e finestre, la tinta delle facciate era ancora umida, la chiesa e le scuole erano nascoste sotto le impalcature. Tutto dava l'impressione della rapidità con cui si compone uno scenario di teatro in un breve intervallo. La notte lavoravano sotto la luce dei riflettori. Poi cominciò la vita. La prima sera, a un'ora di notte, rintoccò la campana della chiesa, la prima campana che abbia mai risuonato in quella antica solitudine, lacerandola col suo richiamo che faceva pensare agli uomini nelle loro case, ai lontani, al riposo dopo il lavoro comune, ai loro improvvisi pensieri di preghiera e d'infanzia. Molti, nel periodo intermedio della vita di Littoria, non sanno o non immaginano quasi nulla, e vale la pena di riferirne qualche tratto. La fama di questa contrada, mentre agli occhi del mondo è il segno di uno sforzo totale del Fascismo, crebbe, nel popolo lavoratore, come un nome magico, ha acquistato lo stesso prestigio dei luoghi che attorno brillarono alla fantasia popolare nella storia dell'immigrazione, Suez, America, Australia; Littoria. A un anno di distanza le automobili che vengono da Roma, o quelle dei visitatori ogni parte d'Italia e dell'estero, scivolano sulla superficie lucida dell'asfalto della piazza, e questo ambiente della piazza, dove gli attori protagonisti sono in costume rustico da campagna, ricorda in date ore l'attesa delle macchine fuori dei teatri delle serate di prima rappresentazione. Quegli angoli, archi, passaggi, portici, volte, che io avevo veduto un anno fa come una scenografia vuota tra la folla degli operai, sono occupati dagli uomini con la loro vita quotidiana, i loro passioni, i loro bisogni, i loro discorsi. I tre fasci di bronzo giganteschi sulle soglie della Posta sono ossidati dalle stagioni trascorse e sono appena quattro: un uomo che vi si è fermato ad aspettare un appuntamento vi ha ritrovato la colonna della sua Padova o della sua Ferrara. Tra una porta e l'altra della posta v’è un uomo col suo fardello che aspetta. Più in là, nella vetrina di un meccanico, splende il primo sogno del lusso: un’Ardita, mentre sotto il padiglione di stile razionale approdano le macchine e le biciclette. L'albergo ha messo davanti alla porta quattro sedie di vimini, dei clienti; il portiere è in uniforme dietro la porta; il cameriere in frac sta sgombrando una tavola e dà l'impressione di un cameriere di transatlantico, perché intorno tutto è vario e mobile come il mare, tutto è ancora viaggio verso il destino, ed egli è fermo in quella uniforme. L'albergo è gelido, ma il cameriere è in frac. Guardo queste cose di un altro mondo, e penso alla civiltà, presente ovunque vi siano uomini. Una radio dice con voce insinuante le cose del mondo, le dice al caffè fumoso e affollato, alla signora che sta alla cassa col cappello in testa come se arrivasse proprio ora: il suo vociare si mescola con questo parlare. Una di queste sere ascoltavo quella voce della radio, e guardavo le languidezze delle dive sulle tabelle delle fotografie. La vita civile favoleggiava il rumoreggiare lontano; qui era la terra e le sue prime necessità, l'uomo e i suoi bisogni primi. Quella voce solitaria parlava quasi di una favola: l'arte. Forse uno di questi bambini che hanno veduto con gli occhi dell'infanzia questa epopea terriera, domani sarà un artista. La mattina seguente, all'alba, la radio era muta. I portici della piazza erano pieni di gente, uomini e ragazzi; era domenica.

VI - Mussolini tra i pionieri (12:55)

Come sempre quando si trova davanti alla gente del popolo, il Capo del Governo era raggiante. Era salito sul tavolo che avevano preparato sotto il portico del palazzo comunale di Littoria, perché potessero vederlo ai quindicimila coloni dell'agro adunati nella piazza. Già prima aveva parlato dal balcone sotto la torre: erano le parole che celebravano il trionfo della sua volontà e del lavoro del popolo italiano, e la riconferma della solenne promessa dell'anno scorso, quella della sua amicizia sempre vigile e della giustizia sempre pronta per chi lavora.

Quando scese dal balcone per trovarsi a contatto col popolo, qui la voce così precisa in cui ognuno trova quello di cui ha bisogno, e quasi la regolazione a se stesso dei propri pensieri, divenne più vicina e amichevole, e la sua figura, che da lontano forma sempre un atteggiamento tutto speciale, riconoscibile, anche quando se ne intravede appena l'ombra, balzò in mezzo al popolo senza perdere nulla della sua solennità, e aggiungendo al suo prestigio la meraviglia di chi lo può guardare a pochi passi di distanza, notarne il sorriso, il gesto, l'espressione. Alcuni tedeschi dicevano: «E’ umano, supremamente umano»; un francese affermava che una giornata come quella sarebbe l'argomento di un intero romanzo; e in un dialetto d'Italia qualcuno diceva: «Lui fa tutto». Era uno straordinario rapimento degli animi. Uno dei punti salienti del fascino del capo sulla folla, è che ciascuno si sente in comunione con lui come se egli sapesse tutto, che presto tardi arriverà, saprà, provvederà. Il popolo italiano ha incarnato in lui un vecchio ideale di giustizia che nella sua storia aveva affidato ai personaggi più diversi.

I primi premi ai coloni erano di mille, cinquecento lire. Il capo spesso apriva le buste, contava il denaro, lo mostrava; talvolta per accertarsi che i nomi scritti sulla busta corrispondessero alle persone chiamate, si chinava a domandare il nome. Talvolta, in verità, ci fu uno scambio di persone: accadeva che proprio quando c'era questo errore egli se ne accorgesse e si curvasse a domandare. La folla dietro di me notava questo fatto.

