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Vi leggo «Un treno nel Sud» di Corrado Alvaro

Qui potete ascoltare la lettura del libro «Un treno nel Sud», che nella sua prima edizione concludeva l’Itinerario italiano di Corrado Alvaro, tratta della parte d’Italia più familiare all’Autore, più vicina alla sua sostanza d’uomo, il Sud con la sua particolare civiltà, i suoi complicati problemi sociali, il suo dramma antico e nuovo.

Sia che descriva la folla di Napoli o il mercato dei «gualani» a Benevento, le donne di Bagnara o il paese dei Malavoglia, lo scrittore ci fa vedere quanto d’indecifrabile, d’inesplorato, di mitologico si nasconde sotto la patina delle tradizioni e dei pregiudizi.

Queste interpretazioni, sempre ricche di richiami autobiografici, quando non ricorrono alla forma diretta dell’inchiesta giornalistica di alto livello, si stendono nell’evocazione narrativa che ricorda i temi veraci del romanziere o si allargano a una specie di ermeneutica della vita e del costume meridionale dove parole, cose e persone acquistano una evidenza rivelatrice, conferendo a queste indagini un valore di testimonianza storica.

Il Sud che Alvaro rivede nei suoi viaggi in treno è in una fase storica particolare, di passaggio da una società contadina, medievale, che vende ancora brutalmente i propri figli, ragazzi tra i nove e i quindici anni per mandarli a lavorare e toglierseli come bocche da sfamare, a una società in trasformazione, indirizzata verso una crescita economica, dove Andria, il suo quartiere modernissimo contrapposto a quello vecchissimo, il degrado, la disgregazione, i disagi sociali, la ribellione violenta ne è l’esempio.

E poi la Calabria, la sua Calabria, la grande dimentica, con il calabrese che vuol essere parlato, le magnificenze delle colonie greche, le donne di Bagnara, il povero bracciante che emigra, l’onorata società, l’odore degli oleandri, le montagne che franano, le opere pubbliche incompiute, le alluvioni che distruggono e modificano l’ambiente.

In questo libro di viaggio Alvaro si presenta, con un inconfondibile cifra stilistica, grande scrittore di racconti, autore di note di viaggio, custode di memorie di un mondo sommerso, osservatore attento e puntuale, analista politico, che fa pensare a un grande etnografo, un antropologo capace di riflessioni che restano fondamentali per conoscere un universo scomparso e che nello stesso tempo rivelano una loro attualità.


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Il Sud del Mondo (13:24)

Tutti i paesi hanno un Sud, voglio dire, il Sud dei problemi sociali, generalmente a economia agricola, più povero del resto della nazione, anche se abbia risorse industriali come nei paesi del petrolio, nel Sud-Est europeo e in Levante. Nei paesi del Sud di tutto il mondo, persistono le più antiche tradizioni. E tutti i meridionali del mondo, immessi nella vita urbana, sono quelli che buttano il più presto e il più lontano il carico delle tradizioni e dei pregiudizi. L’Italia, a sua volta, è il Sud del mondo, vale a dire quella dimensione sentimentale che significa ancora vita legata alla natura, predominio dell’istinto, antichi mestieri e atteggiamenti, passato e tradizione, una civiltà particolare dove il bisogno crea forme progredite di cultura, e dove la novità della tecnica dà la sua parte alla cultura, o almeno alla tradizione di una cultura.

La leggenda del «dolce far niente» (13:04)

La leggenda del meridionale sfaticato proviene, a mio modo di vedere, da una leggenda più diffusa: quella dell’italiano “dolce far niente”. Si sa che i pregiudizi sulle nazioni e sulle regioni hanno la vita lunga, e basterebbe pensare alla fama dell’italiano straccione diffusa nel mondo. Per una facilmente spiegabile psicologia collettiva, ogni gruppo etnico ama trovare nel suo vicino i difetti che gli piacciono di più; e che in definitiva lo seducono con un misto di disistima ostentata e di larvata invidia. Noi sappiamo che v’è un’altra Italia, quella cui basterebbe la raccomandazione della sua ricostruzione fisica dopo le rovine della guerra. Basterebbe, a questa Italia povera, per dire meglio di sé, la sua attitudine tecnica innestata sulla sua antica attitudine artistica, il fatto che dalle sue mani escano alcuni prodotti tra i più raffinati di tecnica antica e moderna, e meccanica, che possa vantare la civiltà contemporanea. Il senso della bellezza, dell’armonia, della gioia, del lusso, creato dalle mani tra le più povere del mondo. Quanto alla leggenda del meridionale sfaticato, credo di averne trovato l’origine. Italiani e stranieri hanno potuto vedere, al di sotto di una certa latitudine, mettiamo da Napoli in giù, l’individuo che può stare immobile sulla soglia della sua porta o in un raggio di sole, perfettamente immobile come se la sua vita non fosse altro che questo ozio. Un meridionale sa bene che questo è solo un momento del giorno, e un momento culminante della vita.

La folla di Napoli (13:58)

I tre posteggiatori si consultavano a bassa voce, evidentemente sulla convenienza di suonare e cantare per la gente nuovamente entrata nella trattoria. Un gruppo di forestieri, noialtri, era difficile giudicarlo: s’era messo a tavola, poi la stanchezza diveniva malumore. Entrava nella trattoria sul mare anche gente del luogo: s’incontravano e s’intendeva a cenni e a mezze parole; parevano essersi aspettati da molto tempo, con un senso di protezione reciproca, d’una solidarietà fisica di fronte a cui il mondo scompariva, seri davanti a una delle cose più serie del mondo qual è sedersi a una tavola per nutrirsi quando si ha fame e si è affaticati. Dico, era difficile giudicare che cosa avrebbe reso la questua di quei tre. L’uomo del mandolino era stato veduto prima, sul pianerottolo della scala di legno che conduce alla sala di sopra, oscillante, forse indisposto, guardare in basso donde saliva un penetrante odore di fritto, e dove due donne stavano sedute immobili, allo stesso modo di un vecchio tavolo che stava là di traverso. L'uomo con la chitarra era attesissimo, con due occhi acuti e quasi stravolti in alto a furia di stare teso, ed era lui che valutava il tornaconto esattamente. Il terzo, il cantante, un uomo che aveva passato i cinquant’anni, i bianchi capelli crespi, pareva avere deciso: conveniva. Io avrei detto di no. Il gruppo in cui mi trovavo era maldisposto, e per una ragione assai semplice: che, come succede, si è esigenti fino all’insolenza e allo sgarbo con la gente dimessa e povera; mentre si tollera di essere burlati, ingannati, pelati, dai camerieri insolenti di un grande ristorante di moda.


Miseria e risate (16:27)

«Vi’ quant’è bello il nostro onorevole, come sta bene, com’è giovane!».

Credo che soltanto a Napoli un quartiere di gente oltre il limite dalla povertà possa fare un’accoglienza simile a un uomo, rallegrandosi della sua salute, della sua cera, del suo sorriso.

In una visita simile a Roma, borgata Quarticciolo, la folla che si era accalcata a vedere i visitatori, si eccitò a mostrare i ragazzi seduti sui letti bagnati di pioggia, o al riparo di un ombrello, e parve capire tutto nel momento in cui mostrava il suo stato, e a quel punto ci fu da temere quasi il linciaggio dei visitatori.

A Pozzuoli, Rione Terra, più comunemente «N’coppa ‘a Terra», la visita cominciò e durò per un pezzo, fra tremende risate.

