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Vi leggo il «Viaggio in Italia in seconda classe» con Paolo Rumiz

Questo diario di viaggio scritto dal viaggiAutore Paolo Rumiz, realizzato nell’estate del 2002, si racconta un esilarante, feroce viaggio in Italia nelle carrozze di seconda classe, su linee ferroviarie dimenticate, vaporiere borbottanti, motrici arrugginite, e le voci e i sapori di un paese minore troppo spesso dimenticato. 

Per una volta, ladies and gentlemen, non allacciatevi le cinture.

Si parte in treno, la cenerentola dei trasporti. 

Si fa l'Italia in seconda classe, per linee dimenticate. 

Buttate dunque a mare duty free, gate, flight, hostess e check-in.

Lasciate le salette business a parlamentari e commendatur.

Questo è un viaggio hard, fatto di scambi, pulegge, turbocompressori e carbone. 

E noi lo faremo con in tasca, un'idea corsara: percorrere 7.480 km, come la Transiberiana dagli Urali a Vladivostok.

Non sappiamo ancora dove andremo e in quanto tempo consumeremo questo buono chilometrico che nessun biglietto può contenere. 

Sappiamo solo che il nostro è un conto alla rovescia che ci obbligherà a scendere al chilometro zero.

Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia!

“Il treno si ferma in stazioncine deserte, senza capostazione, senza biglietteria. 

I banditi? No, La globalizzazione!"


INDICE DEL VIAGGIO

Ascolta i podcast dell’intero libro capitolo per capitolo

Premessa  (14:47)

Nota dell'autore (13:10)

1. Due uomini in fuga: Firenze - Civitavecchia - Olbia (10:29)

Questa è la prima tappa del viaggio in Italia in treno, realizzato dal viaggiAutore Paolo Rumiz nell’estate del 2002.

La storia comincia all'alba, nel Mar di Sardegna, con il traghetto Aurelia che si mette a vibrare dalla chiglia alla ciminiera in mezzo a nubi alte come torri e con l'odore di vernice, ruggine e salsedine che diventa odore di terra. 

Comincia con il mio compagno di viaggio che sbuca in coperta come Achab, annusa l'aria sottovento con faccia feroce, e poi si accende la pipa, cercando a occidente, nel labirinto color cenere dei Monti di Gallura, una linea nera e sottile: la ferrovia. 

Per una volta, ladies and gentlemen, non allacciatevi le cinture. 

Si parte in treno, la cenerentola dei trasporti. 

Si fa l'Italia in seconda classe, per linee dimenticate. 

E allora buttate a mare duty free, gate, flight, hostess e check-in; lasciate le salette business a parlamentari e commendatur.

Questo è un viaggio hard, fatto di scambi, pulegge, turbocompressori e carbone. 

E noi lo faremo, anche a costo di farci sbattere da una squinternata vagona baldracca, un glorioso rudere che cigola e scoreggia sulla rete di ferro, in attesa di rottamazione.


2. Sul binario illegale: Olbia - Arbatax (10:30)

Il trenino per Sassari mette in fuga fagiani e pernici, infila l'onda lunga della prateria, affonda in una trincea, ne riemerge come un u-Boot grondante sotto nubi basse, nere, quasi atlantiche, entra in solitudini peruviane, sfiora alberi di sughero, sembra la locomotiva di Garcia Marquez che spaventa gli indios in Cent'anni di solitudine.

Poi va quasi a sbattere contro montagne pietrose, le sfiora, si avvita su se stesso, sopporta curve e cambi di pendenza deliranti, impensabili nelle ferrovie del Nord. 

Non taglia il paesaggio, vi aderisce.


3. Un capolavoro italiano: Arbatax - Cagliari (10:56)

Arbatax, notte lunga di streghe, pioggia e fulmini sul mare. 

Poi un'alba nitida, spettacolare, con Arzana e Lanusei che luccicano sui monti come fioche nebulose. 

Noi si va lassù, sui picchi più misteriosi della Sardegna. 

