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Villa Badessa, una storia emblematica di accoglienza e integrazione


Questa storia, sconosciuta come tutta la storia patria italiana perché non insegnata colpevolmente nelle scuole e altrettanto colpevolmente non scritta sui libri di testo, ci insegna come il nostro paese, l'Italia, si è formata attraverso l'integrazione dei migranti.
In questa storia ci sono tre attori: gli italiani indigeni, e due stranieri, il re spagnolo e gli albanesi.

Sto scrivendo il testo del podcast dedicato a Villa Badessa (Badhesa in albanese) una frazione di 395 abitanti del comune abruzzese di Rosciano in provincia di Pescara, che visitai nel lontano 1980, dove conobbi Don (in albanese papàs) Lino Bellizzi, parroco e memoria storica per più di 40 anni della comunità, che dopo molte trattative mi permise di fare un solo scatto fotografico dalla soglia all'interno della chiesina stracolma di icone preziosissime.
Bene, leggete che storia avventurosa dietro un piccolo grumo di case in mezzo alla campagna abruzzese, e come la storia si ripete.


Ebbene, secondo quanto racconta Don (in albanese papàs) Lino Bellizzi, parroco per più di 40 anni della comunità italo-albanese di Villa Badessa, i parenti dei soldati provenienti da vari luoghi dell’Albania, erano persone molto indecise a lasciare i loro luoghi natii sia per nostalgia sia per le conseguenze che poteva portare il solo desiderio di una trasmigrazione, che poteva portare a una condanna a morte.
Ma il 6 dicembre del 1742, i connazionali musulmani di Borsh e Golëm nel Kurvelesh attaccarono la vicina comunità cristiana di Piqeras che si trova tra Borsh e Lukovë nella regione di Ciamuria e malmenarono gli sfortunati abitanti; tuttavia visto che erano "discendenti e imitatori dei loro padri" [ossia di religione cristiana ortodossa e coraggiosi], anche se erano solo 47, resistettero per sei giorni durante i quali vennero uccisi 27 albanesi convertiti all'islam di Borsh mentre nessun cristiano perse la vita.
La decisione di emigrare a questo punto fu facilitata dal fatto che per un cristiano era proibito tenere armi e, avendo ucciso ben 27 persone nei sei giorni di combattimenti sanguinosi sui Monti Acrocerauni, era evidente che fossero armati, perciò gli abitanti di Piqeras decisero di abbandonare il loro villaggio, accompagnati dal loro papas Macario Nikàs e dal diacono Demetrio Atanasio.

Mentre un piccolo gruppo si fermò nel vicino paese di Lukovë [a circa 6 km da Piqeras] e nella zona circostante, gli altri proseguirono verso sud e quando si raccolsero vicino al mare [probabilmente vicino a Saranda per imbarcarsi per Corfù, vennero scoperti e minacciati di essere denunciati da un musulmano, e uno dei cristiani “finì di pistola il Barbaro”. 
Allorché, spaventati si imbarcarono verso l'isola veneziana di Corfù, condotti da Spiro Idrio e Demetrio d’Attanasio dove si sentirono protetti da San Spiridione, il protettore di Corfù.
Si racconta, inoltre, che lungo il tragitto verso Corfù si siano aggiunte diverse famiglie.
Secondo lo scrittore greco K.Ch. Vamvas, proseguirono verso Othoni, altra isola che a quel tempo apparteneva alla Repubblica di Venezia dove aspettavarono l'arrivo delle regie navi che li avrebbero portati a Brindisi. 
Mentre i Piqerasiotët aspettavano, i fratelli De Martino, con una barca, sarebbero tornati di notte a Piqeras per prendere dalla chiesa del monastero Kremesove l'icona dell'Odigitria, colei che avrebbe indicata loro la giusta via. 
E l'icona oggi è custodita nella chiesa di Santa Maria Assunta di Villa Badessa.