Cominciarono a ridere le donne più anziane uscendo dai bassi, dalle grotte, dalle tane muffite, a vedere il loro deputato, il loro amico, poi seguitò a risate per un pezzo, fino alla stanchezza e alla nausea.

Il visitatore è un deputato socialista che ha scoperto il quartiere nascosto da un promontorio che pare disabitato, svoltando a destra davanti alla porta che conduce alla strada di Cuma.


Pellegrinaggio a Montevergine (17:27)

Il mio compagno di viaggio, un napoletano del popolo, guantaio di primo mestiere, poi conducente con patente di secondo grado, curioso della cultura e dell’archeologia in particolare, forse perché nei napoletani è sempre presente l’idea del tempo che fugge e della vita, che aveva letto l’Iliade, l’Odissea e I Miserabili, cominciò sulla piazza di Avellino a piantare grane con la meticolosità che la gente di fantasia mette in questa occupazione. La piazza di Avellino quel giorno pareva fatta apposta per un litigio, eccitata dalle feste di agosto, col passaggio dei pellegrini che andavano a Montevergine, le grida dei venditori di piccoli puerili cestini colorati e di fiori e ghirlande di carta che sono di rito per il pellegrinaggio e ornano le biciclette, i carrettini, le auto, gli autocarri dei devoti, le mani e il petto dei bambini; i richiami dei venditori di torrone, l’orchestra delle giostre, le trombette. Su tutto dominava il cantare d’una contadina che si accompagnava con un organetto narrando una storia popolare patetica e violenta, con una voce aggressiva, il viso congestionato e la gola gonfia di quel canto buttato fuori con tutto l’impegno e con una specie di rancore.


Viaggio, o fuga (15:57)

A bordo d’un vaporetto che fa il giro d’un famoso arcipelago, ero seduto sulla panchina di centro. Alle mie spalle era aperto lo sportello del gabbiotto adibito a bar. Si sentiva il fischio della macchinetta espresso, l’acciottolio dei bicchieri e delle tazze lavate, arrivava a sbuffi un odore di caffè. Il mio vicino di cui conosco fino a quel momento soltanto la forma delle scarpe, gialle, forse troppo pesanti per la giornata estiva, disse come tra sé: «Sono i fondi del caffè. Non è caffè. Andate a prendere un caffè». «Già», dissi io. «Tutto così», egli aggiunse, «tutto surrogati». Dissi: «Siamo un paese povero. Tutti si arrangiano». Il mio vicino replicò: «Ma paghiamo da ricchi. Siamo un paese povero in cui non esistono reali ricchezze, si fanno i Monopoli del necessario. C'è chi si arricchisce di ciò che è necessario a tutti, che dovrebbe costare poco, e che in effetti costerebbe poco. Secondo me, questo è il principale problema della nostra vita. Non siamo cristiani? E a che cosa servirebbe, altrimenti, essere cristiani, se non almeno per il pane quotidiano?».


Ritorno a Positano (14:54)

I falliti, o come dicono il ratés, i naufraghi della vita, hanno costituito a Parigi un loro Club. Non so quali rivendicazioni possano affacciare, ma ho veduto una fotografia in cui uno di essi ostentava un cartello in cui pressappoco è scritto: "I falliti sono necessari alla società; sono i microbi provvidenziali dell'organismo sociale". Ne riconosco le facce in questa fotografia; hanno tutto in viso, anche l'intelligenza; non ne hanno l'energia, sono facce da animale umano in un umano giardino zoologico, perduta la loro forza di attacco e di difesa, più disarmata della stessa decrepititudine. Il fenomeno non è nuovo. Lo vidi già dopo l'altra guerra in alcune città d'Europa, i falliti fuggivano, sospiravano a nuove terre dove dimenticare, a un esilio piacevole che deve essere l'impressione di avere lasciato volontariamente il mondo e le sue lotte, dove la natura con la sua felicità e il suo incanto risaltasse dando loro l'impressione di poter compiere ancora qualche cosa. Ho riveduto Positano dopo molti anni, da quando appunto ero era divenuto la capitale di questi tipi di falliti e di fuggiaschi. Molte belle e ricche ville attestano che vi conviene oggi gente prospera. C'è l'illuminazione pubblica, molte fontane di buona acqua impetuosa, le strade sono asfaltate. Quasi tutta la città morta, il quartiere della gente del luogo che fuggì cercando un mondo e abbandonando le abitazioni divenute con gli anni cadenti e vuote, è stata ricostruita e abitata.


Le rose di Paestum (13:59)

«Siccome gli antichi vantano famose le rose di Pesto, ecco che davanti ai templi stanno piantando i rosai», disse uno degli amici con cui andavamo in viaggio. «Ma è vero», dissi. «Le rose vi crescono veramente splendide. C'era una villa isolata qua attorno, qualche anno fa quando io vi sostai un giorno. Il giardino era tutto un rosaio, e di maggio il terreno attorno era rosso delle rose che si sfogliavano, come se vi avessero versato un colore». E c'erano due donne, madre e figlia, una più bella dell'altra, tutte e due in una splendida età che quasi si confondevano, e raffinatissime. Questi sono tra i più begli incontri dei viaggiatori. Ricordano i vecchi racconti dei poemi, e per i giovani l'infinita ricerca della bellezza del mondo tutte le volte che passavo di qua in treno, guardando quella casa di campagna mi ricordavo di quelle due donne, e non calcolavo gli anni che erano passati, le immaginavo sempre le stesse, come ferme in un racconto.


Il mercato degli schiavi (15:02)

Il mercato dei ragazzi schiavi a Benevento ha suscitato fra le altre questioni, un quesito etimologico. In dialetto è il mercato dei «gualani» o «galani»; si è detto che tali parole siano la corruzione di «alano»; un mercato di persone umane considerate come cani. Se il popolo avesse creata una simile parola oltraggiosa per definire la vendita di un essere umano, avrebbe avuto la coscienza di una cattiva azione e invece non l'ha.

Gualano, o galano, significa soltanto colui che lavora a pari e patta, uguale: «aequalanus», ugualano: è la parola che si trova nell'area dei dialetti meridionali dall'Irpinia alla Calabria e ha terminato col significare bifolco.


L'eccidio di Andria (14:37)

Alle Assise di Trani, nel luglio del 1948, si svolgeva il processo per i fatti di Andria. Tragici fatti al centro dei quali fu il martirio delle sorelle Porro, massacrate da una folla imbestialita. 29 imputati - li chiamavano i «Lupi di Andria» - erano nella gabbia, tutti giovanissimi. Gli imputati del processo per il diritto di Andria sono quindi tutti giovani, c’è anche un ragazzo di 17 anni, e sono quasi tutti reduci delle guerre italiane fra il 1935 e il 1944. In mezzo a loro si trovano braccianti, ma vi sono anche piccoli e medi proprietari. È possibile che in mezzo a essi si trovino innocenti, come pure che alcuni dei peggiori responsabili dell'assassinio e dello scempio delle sorelle Porro siano fuori di questa gabbia. Le condanne che vi saranno, e forse anche condanne di innocenti, potranno indurre i condannati a parlare e provocare la riapertura del processo. O forse i condannati sconteranno e taceranno, per quell’omertà che spesso nasce dal timore, in questi drammi dell'Italia meridionale. Tutti gli imputati sono iscritti al Partito Comunista, meno due che sono iscritti alla Democrazia Cristiana; e il processo assume, per molti, un colore politico. Ma diffiderei di chiunque volesse rappresentare Andria una roccaforte dei partiti di sinistra. Prenderei Andria come il segno più acuto della crisi della società meridionale.