Liberi per davvero, senza controlli, metal detector, passaporti o forbicine da consegnare. 

Mettiamo gli zaini accanto alle rotaie, siamo vagabondi da Nuova Frontiera. 

740 fuma la pipa e recita: "a piedi e a cuor leggero mi avvio per la strada aperta / sano, il mondo davanti a me". 

È di Walt Whitman, altro adoratore di ferrovie, amico di "musi neri" e notturno frequentatore di binari dimenticati. 

Passo in rassegna la bisaccia di 740, per capire qualcosa di lui. 

Trovo due orari ferroviari, l'ultimo numero di "Tex Willer", una pipa, una miscela dolce di tabacco, un libro del primo Tabucchi, liquirizia, tre penne nere sottili, un blocco di strane note su un caso giudiziario, cinque quadernini per i primi appunti vagabondi, un vecchio registro ferroviario a copertina rigida dove riordinare il tutto. 

740 lo chiama canovaccio; anzi "canovaggio", a far rima con viaggio.

E poi un piccolo registratore per andare a caccia di voci, suoni e rumori. Cominciano gli intoppi: ci avvertono che la vaporiera si è rotta, una mitologica 402 delle Officine reggiane. 

Ma fa niente, questa è una linea che si fa perdonare.


4. Nel grande Sud: Cagliari - Trapani - Aragona (10:54)

A Trapani lo sbarco avviene al mattino in un controluce violento, davanti ai palmizi. Il traghetto vomita Tir carichi di giostre, c'è un circo intero che sbarca tra auto gonfie di bagagli; pagode, istrici semoventi.

Il lungomare è ventoso, cariato come quello dell'Avana; lo presidiano l'inevitabile Garibaldi, che qui troneggia sopra un leone di bronzo, e il busto defilato di tale Nunzio Nasi, voluto da "Trapani fedelissima".

Comincia il grande Sud: cani liberi, una farmacia a ogni angolo, caldo tunisino. Odore di pane buono, pane italiano. 

In cerca di un caffè aperto, passiamo davanti al terminal Alitalia, sfiorando con gli zaini i passeggeri insonnoliti che aspettano il bus per punta Raisi. 

Hanno scelto l'aria per viaggiare, ma in quell'istante il traghetto veloce per Ustica, dove un jet di linea fu centrato da un missile, passando lì davanti ci indica i cieli insicuri di un paese a sovranità limitata. 

Eccolo, il grande inizio. 

Una stazione di risorgimentale con dopolavoro, mensa e giardinetto curato, ben piantata verso il sole che sorge.


5. Le stazioni fantasma: Aragona - Agrigento - Catania (10:06)

L'Agrigento-Catania frena sotto le stelle, scivola accanto a una stazioncina buia di nome Agira, rallenta, si ferma, spegne i motori, diventa un'ombra nera nella prateria. 

C'è una luce rossa sulla linea, bisogna aspettare. 

A quest'ora, se fossimo davvero sulla transiberiana, un inserviente tettona con i capelli raccolti a bulbo ci porterebbe una vodka.

740, il compagno sconosciuto, fa il conto dei chilometri percorsi: oltre 2.000, con i traghetti.

Come dire che abbiamo passato Novosibirsk e ci avviamo gloriosamente verso Krasnoyarsk e le prime montagne dell'Asia. 

Grilli, silenzio, delizia orientale. 

Scende la notte e mi appaiono una mezzaluna turca, una bici e una birra imperlata. E’ il paradigma della Trieste-Istanbul.

Quel viaggio su due ruote del 2001 mi perseguita, ne vivo il confronto in ogni riga del mio notes.

Mi dico che non poteva esserci viaggio più perfetto. 

Ma è un attimo, perché la meraviglia dell'attimo presente vince sul ricordo: oltre la penombra delle colline, oltre la prima luminescenza dei paesi, immensa, fosforica nel cielo viola, compare un'altra fantastica icona. 

L'Etna, il Dio Vulcano.


6. Sotto il vulcano: Catania - Randazzo - Catania (11:04)

La motrice che fa il giro dell’Etna non è una bomboniera per turisti.