Giunti quindi a Brindisi il 4 marzo del 1743, vennero registrati, divennero cittadini del Regno di Napoli e fecero la quarantena necessaria per il sospetto che i luoghi di provenienza fossero stati infettati dalla peste che stava dilaniando Messina dal marzo di quell’anno; infatti l’epidemia, che si sarebbe protratta fino alla tarda primavera del 1744, sollecitava provvedimenti per la salvaguardia della salute pubblica sia nel regno delle due Sicilie, e principalmente nei porti, che in tutti gli stati che avevano nel mare la principale via di comunicazione, quindi Brindisi, primo approdo per quanti provenivano dalle sponde orientali dell’Adriatico, non sfuggiva alla regola.

In quei mesi ai loro bisogni provvide il colonnello don Giulio Cayafa, “castellano dei Regij Castelli di mare e di terra di Brindisi“, che anticipò denaro per il mantenimento del consistente nucleo di persone acquistando pane, vino e quant'altro necessario alla loro sopravvivenza. 
Le somme anticipate dal castellano furono poi reintegrate da Giovanni Garofano Buonocore, regio percettore della Provincia di Lecce, al quale la corte provvide, a sua volta, a rimborsare parte del denaro tra il novembre 1743 ed il successivo aprile.

Il 12 ottobre del 1743, Josè Joaquìn de Montealegre, duca di Salas e secondo segretario di Stato di re Carlo di Borbone, comunicò a Don Antonio Castiglione, marchese e tutore dei beni allodiali della famiglia Farnese a Penne, che “avendo il Re determinato di collocare le 17 famiglie nel tenimento di Bacucco dipendente dal feudo di Penne”, lo incaricò di dare alle famiglie che si trovavano già a Brindisi “j soccorsi necessarij per il loro stabilimento, l'alloggiamento fintanto siano costruite le baracche, dove dovranno abitare”.

Le famiglie, nel frattempo, cercarono in Puglia un sito dove stare ma, dopo un'estate di grande calore e poca acqua non “piacque quella terra” e, scortate a spese della corona da Demetrio di Micheli, aiutante maggiore del Reggimento Real Macedone, insieme ai capitani Costantino Blasi (anche detto Vlasi) e Giovanni Pali  del suddetto reggimento, partirono il 28 ottobre del 1743 da Brindisi verso Pianella in Abruzzo dove arrivarono felicemente, dopo 16 giorni di viaggio, il martedì 12 novembre. 
Tutto questo emerge da una lettera scritta dal Montealegre a Don Antonio Castiglione il 15 ottobre del 1743.
Le famiglie vennero quindi sistemate in due case di proprietà della famiglia Farnese non distanti una dall'altra a fianco alla chiesa matrice di Sant'Antonio Abate.

Il marchese Castiglione emanò gli ordini opportuni, redigendo anche un “Libro giornale in cui vennero registrate le spese occorse per la colonia albanese”. Naturalmente, nell’attesa della definizione dei luoghi da coltivare non sarebbe mancato il sostentamento al gruppo: fino all’ottobre 1744 ai 18 capifamiglia sarebbe stata versata periodicamente la somma di grana 41 e 2/3 a persona per “viveri giornalieri ed utensili necessarij”.

Ma gli abitanti di Pianella avevano tentato di levarseli di torno al più presto, e al contempo, stando alle comunicazioni tra la Segreteria di Stato e i referenti sul territorio, ai greco-albanesi non piacque l'area di Bacucco; nello stesso tempo pare però che gli abitanti di Bacucco non fossero d’accordo a farsi sottrarre le poche terre coltivabili del loro territorio per condividerle con le famiglie albanesi.
A questo punto il marchese Castiglione, i capifamiglia e gli ufficiali del Reggimento Macedone che avevano scortato il gruppo fino in Abruzzo, visitarono più di una località scartando, dopo la stessa Bacucco, anche Acquadosso, Santa Maria del Poggio e Rocca; tutte rifiutate perché non ritenute fruttifere, o per "suggerimento" degli abitanti dei luoghi che non volevano condividere i loro feudi reali con i nuovi arrivati.
Sembra che non si trovassero terreni graditi agli albanesi.