Analfabetismo piaga del Mezzogiorno (14:40)

Qualche mese fa apparve in molti luoghi dell’Italia meridionale un manifesto in cui si vedevano un operaio e un contadino che, deposti i loro arnesi di lavoro, sedevano a un banco di scuola. In una di queste città, un contadino che non sapeva leggere chiese all'amico: «Che dice?». «Lotta contro l'analfabetismo». «Mascalzoni. Oltre che non sappiamo leggere, ci fanno anche la lotta», conclude l’analfabeta convinto. Per un altro verso, un altro episodio va ricordato. Nella campagna di Venosa, in Lucania, otto anni fa, un foggiano padrone di armenti affidò a un pastorello di diciotto anni trecento pecore da guardare. Un giorno il padrone ne trovò una di meno. Può succedere specie a un pastore analfabeta che non sa né riesce a contare fino a trecento. Il padrone frustò a sangue il pastorello e lo licenziò, e gli rifiutò il pagamento del salario: lire 148. Dopo tre giorni, il pastorello uccide con un colpo di accetta il padrone, mentre chino a bere ha una fonte.


Un treno nel Sud (12:12)

Ci troviamo sul marciapiede della stazione d’una linea secondaria, in attesa del treno, cioè dell’elettrotreno, come si chiama. C’era qualche studente che tornava a casa dall'esame sbrigato presto, un prete, giovani professionisti, avvocati attempati e vecchi notai che andavano alle loro visite settimanali della clientela di provincia, qualche coppia di sposi, di cui una vestita di nero, la donna stretta come in una guaina che faceva risaltare la pelle di un bianco di camelia. C'era anche un gruppo di ragazze ciarliere, una con un romanzo, un'altra con un giornaletto, parlavano ad alta voce; sembrava di ascoltare una commedia nota, recitata sul palcoscenico di provincia, dove c'è più slancio, più candore, più credibilità. Il treno apparve, come in certi francobolli commemorativi della prima macchina, ed era un carrozzone della forma di una latta di petrolio.


Povertà non è peccato (12:22)

Stavano seduti uno di fronte all'altro accanto allo sportello del treno, due uomini; uno col cappello di feltro, l'altro col berretto che usano qui i macellai e i sensali di bestiame, un berretto con la visiera di panno e gli orecchiali, tradizionale, e che forse ricorda la berretta antica del sacrificatore di tori. All'imbocco di una galleria, l'uomo del cappello fece all'altro un cenno col dito, indicandogli pigramente il finestrino. Quello non capì. Il cenno fu ripetuto, e quello servizievole si affrettò a tirare su il vetro. C'era da immaginare chissà quale condizione di dipendenza. E invece li sentii poi motteggiare, sebbene quello del berretto fosse trattato col tu e desse all'altro il voi, ne subisse tranquillo come un segno di amabilità, le frasi pungenti e perfino un cenno della mano, scherzoso, ma che minacciava un manrovescio. Di una tale confidenza sprezzante, d’una tale fiducia che lo ammoniva di continuo della sua condizione inferiore, l'uomo del berretto pareva soddisfatto. Era, comunque, una confidenza sprezzante, alla quale egli rispondeva pure con frasi ironicamente sottomesse, alleato e nemico insieme. Era un rapporto molto sottile, quale mai nessuno ha notato in Calabria. Un rapporto di dipendenza, di sottomissione, ma che ammette una complicità. Una servilità libera, volontaria, un'alleanza del debole ingegnoso col forte, del povero esperto col ricco.


Stagione sull'Jonio (14:16)

Le donne, da noi, al nostro villaggio, avevano un loro luogo segreto dove fare il bagno. Era una vasca naturale formata in una valletta da un fiumicello, coperta da alberi.

Vi andavano a raggruppi fra amiche. Anche dove la vita è cruda, le donne hanno una naturale gentilezza e quasi raffinatezza. Un uomo può invilirsi e imbestialire; raramente una donna. Un uomo, anche in un villaggio di montagna, si può ridurre tra la casa e la piazza, perdere ogni rapporto con la natura. Un uomo pensa, e si può stupire coi suoi pensieri. Là le donne restano sempre vicine alla realtà, gli elementi parlano a esse, e l'acqua e la loro amica.


Il fascino della cultura (16:13)

In treno sulla linea del Mar Ionio, ho riveduto i giovani che vanno a scuola all'Università di Messina, dalla costa della Calabria, in un viaggio in un raggio di un centinaio di chilometri. Li avevo venduti allo sbarco a Messina, alle 8:00 del mattino, ragazzi e ragazze, l'aria stordita per le quattro ore passate in treno e il traghetto. Era una strana compagnia che sfidava sulla passerella di sbarco, i libri sottobraccio, e, così giovani, con qualcosa da passito. Ne ho veduti all'altezza di Roccella, cioè a 5 ore di viaggio da Messina. Mi misi a parlare con uno, intriso di sonno, partito dal suo paese la mattina alle 3:00 per arrivare a Messina alle 8:00, e tornato nella stessa mattinata perché il professore, che doveva arrivare da una città dell'Italia centrale o settentrionale, non si era presentata alla lezione. Gli chiesi che cosa facessero lui e i suoi compagni a Messina, le ore in cui aspettavano il professore. Le risposte furono vaghe, ma non tanto da non lasciare intendere che si trattava di una vita brada, e senza neppure il denaro per sedersi a un caffè. Mi chiese qualche libro. Gli domandai che genere di libri. Disse che qualunque libro sarebbe stato buono. Di fatto, non disponeva neppure della somma per l'acquisto dei testi scolastici. Ma aveva curiosità e voglia di sapere. Il mezzogiorno gode ancora, presso qualcuno, la fama di contrada che, pure al culmine della sua crisi economica e sociale, ha una tradizionale disposizione alla cultura. Fino alla generazione dei nonni, esiste una generazione di classi colte, nel limite della cultura umanistica, quasi in ogni più oscuro paese dell'Italia meridionale. Quella tradizione è quasi spenta; qualche raro esemplare lo si può incontrare ancor oggi, certo, dove meno lo si aspetterebbe. E questa era la cultura per la cultura, bisogno di una regola morale di contatto con una civiltà superiore e universale. Ma da quando la crisi del mezzogiorno divenne più acuta, dal tempo in cui si profilò il fenomeno della sovrappopolazione, che è degli ultimi 40 anni, la cultura divenne una manifestazione, e la prima, della lotta di classe. Vale a dire che, chiuse le strade dell'emigrazione, impoverite le economie regionali, non restando aperte altre strade che quelle della burocrazia e delle professioni liberali, una massa ingente di giovani di ogni condizione, ma prevalentemente degli strati più poveri della classe media, e dello stesso proletariato, accettando qualunque condizione di vita la più disagiata, si rovesciò sulle scuole.

Naturalmente, il concetto di cultura si andò sempre più immiserendo, e il famoso umanesimo meridionale non cercò altro nella scuola che il mezzo per ottenere un diploma.