Si chiama Imba, ed è sgangherata e ruspante come un bracco pulcioso carico di gloria dopo una vita a caccia di lepri.

Parte dalla città alta tagliando il pendio vulcanico con perfezione euclidea, e poiché quel pendio è pieno di case, eccolo che sfiora terrazze, lambisce panni stesi, accarezza donne in vestaglia, urta pignatte che sfrigolano, getta occhiate indiscrete su vasche da bagno o camere da letto.

E’ una Spaccanapoli, con in più gli alberi di fico.

Ma a un tratto tutto cambia e la città inclinata diventa la città detritica.

Si entra in un labirinto di pietre laviche, discariche, fichi d’India, case non finite, buganvillee, sfasciacarrozze, immondizie.

Eppure, nonostante tutto, che meraviglia.

Becchiamo fotogrammi irripetibili.

Specie quando il treno punta verso la cima, buca una massa di lava e ci mostra, tra due muraglioni neri come la pece, le nevi dell’Etna in fondo al binario.


7. Il treno delle donne: Catania - Soveria Mannelli (11:14)

Ore 9.47, partiamo tra i limoni, sulla costa più bella del mondo, in un mare greco, ventoso, zincato, abbacinante nel controluce del mattino.

Messina, corsa disperata verso i traghetti prossimi a salpare, deglutendo l’ultima arancina al ragù, e sulla battigia il passeggero diventa subito un osso da spolpare.

A Reggio incrociamo un camion gigantesco, porta un vagone della metropolitana miliardaria di Catania.

Ore 11.40, via per le terre estreme, in uno scompartimento vuoto e rovente, senza l’acqua nelle toilette.

Locri, stazione di Locri.

Da un condominio orrendo sopra i binari, studenti mangiano arance e buttano sghignazzando le scorze sulla ferrovia.

Constatiamo di viaggiare in una pubblica discarica che nessuno spazza, se non il treno medesimo.

Il quale si rivela una grande macchina della verità: entrando nei luoghi sempre dal retrobottega, li svela impietosamente.

Per capire l’Italia, basta davvero un finestrino.


8. L'ultima Roncisvalle: Soveria Mannelli - Camigliatello - Cosenza - Salerno (10:44)

Camigliatello, quota 1.300, boschi svizzeri con vista sui laghi.

Tra quei boschi, la ferrovia più pazza d’Italia scende dalla Sila Grande come una bava di lumaca, a volute larghe, traslucida nella bruma.

Aspettando in uno chalet, 740 fa colazione con uova e salame.

Si va, la motrice delle Ferrovie calabre chiama, il suo fischio pare l’ultimo grido di un animale.

Si sbarca a Cosenza centro, il treno non prosegue per l’aggancio alla rete di stato.

Al terminal Fs capiamo tutto.

Una cattedrale nel deserto.

Nuovissima e già a pezzi.


9. Nella città termitaio: Salerno - Napoli e Circumvesuviana (11:11)

Salerno, sei del mattino.

E’ l'ouverture della tarantella ferroviaria napoletana.

Un merci, che sbuca lentissimo dal porto nel silenzio del mattino, carico di container.

Emette un suono siderale, un coro soprannaturale  di cigolii.

Si va, Napoli ci mette fretta, non sappiamo se stiamo inseguendo o siamo inseguiti.

Il locomotore perfora la Penisola sorrentina, si riaffaccia sulla spiaggia “nira nira”.

Il paesaggio è una favola, il vantaggio sull’autostrada incomparabile.

Siamo sulla più antica linea d’Italia: la Napoli-Portici, che vola su sei milioni di abitanti, entra in un territorio infinito, scopre il segreto della città verticale.

Da una parte, sul lato mare, torri, montagne, pinnacoli di uffici della City partenopea.

“Un biglietto per Poggiomarino via Torre Annunziata, prego.”

Quello oltre il vetro: “Se vuole, c’è il biglietto unico”.

Cominciano le sorprese della Campania, la regione a più alta densità ferroviaria d’Italia.