Come detto gli abitanti di Pianella si opposero con decisione all’ingresso dei albanesi sui feudi rustici contigui alla loro università, presentando le proprie ragioni al sovrano ed erede dei beni di Casa Farnese. 
I Pianellesi temevano di venir privati delle quote a vantaggio dei albanesi. 
Il re, tuttavia, non volle sentire ragioni, e nella replica ai cittadini di Pianella tagliò corto, affermando che come i precedenti enfiteuti ed affittuari avevano potuto dar le terre a coloni, “così con maggior giustizia deve credersi che possa farlo il Re, nostro Signore, come padrone diretto e dispotico di detti territori col destinare alla coltura di questi le suddette famiglie di albanesi che indifferentemente considera come tutti gli altri suoi sudditi”.
Così con queste parole, il re espropriò i terreni per le famiglie albanesi.
D’altro canto, il sovrano tranquillizzò i Pianellesi che agli albanesi “saranno date le terre in riposo, che i Pianellesi non utilizzano”. 
Inoltre, il re avrebbe concesso ai Pianellesi “la facoltà di poter pascolare sui suoi terreni, di cui prima non godevano, ed inoltre quella di poter usufruire delle acque del fiume Nora che bagnano i terreni in questione.”

Inoltre sulle acque del torrente Nora insistevano alcuni mulini che spesso venivano concessi anche agli abitanti delle zone vicine.

Da una documentazione risulta che dal 24 aprile 1703 le terre di Badessa, conosciuta con il soprannome “Abbadessa”, fossero godute in affitto da tale Blasio Taddei, di Pianella; quelle di Piano di Coccia, invece, dal 1740 erano tenute in enfiteusi da tale Domenico Sabucchi. 
Sia l’uno, sia l’altro, avevano a loro volta ripartito il territorio fra diversi coloni di Pianella, dai quali percepivano un canone.

Dall’altra parte, Montealegre invitò Castiglione a persuadere gli albanesi a cedere all’ultima proposta anche perché sembrava “… improprio il trattenersi agli discorsi ed insinuazioni di persone le quali forse hanno interesse in che non si stabiliscano in quei luoghi …” 
Anche la pazienza reale aveva un limite, cosicché era il caso d’informare gli albanesi di “… quanto possa dispiacere il loro procedere a Sua Maestà, la quale poi potrebbe ritirare le tante grazie, che si degna dispensar loro …”.

Carlo di Borbone, in sostanza, impose la sua volontà a quelli di Pianella, decretando la colonizzazione intensiva di Piano di Coccia e Badessa da parte delle famiglie albanesi. 
Ma nelle parole del sovrano si scorge invero un progetto più vasto: i coloni avrebbero dovuto formare una nuova università, distinta da quella di Pianella. 
E in definitiva, secondo il sovrano di Napoli, l’operazione avrebbe accontentato tutti.

Da un censimento fatto il 13 novembre del 1743 (un giorno dopo l'arrivo delle famiglie a Pianella) si evince che la scelta dei terreni da destinare alla colonia cadde sul tenimento di Pianella e specificamente sulle località note come Abbadessa (Badessa o Badesha) e Piano di Coccia separate fisicamente dal fiume Nora. 
Piano di Coccia e Abbadessa costituivano insieme, una proprietà allodiale [ossia terre possedute in piena proprietà] di Casa Farnese contigua all’università di Pianella, “[...] un’estensione di terra in Abruzzo ulteriore, che appellavasi Abbadessa, e ch’era stata venduta da Giovanni Tedesco alla casa Farnese, ed era venuta in proprietà di esso Carlo [di Borbone] per la morte di Elisabetta sua madre, il tutto rilevandosi partitamente dall’archivio allodiale del Re. [...]”