Calabria in fuga (14:06)

L’ultima volta che avevo veduto la Calabria, era stato alla vigilia della seconda guerra mondiale.  Le stazioni, che perlopiù si trovano isolate a grandi distanze dai centri abitati sui monti, erano affollate. Parte della folla prendeva l'assalto i treni, ed erano i giovani chiamati alle armi. Un'altra folla, donne e vecchi e i bambini, salutavano gridando dal marciapiede. Gridavano «Addio», e gridavano anche «viva la guerra»; un grido che, detto da un popolo povero, poteva fare una sinistra impressione in chi avesse un presentimento della catastrofe dell'Europa e del nostro Paese tutto. Le donne benedicevano ad alta voce, con quella nenia propria calabrese, i loro figli che andavano a morire e a soffrire. E questa non era una scena patriottica. Da settant’anni, la Calabria dei poveri aveva gridato viva a tutte le guerre: perché la guerra consentiva di partire, di trovare ventura, di correre un mondo dove forse ci si poteva fermare a guadagnarsi la vita, e intanto di lasciare alla madre o alla moglie l'assegno che il governo passava alle famiglie, che era stato prima di tre e cinquanta, e ora di dieci lire al giorno, di non pesare sul bilancio familiare, e anzi di risolverlo con quelle dieci lire, e in caso di morte, di lasciare una fortuna; la pensione. A proposito del popolo forse più patriarcale d'Italia, i cui i legami familiari sono tenerissimi, questa testimonianza potrà apparire assurda e crudele. Ma io sentii, allora, madri rimpiangere i figli morti in tenera età, di non essere più tra i viventi, e di non poter andare a guadagnarsi con la guerra una sovvenzione per la famiglia. E i giovani che avevano aspettato di sposarsi per mancanza di mezzi, ora sposavano una ragazza alla vigilia della partenza, come un tempo avevano fatto gli emigranti, perché ora le lasciavano dieci lire al giorno; ciò che allora in Calabria, significava mutare condizione sociale. E oggi, la Calabria è di nuovo tutto errante, ma senza più saluti alle stazioni. Le stazioni di treni sono affollate di giovani, come se tutta la generazione della guerra non avesse più posto in casa.


Il Calabrese «vuole essere parlato» (16:21)

La dignità è al sommo di tutti i pensieri, ed è il lato positivo dei calabresi. Proprio per una ragione di dignità, in un paese della provincia di Reggio, San Luca, gl’ingegneri del Genio Civile che andarono a accertare i danni dell'alluvione, si videro impedita l'entrata alle abitazioni. Non si volevano visite, e la risposta fu che «non si sapeva che cosa andassero a fare la gente del Governo in giro per le case». O forse diffidenza dei poteri costituiti, che è un altro lato del carattere dei calabresi. Il Governo è per essi o un nemico o un improvviso benefattore non molto chiaroveggente. Si possono misurare in ciò secoli di cattiva esperienza politica e di mancanza di classe dirigente. Bisognerà che racconti l'esperienza di un industriale lombardo a Giffoni che doveva impiantare una ferrovia a scartamento ridotto per il trasporto dei tronchi di faggio e di castagno d'uno dei grandi boschi della contrada. Questo industriale dunque doveva ottenere il passaggio della sua ferrovia dai diversi proprietari delle terre, lungo 28 km. Per molto tempo non riuscì ad avere un solo consenso, a nessun patto. Se ne lagnò con un vecchio del luogo. Il vecchio gli disse: «voi non avete capito un fatto: che il calabrese “vuole essere parlato". Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». E il lombardo applicò il consiglio; parlò da uomo a uomo. Oggi la sua ferrovia passa per 28 km tra boschi di faggi e di castagneti, per le fredde fonti di cui i calabresi hanno la religione, e non ce n'è una che non sia provveduta della sua rustica vasca e del suo canaletto di legno scavato.


Quattro variazioni su donne (51:25)

Donne di Chiaravalle Sì, tutto si muove in Calabria, tutto fugge, tutto cerca; tutto bussa energicamente alla porta di una vita più clemente; ma c'è un personaggio che aspetta, e a dire del quale bisognerebbe intingere la penna nel colore dei più freschi fiori, fiori popolari, fiori suoi, di lei, della donna. Da piccina, chi nasce qui donna del popolo, è abituata ad andare a piedi nudi. Da piccina, e quasi per gioco, le si impone un peso da portare sulla testa, e senza l'aiuto delle mani; il canestrino piccolo, il paniere, l'orcetto per l'acqua da 3 a 5 litri. E’ l'iniziazione a quella che sarà la sua vita; portare al torrente la cesta della biancheria da lavare, a una o due ore dall'abitato, al mulino il sacco dei 50 kg di grano da macinare, dalla fonte la giara di 50 litri d'acqua, dal bosco il fascio della legna, dal prato l’enorme carico di fieno sotto cui non si vede il viso trafelato, ma le braccia che reggono, il busto che si torce. L'umile vita quotidiana della Calabria ha il suo modello nel presepe. Le donne di Bagnara A chi , straniero italiano, mi domanda itinerari meridionali, consiglio spesso d’imbarcarsi a Villa San Giovanni per Messina, andata e ritorno, per vedere le donne di Bagnara che fino a ieri eravamo pochi a conoscere, ad aspettare affacciati al treno come ci si affaccia a vedere il Battistero e la Torre di Pisa dal treno in corsa. Ed ecco l'immagine di quel tipo di donna che va prendendo un posto nel più rinomato matriarcato di alcune regioni italiane. Lo capirete anche voi che quello è un regno chiuso, che diffida di tutto, in sciame solidale come le api, come i più costruttivi animali della creazione, che così errabondo ha un'intimità, un'individualità in quello indistinto. E state attenti, perché spesso per la loro difesa portano uno stiletto nel seno. Il loro vestito è quello comune dei paesi marini di Calabria, una blusa che ricade sotto la cintura, una veste chiara sulle gambe e ai piedi nudi, piuttosto corta, quasi al ginocchio, larga e con molte pieghe, che può ricordare una blusa orientale; la gonna a molte pieghe è greco-romana. È curioso che tornino certi richiami culturali per una donna che farebbe pena se non avesse quel contegno, quel segreto, quella fierezza, vestita come è con due poveri panni di cotonata, inverno ed estate, giusto per coprirsi; e chi lo conosce, sa di quel corpo che non avverte più la temperatura esterna, una statua appena intiepidita dal soffio della vita in una fatica interminabile. Guardate le donne di Bagnara che escono da tutte le parti del ponte sul traghetto con le loro ceste o i loro sacchi vuoti sul capo; e poi al ritorno cariche della piccola merce che trafficheranno. Lo sanno anche i doganieri che esse fanno contrabbando di sale della Sicilia, dove il sale non è genere di monopolio. Senza invidia e senza rancore, vi guardano appena, affacciati al finestrino di prima classe sul treno che traghetta sul ferribotto, esse che speculano sulla differenza di prezzo di una dozzina di scope tra Messina e Bagnara, e che servono da corrieri tra bottega e bottega per rifornimento di merci. Pellegrine e intime, vagabonde e riservate, le riconoscerei in capo al mondo. E con la lingua pronta e tagliente. Perché se l’uomo è destino che a volte pieghi il capo, sopporti, la donna ha in Calabria diritto di parola, è la bocca della verità, può inveire e gridare senza che per questo gli uomini menino le mani. La Capitana La Capitana aveva 25 anni; era sposata; ma il marito glielo avevano ucciso i francesi. Per vendicarlo era divenuta capomassa, aveva trovato l'uccisore e lo aveva voluto uccidere di pugno suo, a freddo. La sciabola che porta, appartenne, appunto, al suo nemico, che avrebbe voluto essere il suo amante. Donne perdute Era una tribù di donne che abitava presso una fonte abbandonata dove non andavano ormai ad abbeverarsi che le bestie, i porci arrotolarsi nelle pozze, i ragazzi a cercare i granchi sotto le pietre umide. Queste donne erano venute da un paese vicino e parlavano un liquido dialetto Greco. Era un gruppo di Veneri di paese, invecchiate, con intricate e parentele. La vita di donne come queste la conoscono tutti. Prima fanno le serve nelle grandi casate. Passano decine di volte per le strade a comprare e a chiedere le mille cose che servono nelle case oziose e disordinate, dove le ghiotte padrone hanno a ogni ora voglia di qualche cosa, pensando che il vicino abbia qualche boccone da mangiare in segreto. Più tardi queste donne si riducono in un casolare, con attorno una turba di figli (e soprattutto figlie, perché mettono al mondo femmine come per destino). Nessun uomo si vede a casa loro. Mandano al servizio le figlie appena sono in età di portare i primi pesi sulla testa. Fino a quando anche queste, non più giovani, si ritireranno nei casolari appartati.