“Unico” è la carta passe-partout regionale, ed è una goduria comprarla.

E’ il primo segno di Europa dopo duemila chilometri clandestini.


10. Le terre di mezzo: Napoli - Avezzano - Sulmona (11:39)

Nubi, notte che viene, villaggi sparsi, un grande silenzio.

Il bruco luminoso si inclina come un aereo, cerca il punto di minore resistenza nell’osso dello Stivale, tra il Sirente e la Montagna Grande.

Poi perfora la parte più segreta delle Terre di Mezzo, entra in galleria verso Sulmona.

L’autostrada ci corre accanto, salta gli avvallamenti, ma noi siamo meglio, il nostro treno segue l’orografia dell’Italia profonda con la fedeltà di un vecchio ormografo.

Tramonta, è la Piana del Fucino, ora siamo dentro l’Appennino.

Ad Avezzano nuova coincidenza, c’è il Roma-Pescara che arriva dopo aver circumnavigato i Simbruini lungo la Tiburtina-Valeria.

Scende da Tagliacozzo, dove fu ammazzato Corradino di Svevia.


11. Blues del treno lento: Sulmona - Castel di Sangro - San Vito Marina (10:19)

La clandestinità ci serve ancora in questo viaggio tra rami secchi e linee minori che è un’operazione rivoluzionaria.

A caccia di un’Italia minore che scompare.

“Il locale per Campo di Giove, Roccaraso, Castel di sangro, Isernia è in partenza al binario 3.”

E’ il nostro treno, e la voce dell’annuncio ha un’eco particolarissima nella conca di Sulmona.

Rivela la straordinaria dimensione acustica delle Ferrovie.

Gli annunci dei treni hanno un sapore speciale.

Il bello degli Appennini è che non senti altro rumore che il treno.

Il nostro, che va a Castel di Sangro, la linea più alta d’Italia dopo il Brennero, 1.260 metri - attraverso un silenzio così totale che senti ogni cosa della sua vita interna: le bielle, il motore, lo spiffero, le ruote, le sospensioni, il colpo tra le rotaie.

Il treno compie arcane circumnavigazioni, scava un mezzacosta ventoso, ci porta in quota fin dentro a un faggeto immenso, sotto la Maiella che strapiomba.

Poi corre di nuovo sul velluto, fra prati e greggi, fin dentro la piana delle Cinquemiglia, chiusa dalle montagne, punto culminante del viaggio.

A Castel di Sangro si cambia.

Caldo, cicale inferocite dal sole.

A Santa Maria ci fanno scendere.

La linea è bloccata da una motrice guasta, e con perfida premura, soccorre i naufraghi una corriera sostitutiva.

Per noi, il trasloco è un’umiliazione, una resa.

Si finisce alla stazione di Lanciano, a dieci chilometri dal mare, l’Adriatico non arriva davvero mai.


12. La jazz-band su rotaia: San Vito Marina - L'Aquila - Foligno (10:31)

Immaginate una littorina che diventa orchestra dixieland, vola sulle montagne al suon di La stangata, batte il tempo e sculetta.

Comincia all’alba, con una tremenda voglia di mare.

Ma cosa c’è in Abruzzo fra te e il mare?

Il treno, maledetto lui.

La linea adriatica, dritta, indefettibile.

Senza contare la statale e una muraglia cinese di case private.

Cerchiamo un sottopasso prima che raccoglitori di asparagi, bagnanti e vucumprà vadano all’arrembaggio dei binari.

La bigliettaia della stazione di San Vito scherza con tutti, da dietro il vetro.

E’ una delle ultime in Italia capaci di fare il biglietto a mano.

Senza computer, tutto è più semplice.

Non importa se chiedi coincidenze strane, basta fare la somma dei chilometri.

Così, per una volta, la rete ci accetta come siamo: viaggiatori.

E via a centocinquanta orari verso Pescara, di nuovo sulla Lunga Italia, letteralmente a filo d’acqua.