«non gli sfugge nulla. Se n'è accorto. Guarda com'è pronto, lui capisce subito quando le cose non vanno.» Poi venne la volta delle donne, i premi per le migliori massaie; a ognuno di questi incontri il viso del capo si illuminava. Di qualcuno si soffermava a guardare l'andatura, certi saluti imbarazzati lo facevano sorridere; ai contadini dava del tu, come a vecchi soldati; alle donne del voi, e diventava dolce, delicatissimo; mentre ai contadini porgeva le buste e i diplomi con uno scatto dell'avambraccio, sempre lo stesso, come con un ritmo che al cinquecentesimo scatto era sempre quello; alle donne lo offriva quasi con un lieve inchino, curvandosi fino a esse. «Straordinariamente umano!» dicevano i tedeschi vicino a me. Volevano dire: che precisione, che esattezza, che accuratezza in ogni particolare. Era vero. Aveva piovuto quasi tutta la mattina. Quando egli apparve sul balcone venne fuori un sole caldo in un cielo sgombro. «È naturale» diceva un giornalista americano. «Quando esce lui il tempo si fa buono».

VII - Pellegrinaggi e vicende (16:18)

Accadeva anche a me, dopo qualche tempo di permanenza a Vittoria, di pensare di restarci. Per quanto essa si trovi a un'ora di automobile da Roma, chi vi soggiorna ha l'impressione di un grande distacco da tutto il resto d'Italia, e questa impressione comincia a farsi strada a cisterna, che sarebbe il comando di tappa della bonifica. È curioso notare in noi stessi la facilità del distacco dalla vita urbana, il pronto adattamento alla vita naturale. Proprio per questo la civiltà è il nostro tempo ha un tanto di barbaro. Dopo qualche giorno di vita nell'Agro andavo pensando di piantare ogni cosa alle mie spalle, e di mettere un negozio non so bene di che cosa. A Littoria c'è bisogno di una lavanderia e stireria, d’una tipografia, d’una latteria. C'è da fare dei buoni quattrini. Lo so che non metterò un negozio a Littoria e che non vivrò nella bonifica, mi aspettano domani a casa. Molti giovani venuti su troppo tardi per la guerra, ascrivono il fatto di lavorare qui la vita dei primi anni dell'Agro allo stesso titolo d'onore e di esperienza. Molti altri qui si fanno da capo, ricominciano la loro vita; altri vorrebbero prolungare la loro gioventù nella giovane vita di questi luoghi, e difatti molti pensionati scrivono chiedendo se si trovano alloggi a littoria, e se ci si può ritirare a vivere qui. Forse rimarrà, nella vita di questi uomini, la spinta che li trascinò fin qui. Ho cercato fin qui di dirne i motivi e i modi; ma quante cose mi accorgo di aver lasciato! M'accorgo di non aver parlato della Messa domenicale nella chiesa di Littoria, il battesimo di certi bambini, fra cui uno si chiama Benito e un'altra Vittoria. E la Messa. Nella chiesa Bianca, nuda, di stile moderno, la più bella costruzione di Littoria, in cui la croce e gli arredi dell'altare e l'altare stesso di metallo cromato accomunano il vecchio stile popolare e quello che chiamano razionale, c'era un giorno una selva di bandiere dei combattenti della provincia di Frosinone, e quando il sacerdote si volse a parlare, sembrava ancora una volta una messa al campo, perché come allora egli non parlava soltanto di Dio, ma della terra degli uomini, della loro lotta. Di regola, gli operai sono assunti nei lavori dell'agro attraverso i sindacati. Ma chi può tuttavia porre un freno all'iniziativa individuali? Chi aveva un amico o un compaesano qui, guardiano, sorvegliante, ingegneri, ha tentato la sorte, con lo stesso ritmo di tutta l'immigrazione italiana, da quando Renzo Tramaglino trovò un suo compaesano riparando a Bergamo. Chi poteva, d'altra parte, rifiutare lavoro a della gente che era capace di venire a piedi dal Veneto o dalle Puglie, dimostrando in tal modo lì volesse guadagnare il pane a qualunque prezzo? Come questi potrei citarne altri, e sarebbe ancora una storia impressionante. Perché il popolo italiano, come tutti i popoli vivi, ha bisogno di un luogo dove rifugiarci alle impazienze, alle ribellioni, alle decisioni improvvise, ai sogni di una vita nuova. È il nostro destino di uomini vitali e di colonizzatori.


AUTORE
 
Corrado Alvaro nasce a San Luca, un piccolo paese nell'entroterra ionico calabrese, ai piedi dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, primo di sei figli di Antonio, un maestro elementare, e di Antonia Giampaolo, figlia di piccoli proprietari.

Nel 1905 si trasferisce nel collegio gesuita di Villa Mondragone a Frascati, diretto dal famoso grecista Lorenzo Rocci. Corrado passa cinque anni in questo collegio, frequentato dai rampolli dell'alta borghesia romana e quindi dalla futura classe dirigente italiana, studiando avidamente e cominciando a comporre le prime poesie. Nel 1910 è costretto a lasciare Villa Mondragone per aver praticato letture non autorizzate.

Compì i suoi studi liceali presso il Galluppi di Catanzaro, dove nel 1913 conseguì la licenza liceale e dove rimase fino al gennaio del 1915, anno in cui partì militare per combattere la Prima guerra mondiale.

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