L'urlo del torrente (21:26)

Il cielo, così sereno, s’è improvvisamente rabbuiato.  La pioggia sulla strada polverosa in un istante ci ha preceduti. Sembra voglia sbarrarci il passo, gelida e risoluta. D'un tratto la montagna si mette a urlare, messa in allarme con mille voci, ed erano due ore che andavamo senza vedere nessuno, se non qualche faina che si affacciava sulla strada, qualche lepre che correva nei campi; senza udire altro che gli uccelli i quali intonavano la prima parte di un canto, e la ripetevano senza curarsi di seguitarlo. Dai profondi burroni si leva uno scroscio alto e modulato. Il letto del torrente, asciutto qualche minuto fa, è percorso da centinaia di rivi che si cercano e si confondono. Da tutte le parti da montagna scarica i suoi rigagnoli e i suoi canali. Quello che noi abbiamo sentito per un'ora, e in un'ora placato, è stata una piccola prova. Il torrente in Calabria è un mostro perfido ben più presente del terremoto; frantuma i ponti come fragili gabbie, passa sopra gli agrumeti e gli uliveti, demolisce le strade a mezza costa, spacca la casupola lassù.


La Certosa tra gli abeti (10:47)

Quando le truppe americane arrivarono a Serra San Bruno, in qualcuno di quei soldati si destò una improvvisa vocazione di Monaco Certosino di questa Certosa. Una Certosa in un angolo favorevole delle Calabrie, in un paese d'una pace umbra, tra gente mite. Attorno sono grandi boschi gli abeti; l'ingresso della Certosa è un prato verde sotto i pioppi alti trenta metri e pecorelle e bambini; c’è una fonte d'acqua freschissima più bassa del suolo, raccolta in un ninfeo; insomma un paesaggio quale si pensa nelle fantasie di una vita semplice. Tutto ciò poteva parlare persuasivamente a gente stanca della guerra. Quei soldati, congedati, scrissero dall'America dicendosi pronti a monacarsi.

Il padre superiore rispose che venissero pure, ma che portassero, occorrendo, il denaro del viaggio di ritorno. Accadde come egli aveva previsto: nessuno resistette là dentro più di tre giorni. Visitandola, mi dicevo di continuo: «sta tranquillo: non ti sei ancora fatto Monaco Certosino».


L'«Onorata Società» (14:03)

La Fibbia, la «ndrina», la «ndrànghita», l’Onorata Società, insomma la mafia, la conosco da quando ebbe l'età della ragione. Un ricordo preciso è di quando, tornato a casa per le vacanze, mia madre, venendomi incontro, mi disse che mio padre era occupato nella stanza di sopra con quelli dell'Associazione. Mi rallegrai dicendo: «c'è finalmente un'associazione al nostro paese?». Fresco di studi, credevo si trattasse di un'associazione per gli interessi locali. Mia madre mi fece ricredere subito: «è l'associazione a delinquere». Non so che avesse da sbrigare mio padre con quelle persone, comunque non me ne meravigliai. Nessuno in paese li considerava gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente. Per la confusione di idee che regnava fra noi a proposito di giustizia e d’ingiustizia, di torto e di diritto, di legale ed illegale; per gli abusi veri e presunti di chi in qualche modo deteneva il potere, non si trovava sconveniente accompagnarsi con un «ndrànghitista». I membri dell'associazione professavano il rispetto della religione, posavano a difensori della morale anche quando non la praticavano, proteggevano le ragazze tradite e ne decretavano le nozze, vedevano di buon occhio i concittadini che si facevano onore. Compivano prepotenze, ed era una di più da tollerare. Si assassinavano tra loro per gli strappi all'omertà, ed erano affari loro. I delitti in una città, e non meno feroci è raffinati, sono l'ammonimento quotidiano di un oscuro pericolo. In un paese, gli autori di delitti sono gente che si conosce, con cui si è scambiato il saluto e con cui si è parlato. Questo vorrei notare nella psicologia della mafia, la rivalsa di una certa condizione, il fascino di un potere segreto che si ride di ogni altro potere, e che pretende di esercitare una leggendaria giustizia secondo il codice di una brigantesca cavalleria.

Non è un semplice problema di polizia, né si tratta di mettere sotto accusa e in stato d'assedio un'intera provincia. Ma la norma per un'azione seria, potrebbe dettarla l'esame di come si è comportata la classe dirigente da cinquantanni.


Feudalesimo, Comuni e riforma agraria (26:46)

La condizione sociale in Calabria è qualcosa di peggio del vecchio feudalesimo che almeno rappresentava una forma di vita collettiva intorno al barone, al palazzo, alla ricchezza enorme. Tutte le dominazioni, e furono tante anche se il reame rimase sempre unito e fermo un sentimento unitario che diede poi buoni frutti nel Risorgimento, non fecero che distribuire a stranieri, per i loro meriti in pace e guerra, le terre calabresi in feudo. Gli ultimi furono gli spagnoli. È uno dei rari casi di una classe dirigente straniera durata tanto tempo in un paese. Ve ne furono anche indigeni, e questi furono i migliori, e almeno vissero nel paese; ebbero anzi tendenze culturali, scrissero libri di storia locale, raccolsero testimonianze di vita, di tradizioni e di poesia popolare. Era una forma di solidarietà. La feudalità meridionale era durata tanto a lungo per ragioni che ancora oggi non sono state del tutto rimosse: la mancanza di viabilità e di comunicazioni, la difficoltà dei traffici. E’ la ragione per cui non sorse in Calabria una forte classe di mercanti, la borghesia finanziaria grande e piccola che altrove aveva minato e distrutto il potere feudale, quella che aveva compiuto la rivoluzione in Francia.


La società calabrese (31:30)

La Calabria, come non rappresenta un'unità linguistica, non rappresenta neppure un’unità etnica. A parte la comune definizione che «il calabrese è ottimo o pessimo», si può attribuire ai due tipi del calabrese un’area; quella che va da Squillace alla punta meridionale della penisola, e quella che da Squillace va ai confini settentrionali della regione. Questa è la Calabria Italica, che arrivò prima a contatto coi Romani, il cui dialetto è penetrato con le parole e forme latine più antiche, in cui il tipo fisico e a disposizione dell’ingegno è italico; una familiarità e semplicità e sobrietà, un'acutezza e penetrazione a servizio di uno spirito di ricerca, un senso della natura e della vita senza idoleggiamenti, giacché appaiono in sé e nella loro umiltà poetici. L'altra parte della Calabria, da Squillace in giù, entrò tardi a contatto con la romanità, verso l'undicesimo secolo, quando questa era già soltanto un ricordo. Così la popolazione ha tutt’altri caratteri della Calabria Romana, caratteri Greci, come la mobilità, una certa tendenza al vivere delicato anche se la vita è povera; ospitali sebbene diffidenti degli stranieri, molto stimanti di sé, inclini alle lettere sebbene a loro modo e con un culto estremo e pedissequo del passato, sensuali, pronti d'ingegno, e adattabili. E i Cosentini, i vecchi Bruzzi, patriarcali, modesti, sofferenti, poco tementi del pericolo, vendicativi, acuti di mente, curiosi degli altri e della cultura, ragionanti.