La linea per L’Aquila è del 1875, passa per foreste antichissime, sfiora vecchi ponti a schiena d’asino, scavalca un fiume gonfio, verde e regolare.

Sella di Corno, quota 1005, la jazz-band entra nel Lazio, affronta la discesa.

La motrice si inclina, curva sopra Antrodoco accanto a un’enorme scritta DUX sulla montagna, scende verso Rieti, si infila in gole boscose di una bellezza incomparabile.


13. Eurostar, la vendetta: Foligno - Faenza - Firenze (10:19)

Ma un Eurostar, avevamo giurato all’inizio.

Mai treni con finestrini sigillati.

E fatalmente il Roma-Ancona, arrivando a Foligno, punisce la nostra resa con quindici minuti di ritardo.

Così, senza scuse, con spocchia aerodinamica.

Pioviggina, inizia un viaggio surreale.

A Jesi sostiamo accanto a un altro Eurostar, ovviamente identico, che va nella direzione opposta.

Penso che in certi casi il verbo “andare” andrebbe declinato al passivo.

Certi viaggiatori non “vanno”, ma “vengono andati”.

La prova?

Il nostro treno-supposta passa luoghi leggendari, ma nessuno guarda fuori.

A Jesi, in piazza, fu partorito Federico II di Svevia, ma il popolo dei santi e navigatori lo ignora e non sa collocarsi nello spazio.


14. La signorina a vapore: Firenze - Siena - Monte Amiata e ritorno (10:23)

Firenze-Deposito, notte fonda.

Passiamo i binari nella pioggia come curdi in fuga.

Siamo anche vestiti da clandestini, con roba acquistata da vucumprà.

Il mio compagno è in calore, vuole la nera 640, numero 148 di serie, che lo aspetto ansimando piano sotto la pioggia, come Lili Marlene accanto al lampione.

Albeggia, si passa davanti alla cabina-apparati, la torre di controllo delle Ferrovie.

Urlo nel vento umido a 740: com’è l’alba?

Lui: “Lattiginosa!.

E la locomotiva?

“Corrusca e fumida!”

E il cuore?

“Vola oltre l’ostacolo!”

Adesso si stantuffa bene, ma prendere appunti in bilico fra la locomotiva che ti sbatte e il tender che si agita è una scommessa: dopo cinque minuti il mio taccuino è un impasto di pioggia e fuliggine.

E siamo già a Prato, dove ci si aggancia a un convoglio di gitanti su sei vagoni Belle Epoque con sedili di legno.

Una scampagnata romantica, come ad Arbatax sui monti della Sardegna.

Ma che delusione.

Siamo nel paesaggio più straordinariamente italiano d’Italia e l’altoparlante, invece di spiegarcelo, ci propina un’atroce musica americana anni cinquanta.

Risultato, i gitanti chiacchierano, i bambini digitano sui telefonini, altri fanno merenda, tutti sono indifferenti al paesaggio.

Ecco, l’Italia è anche questo.

Gente simpatica e bambini grassi che viaggiano senza sapere dove sono, a bordo di un treno caciarone, dove la musica è scritta da altri.

Ma che posso farci, this land is my land.

Nel bene e nel male, è la mia patria.


15. Ground Zero in galleria: Firenze - Pistoia - Bologna - Parma (11:01)

Per toglierci di dosso duecentoventi chilometri di pioggia e carbone non ti basta una doccia sola.

Eravamo impregnati dentro.

La Signorina ci aveva distrutti.

Paolini è più felice di un bambino; ha trovato il “muso nero” che è in lui.

Il mostro freddo ringhia, è un parallelepipedo corazzato, maschio.

Ha anche un dannato profilo bellico.

Al punto che sui due musi simmetrici del 428 Prima Serie intuisco, inconfondibile e ovviamente volitiva, una replica della mascella del Duce.

L’avrete capito.

I locomotori sono figli del fascismo: del tempo, cioè, in cui l’Europa ci negò il carbone e l’Italia fu obbligata, in anticipo su tutti, a scegliere l’elettrificazione della rete.

Poi l’autarchia finì in tragedia, con i soldati in treno che andavano a morire.