Le famiglie erano 18 anziché 17 come si evince dalla lettera del Montealegre al Castiglione con data del 15 ottobre del 1743 con 73 persone (27 uomini, 28 donne e 18 bambini) ma mancavano all'appello i fratelli De Martino che avevano preso dalla chiesa del monastero Kremesove l'icona dell'Odigitria.
Finalmente il 4 marzo 1744 venne stipulato l’atto formale di concessione delle terre ai greco-albanesi che “si trovavano già in questa terra [di Pianella] e collocate nel palazzo della serenissima Casa Farnese sin tanto che avranno fabbricato in detti territori le loro abitazioni e non altrimenti.” 
Il rogito notarile fu redatto a Pianella dal notaio Saverio Fonso di Ortona a Mare, in casa di don Carlo de Felici, davanti ai testimoni Avenerio Pantaleone, Domenico Cipriani e Giuseppe Bernabeo e in presenza dell’Auditore Conte Don Francesco Taddei e del Tesoriere Marchese Castiglione.
Nel documento si legge come Carlo di Borbone si fosse degnato “di benignamente accogliere sotto il suo regale dominio diciotto Famiglie Albanesi venute in questo Regno nell'anno 1743, con somministrar loro li soccorsi necessari per il totale stabilimento delle medesime nelli due tenimenti detti Badessa e del Piano di Coccia [...] esistenti li medesimi nel distretto di questa terra di Pianella, e spettante alla maestà sua, come beni della gloriosa serenissima Casa Farnese, trovandosi il primo, cioè quello della Badessa querciato, vignato, olivato, e con casa rustica [...] ed il secondo, cioè quello del Piano di Coccia alborato di querce, e con casa rustica.”
L'introduzione del documento conferma che i due tenimenti di Badessa e Piano di Coccia fossero latifondi rustici disabitati, nel senso che in essi non esistevano insediamenti urbani, ma soltanto una casa rustica in ciascuno dei due.

Oltre all’assegnazione (come donazione gratuita) di complessivi tomoli 793 di terreno (circa 320 ettari) il Sovrano si impegnò a fornire alle famiglie tutto il necessario alla messa a coltura delle terre, cominciando dagli animali e dagli attrezzi agricoli, concedendo inoltre l’esenzione per 20 anni da ogni peso e censo dovuto di regola alla Casa Reale da ogni suddito.

Più volte viene precisato che oggetto della concessione colonica non erano gli interi territori dei latifondi (come avevano chiesto i greco-albanesi), ma le sole porzioni “reputate bastevoli per il loro travaglio e che da ora dette famiglie albanesi si applicano alla coltura de terreni de suddetti territori, che ritrovansi in riposo e senza semina, per proseguire dopo la raccolta di quest’anno, da farsi dall’enfiteuta, ed affittuario rispettivo delli medesimi territori, il dippiù del loro travaglio.” 
Queste porzioni sarebbero state individuate e quotizzate da periti come idonee a garantire il sostentamento degli appartenenti alle 18 famiglie. 
Il sovrano si riservò di concedere, eventualmente, altre terre ad altri coloni albanesi che fossero sopravvenuti, ovvero di assegnarle a persone diverse. 
In questo modo, venne chiarito che, al di fuori delle porzioni che i greco-albanesi fossero riusciti a coltivare, tutto sarebbe rimasto nel pieno dominio del sovrano, proprietario concedente.
Fatta una perlustrazione sul luogo, i capifamiglia albanesi designarono il luogo detto il Morrecino, in piano di Monticello, nella Badessa, come quello in cui avrebbero eretto le loro abitazioni che erano simili a quelle dell'Epiro con tetti ben visibili da tutte le alture e vallate circostanti. 
Furono erette due file di case ai lati della strada principale, che tutt'oggi si possono vedere in Via Italia. 
Le abitazioni originarie formavano casette rettangolari prolungate, mono-famigliari, soltanto il pianterreno, eccetto poche di proprietà dei notabili locali che avevano, oltre al pianterreno, anche il primo piano. 
Ciascuna abitazione aveva sul fronte strada una porta e due finestre. 
Il tetto, a due spioventi poco inclinati, coperto da un impasto argilloso di paglia e pula depositato sopra stecche di legno di quercia, canne e paglia, su cui si allineavano le tegole (in albanese qjaramìdet). 
Un tozzo comignolo all'estremità completava la casetta, cui veniva annesso un piccolo appezzamento di terreno come cortile-orticello. 
Nei tempi passati le pietre del fiume Nora e mattoni formavano le mura perimetrali della colonia.

Nel 1748 arrivarono dall'Albania cinque nuove famiglie per un totale di 23 persone e il re incaricò il marchese Castiglione di unirle alle 18 famiglie già stabilite nella Badessa e Piano di Coccia, cosicché la colonia si compose di 23 famiglie. 
Infine, per evitare ogni futuro disturbo e confusione, il 24 ottobre del 1753, il Castiglione fece riassegnare (con donazione gratuita) i terreni tra le singole 23 famiglie con l’atto formale a Pianella dal notaio Daniele Buccieri.

Che esempio di buon governo.

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