Il calabrese è curioso di conoscere e di sapere, la sua delizia è ascoltare persone colte che parlano, anche se a lui non arriva interamente il senso dei grandi e profondi concetti. E’ come il povero davanti allo spettacolo di una festa apparecchiata, non per lui, ma di cui gli arrivano i suoni, le luci, i colori. Senza invidia. Con un cocente rimpianto d'un bene fatto per tutti gli uomini.


Il dramma meridionale (12:53)

L'Italia meridionale è oggi per l'opinione nazionale, uno dei punti critici della nostra convivenza.  Il resto d'Italia si è accorto che, non risolta la questione meridionale, non è risolto l'assetto della nostra società. Le guerre che da quarant’anni ha combattuto l'Italia con la preparazione e le disavventure che tutti sanno, hanno ubbidito anche alla pressione della natalità italiana, e infatti, con gravissime perdite l'Italia meridionale le combatte tutte, considerandole un'evasione e una breccia per le migrazione. Ora, l'Italia meridionale tenta un evasione interna, si inserisce dappertutto fornisce la burocrazia e la polizia: in altri termini meridionalizza la nazione. Anche per questo la nazione sente che è suo dovere affrontare questo problema, e subito; per questo la riforma della scuola, dell’istruzione, della preparazione tecnica dell'Italia meridionale, è di una importanza fondamentale. Già alcuni teorici del fascismo accusarono il trasformismo meridionale di essersi caricato a bordo della sua "rivoluzione permanente" e di averla inceppata. E’ di ieri lo stupore della Destra che vide mancare proprio nel sud il sostegno alla monarchia. E gli appunti che oggi fanno le sinistre alla magistratura e alla polizia possiamo leggerli nei giornali. Nelle elezioni recenti, a una crisi delle sinistre del Nord rispose una svolta a sinistra, e non soltanto occasionale, nel Sud. Insomma, il Sud non riesce ad andare al passo col Nord. Bisogna dire che la crisi della vita meridionale proviene sì dalla miseria, ma è resa acutissima da una mancanza di solidarietà sociale, dall'assenza di una qualsiasi categoria regolatrice e mediatrice e moderatrice. Una potrebbe essere costituita da coloro i quali, usciti dal popolo, sarebbero, per il loro ufficio a servizio dei poteri, i naturali mediatori fra popolo e classe dirigente. Se ciò non accade significa che la condizione popolare deve essere ben penosa, se chi la conobbe non ama voltarsi indietro.


Un paese piemontese in Calabria (33:45)

Si dice generalmente che la Calabria sia il Piemonte dell'Italia meridionale, ed è probabile che questo giudizio comune abbia più di un fondamento, almeno per una certa disposizione del carattere. 

Ma io andavo a vedere davvero il Piemonte in Calabria, in un paese che porta il nome di Guardia Piemontese.

E non senza scetticismo.

Pensavo che fosse sepolta sotto una dimenticanza secolare questa parentela che rimonta a oltre sette secoli, e che non vi avrei trovato una percentuale di parole e di consuetudini maggiori di quella che si riscontra in questa regione per tutte le razze che l'hanno percorsa senza neppure sfiorare il popolo rifugiato sui monti. 

Se c'è una terra dove le correnti migratorie che l'hanno trasformata e arricchita o impoverita si possano ancora distinguere precisamente, è la Calabria. 

Me ne spiego la ragione.

La condizione in cui sono state tenute e in cui si tengono le donne qui, che è di stretta aderenza alla casa e perciò alla tradizione, ha fatto di esse le inconsce conservatrici delle cose immemorabili. 

Gli uomini si rivolgono ad esse, quando vogliono sapere qualche cosa intorno ai tempi trascorsi, e alle consuetudini antiche, come se parlassero a gente di un altro mondo più vicino al passato che all'avvenire: la gente dell'infanzia, quella che parla coi ragazzi, e ha dagli anni passati accanto alle altre donne in casa un'eredità sottile di leggende e un vocabolario da trasmettere alla fantasia dei ragazzi. 

Poco dopo il millennio, spinte forse dalle lotte di religione, genti del Delfinato e Valdesi erano trasmigrate in Piemonte e in Lombardia, specialmente nella valle del Pèllice. 

Di qui, un secolo più tardi accorsero a quel regno di Federico II, il re tollerante e intollerato cui accorrevano uomini di tutte le razze, e che aveva fatto delle Due Sicilie il primo schema di una grande nazione unita. 

Quindi i Valdesi si stabilirono sulle alture intorno a guardia, trapiantandovi i loro usi, la loro lingua, religione, costumi. 

Lo stesso principe Salvatore Spinelli, feudatario di quel luogo, dovette vedere di buon occhio questa colonia, se le cedette l'usufrutto delle ancora ricchissime Terme Luigiane, la miracolosa acqua della Calabria. 

Ma nel 1559 il principe mutava parere. 

Accusato di favorire gli eretici dal cardinale Ghisleri, che fu poi Papa Pio V, imprese una persecuzione nei paesi intorno a Guardia. 

Vennero gli spagnoli e l'inquisizione. 

La persecuzione fu seguitata con più rigore, e doveva finire con la strage della popolazione valdese.


Sicilia 1948 (1a parte) (14:08)

Da Napoli in giù, ognuno che tenga negozio, che sia dietro un banco, che abbia roba da vendere, a meno che non provenga da una vecchia tradizione mercantile com'è per certi nomi di famiglia che hanno botteghe in tutto il mezzogiorno, o un negozio organizzato modernamente, considera voi compratore poco meno che un bisognoso, un pover'uomo che è costretto a comperare e che compera il bene altrui. 

Vendervi la roba, è come se vi vendesse il suo fegato, e basterebbe già questo per mettervi di cattivo umore. 

Ma se vi adattate alla vostra parte di questuante ai piedi del trono di un tabaccaio o di un farmacista, se siete dotato di spirito riflessivo, vi capiterà di scoprire un carattere, un modo di vivere, una società, e sotto questa pessima raccomandazione ai cattive maniere, alcune delle potenzialmente più vive caratteristiche del meridionale. 

Capirete che chi vi disprezza perché comperate un pacchetto di sigarette o perché consumate un pasto presso di lui, ha dovuto subire disprezzo e offese innumerevoli a sua volta; che quel buco o quello locale sono il frutto di una fatica più penosa che altrove, di infinite prepotenze subite, di una società insomma che ignora il sacro salario, il riconoscimento della capacità di lavoro, e conosce la prepotenza dei potenti grandi e piccoli, a cominciare dalla polizia e dalla gente delle tasse, al ricco e all'alleato del ricco.


Sicilia 1948 (2a parte) (13:47)

L’impressione di una società in timore è dunque continuo in Sicilia.

Il timore di essere umiliato fa sì che l'individuo sia continuamente in sospetto.