Ma i mostri elettrici rimasero, insuperati.


16. Il treno a filo di mare: Parma - La Spezia - Ventimiglia (11:07)

Altro che Genova.

I veri no global sono loro, i vecchietti terribili di Parma.

Li vedo uscendo dalla stazione, dal treno che ci porta in Liguria.

Hanno occupato le “terre di  nessuno” ai lati della ferrovia e le hanno trasformate in orti: piselli e rucola, scalogno e cipollotti, fave e zucchini a trombetta.

I politici li odiano, vorrebbero cacciarli.

Ma loro sono organizzatissimi, sindacalizzati, difendono il territorio come vietcong e hanno un’energia bestiale.

Sono lì al mattino presto, in canottiera: zappano, irrigano, partono in bici con il cesto pieno di primizie.

E la sera vanno in balera a caccia di tardone.

Noi invece siamo distrutti, su questo treno per La Spezia popolato di stranieri di colore.

La Transiberiana si fa in cinque giorni, noi siamo in viaggio da sedici.

Mollo lo zaino in deposito, scendo sul mare.

Pranzo al nero di seppia e il cameriere mi spiea che è così solo in alta stagione, il resto dell’anno la Liguria è ostaggio dei pensionati, diventa un’immensa baia della tranquillità.

Torno in stazione e scopro che d’estate i vecchietti terribili non scompaiono affatto.

Semplicemente arretrano, sulla linea ferroviaria.

Stanno sempre nei posti migliori, e in agosto il posto più fresco e tranquillo è proprio la stazione.

Che le manca?

Nulla.

Ha il gazebo, le palme, le panchine, il bar, la brezza di montagna.


17. A dorso del treno-mulo: Ventimiglia - Cuneo - Asti (11:37)

Montagna, nubi nere.

La Costa Azzurra scompare, e subito la bestia su rotaia cambia natura.

Dopo la baleniera nel mare appenninico, il bruco delle gallerie elicoidali e la lanterna magica delle notti stellate, ecco il treno che diventa mulo.

Sale nervoso, a strattoni, entra il temporale, taglia con pazzeschi mezzacosta rocce verdi e rosa, si aggrappa al nulla, si intreccia al fiume gonfio che scende dal Col di Tenda attraversando un pezzo di Francia.

Curve assurde, ponti disegnati da un pazzo.

E’ come un pentagramma questo capolavoro italiano.

Ma la vecchia linea è cambiata: l’abbandono della montagna l’ha cosparsa di impercettibili segni di collasso.

il tunnel buca l’osso delle Alpi, va dritto come una spada per nove chilometri.

Guardo a questi grandiosi manufatti come alla piramide di Cheope, il relitto di una civiltà scomparsa.

Non ne capisco più il senso.

Eppure la galleria, con il suo doppio binario, parla chiaro.

Non c’erano né Maastricht né Schengen, ma le Alpi erano vive.

Fra un treno e l’altro, nel tunnel passavano cantando i carrettieri, con le torce accese.

Anche d’inverno.

Il fischio del treno raggiungeva ogni sperduto paese.

Poi venne il boom economico, la gomma e la dismissione delle linee.


18. La Padania a zig zag: Asti - Torino - Pavia - Mantova (10:48)

Dodici treni, cinquecento chilometri, uno slalom, fra i temporali.

Cominci la giornata più lunga del viaggio, zigzaghiamo come palline da flipper nel grande vuoto della Padania in ferie.

Gli unici viaggiatori sono quelli che mandano avanti l’Italia mentre noi mettiamo le chiappe al sole: gli immigrati.


19. Treni dell'altro mondo: Mantova - Monaco (11:15)

Mantova, caldo bestiale.

Il capotreno del locale per Verona fora i biglietti cantando un liscio.

“Che voce”, lo elogia Marco-740.

E lui, confidenziale: “E’ roba da palati fini”.

Il titolo? “Caparbio, dell’orchestra Baiardi, uno che ha lavorato cinque anni con Casadei”.