Di una natura che non si rassegna una condizione che si intuisce sottoposta a mille inibizioni, prepotenze, cattiverie, vendette, reagisce con un senso prepotente di sé, con un'affermazione della propria personalità, col lavoro accanito, l’ingegnosità, l'abilità, l'intrigo, e in mancanza d'altro con il suo brusco riserbo.

Una certa cortesia che se è così contrastante con la formalissima cortesia di cui sono capaci i Siciliani, è il segno di questa personalità, l'indizio di questa fuga dalla condizione di sottomissione, di umiliazione, di pericolo, che si intuiscono subito e che vi danno alla prima l'impressione di trovarvi in un ambiente facile ai risentimenti e una rivalità inconsulta e quasi femminile.

Tenendo presente ciò, ci si può appassionare alla lotta quotidiana che si svolge vivace, infaticabile, piena di accorgimenti e di meandri.

Ma qual è il fondo di questo timore?

Entrando in certi villaggi e paesi, forestiero, si ha chiara l'impressione di arrivare inopportuni.

Ed essere seguiti, tenuti d'occhio, se non proprio di essere in pericolo.

Si entra così nell'atmosfera di timore che è di tutti gli altri, solo che voi siete identificato a quel non so che di denotante in voi il forestiero.


Sicilia 1948 (3a parte) (30:08)

L’autocorriera che per Monreale va a Partinico, per la montagna, qualche volta è presa d'assalto dai banditi. 

Più sicuro il treno.

Può capitare però qualche volta di subire il "passo" in quel tratto di chilometri fra la strada di Partinico e l'abitato.

In questo tratto si trova una casa isolata, una distilleria di vinacce, un canneto, che come in guerra rappresentano accidenti insidiosi della strada, ottimi nascondigli e covi di boscate. 

Il "passo" consiste nel doversi buttare a ventre a terra all'ordine dei banditi che abbiano voglia di presentarsi, lasciandosi frugare e sequestrare il denaro.

Ma sono colpi che si fanno quando sono informati sicuramente di qualcuno che porti con sé molto denaro, e meglio nei giorni in cui la gente va alla fiera.

La polizia arriverà poco dopo il "passo" con le autoblinde, e sempre troppo tardi.

Forestiero, a Partinico, cento occhi vi seguono, da quello che vende uva e arance nel baracchino della stazione, al farmacista vestito di nero sulla nera soglia del nero ingresso della sua farmacia.

Se qualcuno vi dicesse sottovoce una parola sulla situazione, sareste molto sorpresi di ascoltare che il terrore più grande è quello della polizia.


Sicilia 1948 (4a parte) (25:41)

Le nove ore di treno tra Palermo e Catania bastano, senza bisogno di altre informazioni, a dare un'immagine concreta della Sicilia più remota, quella che fa parlare di sé nei drammi della vita sociale. 

Lungo la fascia costiera, l'impressione è di una fatica a cui sorride il cielo. 

È sempre presente in Sicilia una doppia immagine della vita: la fatica degli uomini, diligente, accanita, primitiva nei campi, che si capisce prospera ma senza segni di evidente benessere nell'abitato, segretamente prospera come tutto qui è segreto, e non soltanto per sinuosità ma per pudore o decoro; e poi il cielo, l'aria, il mare, fantastici, prodighi, felici. 

Internandosi a dieci chilometri dalla costa, è come se si capitasse in un altro paese. 

È un altopiano compatto, per gran parte dell'anno colore della terra nuda fra fulva e rossiccia, senza un albero, con rare abitazioni sparse che poi si scoprono per rifugi; con macchie di verde intenso attorno, che poi si scoprono per folti, siepi, viali di fichi d'india, simulanti veri viali, frutteti, giardini. 

E non un albero. 

Tutto è colore della terra, colore del pane, colore della pietra. 

In una crepa un torrentello rompe la compattezza della terra.

E silenzio ininterrotto. 

Lontano, sui poggi e sui monti, che appena si distinguono dalla sassaia delle cime o su vere fortezze naturali, i paesi e le città. 

Scarsi gli animali, per lo più i muli e gli asini aggiogati all'aratro primitivo, e sembra un fenomeno di mimetismo che essi siano fulvi un poco più della terra. 

Sulla strada nazionale che segue il fondovalle, che si attorciglia ai colli, e ai monti fino all'altezza della rocca di Enna, un uomo a cavallo evoca una vecchia immagine solitaria e avventurosa, e un'auto, la sola che abbia visto in tante ore, simile a un grosso coleottero, poiché non vi sono abitazioni in vista se non i paesi a grandi distanze sulle alture, gli scarsi uomini che badano ai campi, alle semine, con l'asinello, sembrano raminghi in un perpetuo viaggio.


All'ombra dell'oleandro (16:59)

Viaggiando nell’Italia meridionale, io stesso meridionale devo nuovamente abituare l’occhio alle proporzioni che vi assumono le cose, gli alberi come l’architettura, i campi come il paesaggio.

Immagino che un visitatore meno familiare, o addirittura estraneo, passi per una serie di impressioni piuttosto contraddittorie.

Gli alberi e le piante, a mano a mano che si scende verso il Mare di Sicilia, crescono fuor di misura, l’olivo gigantesco della costa è scambiato per una pianta forestale, la ginestra dal tronco arboreo forma viali alberati verso Piazza Armerina; e la cicuta, ad Agrigento, assume le proporzioni di una grande ombrellifera, la si può scambiare per il sambuco.

Bisogna far occhio a quel tanto di arabo e di normanno penetrato nella stessa architettura popolare, dai modelli vicini alle chiese.

Si rivelano improvvisi sui colli, accanto ai modesti borghi, città fantastiche, pinnacoli, guglie, colonne, da fantasia di Monsù Desiderio, assai più nobili dell’abitato umile che è in genere una fila di case spesso della identica forma romboidale, lungo la strada: sono cimiteri, come a Palazzolo.


170 drammi per pupi (13:56)

Il puparo del Teatro del Corso Scinà a Palermo non ha per ora un erede della sua impresa: ha per ora soltanto due bambine, ed è certo che, divenute donne, esse non si metteranno a governare e a far parlare tutte le sere sul piccolo palcoscenico i Saracini e gli eroi del ciclo di Carlomagno con le loro battaglie.

Il ciclo completo degli spettacoli comprende centosettanta drammi, secondo il prolifico uso degli antichi drammaturghi.

Né i carretti siciliani con le loro storie di paladini dipinte sulle spalliere e le immagini cristiane scolpite sull’asse, né l’opera dei pupi, sono antichi come avevo sempre creduto.

Poiché cercavo un pezzo antico di queste immagini dei carretti, l’antiquario Daneu, che è un attento collezionista di curiosità e opere d’arte dell’isola, mi avvertì che il carretto siciliano rimonta appena a una settantina d’anni.


Fotografia a Tindari (14:30)

Mentre andavamo via lesti perché la nostra compagnia ci chiamava per ripartire, fermammo una donna che andava alla fonte con l’orcio sulla testa, e le domandammo se consentisse a posare per una fotografia.

Si volse: «Sì, a patto che ne mandiate una copia. la voglio spedire a mio figlio che si trova in America».

Mentre ci rispondeva senza deporre l’orcio, ci accorgemmo com’era, scalza, le gambe scoperte fino al polpaccio muscoloso, con quell’idea d’infanzia perenne delle donne scalze dell’Italia meridionale, di donne non abbastanza adulte per via appunto dei piedi scalzi, fino a che lo sguardo non scopre il viso, e uno colloca questo viso in un tipo di donna, lo immagina in città, e questa popolana scalza prende l’aria d’una passante vestita alla moda, d’una nostra amica, di una donna che siamo abituati a rivivere.

E’ come la minuscola violetta tricolore dei prati che evoca la pansé di giardino.

In quell’istante, mentre il mio compagno di viaggio scattava la fotografia, avevo modo di osservare quella donna.

Poteva avere quarant’anni; occorreva un occhio esercitato per attribuirle non più di questa età; il naso arcuato; gli occhi distanti sotto la fronte dritta, e in essi l’espressione con cui una donna del popolo guarda un uomo che è il più forte e insieme il ragazzo, il rivale e il violento e insieme il protetto.

Ella si preparò alla posa assicurandosi con una mano l’orcio sulla testa, mentre passava l’altra per riavviare i capelli della bambina che la seguiva, a cui facemmo attenzione per quel gesto.

Unica civetteria, si passò la lingua sulle labbra per inumidirle e posò con sicura semplicità una mano nella mano della bimba, l’altra all’orcio perché sapeva che quello era lo scopo della sua fotografia, il suo povero orcio.


Le dieci Ragazze di Piazza Armerina (12:48)

Delle Dieci Ragazze di Piazza Armerina, in Sicilia, s’è parlato come di poche scoperte archeologiche, al punto che questo singolare documento ha quasi offuscato il resto della scoperta; una delle più suggestive del mondo romano, coi suoi vari ambienti tra cui l’ambulacro delle scene di caccia per un’estensione di settanta metri di mosaico, in cui l’esotismo della romanità cadente dà la sua prova forse più grandiosa.

Il richiamo delle Dieci Ragazze è che esse, in costume succinto, anticipano di quindi secoli il “due pezzi” delle nostre spiagge e dei concorsi di bellezza.

Gli strumenti del giuoco, la palla scoperta subito dall’uomo come il gattino scopre subito un sasso che rotola ed è spinto a inseguirlo e ad afferrarlo, non è l’ultima causa di stupore e di fantasticheria di fronte a queste dieci immagini di tipi di donna, dei mosaici di Piazza Armerina.


Il paese dei Malavoglia (13:54)

Per rendere omaggio a Giovanni Verga, andammo a vedere Aci Trezza.

Tutto si sarebbe risolto, si capisce, in una colazione e specialità del posto.

Ma anche gli alimenti introducono in un mondo e in un tempo sconosciuti, ed è male che il pasto abbia perduto quel senso di comunione con la terra che presso la gente sana ha tuttavia.

Verga parlava poco volentieri della sua opera.

Non doveva essere un dramma da poco quello di uno scrittore che, pubblicato il suo ultimo libro nel 1882, sopravviveva fino al 1922 senza dire più una parola.

Sterilità? Sdegno? Scetticismo della vita e dell’arte?

Qualcuno dei suoi tratti si può spigolare ancora oggi a Catania, dove egli visse gli ultimi anni della sua vita silenziosa frequentando il Circolo dei Nobili.

Gli domandarono un giorno perché lo frequentasse.

Rispose: «Lei va al cinema e al teatro. Io no. Vado al circolo. E’ il mio teatro».

Ad Aci Trezza, un bassorilievo in piazza, di donne disperate, riporta una delle frasi comuni a Verga e al suo popolo: sulla povera gente che «parevano anime del Purgatorio».

Noi ci preoccupammo subito della colazione, evitammo i locali che ci parvero più comuni e andammo a finire in una specie di osteria.

In un paese come l’Italia meridionale in cui un pasto è un problema e un avvenimento, o un fatto segreto, i luoghi dove si mangia hanno la rispettabilità e la cautela dei luoghi occulti, assai vicini ai luoghi di libertinaggio, coi camerieri dall’aria di infermieri o di pronubi.

Il padrone, e poi la padrona di questa osteria, cominciarono a evocare i nomi degli alimenti che potevano offrire e del vino, come se confidassero i loro depositi in banca, e misurando le nostre possibilità di spendere.

Bisogna essere meridionali per avvertire queste sfumature, l’avarizia e la cautela con cui si dispone un pranzo.

E per misurare pure l’importanza che poteva avere un balconcino che dava da quell’osteria sul mare, su una spiaggia cosparsa di lastroni di lava, luogo di delizie secondo i padroni, perché c’era un po’ di spazio, si respirava la brezza.

In un paesaggio classico e pieno di memorie, avaro e grandioso come la natura degli abitanti, la più piccola comodità messa insieme dalla gente modesta diversa il paradiso; una boccata d’aria un beneficio, un pasto, la Provvidenza.

Basta un balconcino e un poco d’ombra.

Se non si capiscono queste cose non si capisce l’Italia meridionale.


Pane e pietre (15:48)

E’ la quarta volta, a distanza di anni, che rivedo l’interno della Sicilia, questo mondo in cui sono tutti i problemi siciliani, il latifondo, la zolfara, la siccità, la mancanza di abitato sparso, l’intermittente banditismo.

Qualche anno fa, verso Caltanissetta, si vedevano alcuni tentativi falliti di case coloniche del passato regime.

Le case erano abbandonate e aumentavano l’impressione di infida solitudine.

L’Italia meridionale dà spesso questa impressione d’inghiottire come un terreno mobile ogni tentativo di penetrazione e di legame col mondo.

In questo grandioso interno dell’isola, d’una inquietante solitudine secolare, spunta qua e là una fonte d’acqua.

V’è sorta già accanto una casa rustica abitata, un albero, le fondamenta di un’altra abitazione.

Ed è la prima volta, da quando conosco la Sicilia, che nell’interno mi capita di vedere gente che adatta a terrazze di vigna alcuni costoni dell’interno, e con un lavoro in grande, da mutare l’aspetto del paesaggio.

Quanto alla struttura sociale, coi suoi concessionari, affittuari, gabellieri e metatieri, che affliggono l’agricoltura come le miniere di zolfo, per cui è tutta un’economia di affittuari irresponsabili che creano condizioni inumane di lavoro, è un problema che se lo prospetta lo stesso governo siciliano, se nella sua rivista, se nella sua rivista ufficiale è denunziata, con fotografie e dati che paiono documenti si cento anni fa, la condizione degli zolfari, i vecchi tornano alle paghe dei ragazzi, i ragazzi che conoscono una fatica senza protezione e la frusta, l’uomo nudo come un verme nella miniera infida.

Personalmente, sono avverso alle autonomie regionali, per ragioni di unità nazionale, morale, culturale, economica, specie in tempi in cui le patrie si frantumano e cadono in schiavitù come nel nostro tempo.


AUTORE
 
Corrado Alvaro nasce a San Luca, un piccolo paese nell'entroterra ionico calabrese, ai piedi dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, primo di sei figli di Antonio, un maestro elementare, e di Antonia Giampaolo, figlia di piccoli proprietari.

Nel 1905 si trasferisce nel collegio gesuita di Villa Mondragone a Frascati, diretto dal famoso grecista Lorenzo Rocci. Corrado passa cinque anni in questo collegio, frequentato dai rampolli dell'alta borghesia romana e quindi dalla futura classe dirigente italiana, studiando avidamente e cominciando a comporre le prime poesie. Nel 1910 è costretto a lasciare Villa Mondragone per aver praticato letture non autorizzate.

Compì i suoi studi liceali presso il Galluppi di Catanzaro, dove nel 1913 conseguì la licenza liceale e dove rimase fino al gennaio del 1915, anno in cui partì militare per combattere la Prima guerra mondiale.

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