Gli chiedo come va.

Lui: “Meno male che vado in pensione” .

Che succede?

“La rete muore. Guardi il raddoppio della della Verona-Bologna. L’ero putelin a scola e l’era de finir. Vado in pension e l’è ancora de finir.”

Poi riparte cantando tra gli scompartimenti.

Quando una Luna inonda Porta Nuova di luce azzurrina e il silenzio scende sulla rete, risentiamo passare gli ebrei diretti ad Auschwitz.

Stessi cigolii, tonfi, odori.

Tutto pare successo l’altro ieri, il tempo sembra fermarsi.

Ed è strano.

Viaggiamo da diciannove giorni appesi alla tirannia di un libretto orario, ma le ore non hanno più senso per noi.

Poi è un’alba con falegnamerie, mucche pezzate, campanili a cipolla.

Le valli cupe finiscono, il treno accelera verso l’Isat, sente profumo di Weisswurst e giornali appena sfornati. 


20. Bella e impossibile: Monaco - Treviso - Mestre (10:58)

Durissima tornare in Italia dalle ovattate Ferrovie tedesche.

Ora vediamo tutte le strozzature del sistema.

Da Verona a Monaco viaggiano lunghissimi treni di merci italiane dirette all’Est.

A Verona, rientriamo nell’imbroglio: di nuovo una stazione che tenta di somigliare a un aeroporto.

A Monaco ho scoperto che le Ferrovie tedesche vendono biglietti chilometrici.

Perché in Italia non si può?

Perché noi abbiamo dovuto comprare trentacinque biglietti a testa, con un totale di tre ore di code?

Come viaggerebbe oggi Goethe se volesse tornare nel paese dove fiorisce il limone?


21. Sogni al capolinea: Mestre - Villaco - Jesenice - Gorizia (11:17)

Siamo alla fine, al Mar del Giappone mancano solo trecentosettantasei chilometri.

Come costruire un epilogo del viaggio?

Facciamo un po’ di conti su una panchina della stazione di Mestre, in mezzo a spaventose correnti d’aria e a folle transito.

Finora abbiamo obliterato 76 biglietti, preso 58 treni, viaggiato 210 ore, incluse le attese nelle stazioni.

Dagli Urali a Vladivostok il treno impiega 120 ore e 45 minuti: noi siamo stati molto più lenti.

Ma in compenso il nostro treno ci ha ridisegnato l’Italia.

Ci ha mostrato il meglio e il peggio del paese.


L’AUTORE

Paolo Rumiz, nato a Trieste il 20 dicembre 1947, è un giornalista, scrittore e viaggiatore italiano.

Iniziò come inviato speciale del Piccolo di Trieste, e in seguito divenne editorialista de la Repubblica.

Molti dei suoi reportage narrano i viaggi compiuti, sia per lavoro che per diletto, attraverso l'Italia e l'Europa.

Nell'estate del 1998 pedala in bicicletta da Trieste a Vienna, in compagnia del figlio Michele; in seguito pubblica il reportage “Dove andiamo stando?”, su Diario, nell'autunno 1998.

Nella primavera del 1999 esplorò le regioni della costa adriatica italiana in automobile, da Gorizia al Salento, pubblicando poi il reportage “Capolinea Bisanzio”, su Repubblica; nell'inverno del 1999 percorse in treno la tratta Trieste-Kiev (L'uomo davanti a me è un ruteno, pubblicato sul Piccolo nello stesso anno); nella primavera 2000 si imbarcò sul Danubio a Budapest per arrivare al confine tra Serbia e Romania (Ljubo è un battelliere, inserito in “È oriente” del 2003); nell'inverno del 2000, ancora in treno, da Berlino a Istanbul (“Chiamiamolo Oriente”, pubblicato su Repubblica); nella primavera 2001 girò il Nord-Est in bicicletta, da Trieste al Gavia (“Il frico e la jota”, inserito in “È oriente” del 2003).

Da qualche anno fa un viaggio ogni estate, in agosto, raccontandolo di giorno in giorno, su Repubblica.

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