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La Via Italiana della Seta


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Storia della Seta e Sicilia 

Calabria: Catanzaro

Napoli e la Real Colonia di San Leucio città della seta

Le Città del Centro Nord


Quanti sanno che in tempi remoti l’Italia ebbe la sua personale Via della Seta da Sud a Nord, una fiorente produzione della Seta e che fece la storia anche della produzione europea?

Quello che segue è un itinerario storico certamente non esaustivo delle città italiane legate alla produzione della Seta; volesse il cielo che si riuscisse a creare un’associazione per la mappatura e la messa in rete delle città che hanno fatto la storia della Via della Seta Italiana


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Un po’ di Storia della Seta


Un vero rompicapo per gli storici è il problema delle origini della produzione della Seta e della sua successiva diffusione in Italia ed Europa per la quale c’è chi propende per la matrice Araba, chi per la Bizantina e chi per la Normanna.


Ma la stessa origine dell'allevamento del baco da seta si perde nella leggenda. 

L’unica cosa certa è che la sericoltura, ossia l’allevamento dei bachi da seta per la produzione di seta grezza, sia un’invenzione Cinese.

In uno dei libri di Confucio si trova ricordata una tradizione secondo la quale un'Imperatrice Cinese, avrebbe insegnato ad allevare il baco da seta e ad estrarre la seta dal bozzolo, più di 2600 anni a. C.; per questo beneficio recato al suo popolo fu divinizzata ed adorata come Dea della Seta. 

Secondo uno storico Cinese, invece, in un tempo ancora più remoto, nel 2900 a. C., la seta era già adoperata per fare le 36 corde del liuto

Certo è che l'uso di allevare il baco, in Cina, fu sempre tenuto in grande onore presso la Corte Imperiale e dalla Corte fu diffuso ed insegnato a tutto il popolo. 

Si ha ragione di ritenere, altresì, che i Cinesi fossero gelosissimi di questa loro coltura e cercassero con ogni mezzo di conservarne il segreto

Ciò nonostante, nel sec. IV dell'era volgare, una Principessa che andò sposa al Re di Kothan (oggi Turkestan Cinese), per non rinunciare al suo abbigliamento, portò fuori del suo paese, nascoste nei capelli, le uova del prezioso insetto, che poi passò in India e quasi contemporaneamente nel Giappone.


I Greci e i Romani dei primi secoli dell'Era Cristiana adoperavano la seta senza conoscerne l'origine.

Si sapeva che quel tessuto veniva da una non ben precisata terra dei Seri (chiamarono infatti i Cinesi "Seres", dal greco seres che significa seta), ma non se ne conosceva l’origine. 

Sta di fatto che la Seta non era portata a Roma direttamente dai Cinesi, ma vi arrivava con l’intermediazione dei Parti, prima, e dei commercianti di Palmira e Petra poi, trasportata via mare dai marinai di Antiochia, Tiro e Sidone; la comperavano dai mercanti, pagandola a peso d'oro.


Le spedizioni in Oriente promosse dall'imperatore Marco Aurelio a partire dal 160 d. C. per carpire il prezioso segreto non riuscirono nell'intento.


L'introduzione in Europa della coltura del filugello [altro nome del baco da seta] si deve a 2 Monaci dell'ordine di San Basilio, i quali, essendo andati come missionari in India, spintisi fino in Cina, al loro ritorno nel 551 d. C. si presentarono all'Imperatore Giustiniano narrandogli di aver visto che la seta era prodotta da alcuni animali e di aver appreso il modo di allevarli. 

Persuasi dall'Imperatore, con promesse e preghiere, ritornarono sui luoghi, e riportarono a Bisanzio le uova del baco da seta, nascoste entro il cavo dei loro bastoni di bambù. 

Queste uova furono covate nel letame, e in primavera si svilupparono i bacolini, che, nutriti con foglia di gelso, compirono regolarmente il loro sviluppo. 

Così la bachicoltura in Europa era incominciata, poi da Costantinopoli si diffuse nella Grecia, e di qui in Italia. 


Fu così che, in Grecia e nelle città dell'Italia meridionale di diretta influenza Bizantina, alla fine dell’anno 800 (IX secolo) furono organizzati i primi allevamenti.

Sempre nell’anno 800 (IX sec.) gli Arabi, dettero nuovo incremento alla sericoltura in Persia, Spagna e Sicilia


Comunque dal 1100 (XII secolo) l'Italia si attesta come la maggior produttrice europea di seta.


Quindi tutto ha inizio dal Meridione d'Italia, a partire dalla Sicilia e dalla Calabria che erano particolarmente rinomate per la lavorazione della seta e che subivano maggiormente gli influssi provenienti da Oriente: la Sicilia in quanto era stata islamica, mentre la Calabria faceva ancora parte dell'Impero Bizantino.



Per quanto in molti trattati la diffusione della bachicoltura nel nostro paese venga attribuita a Ruggero II Re di Sicilia, nella prima metà del 1100 (sec. XII), pure è certo ormai che esistesse nella provincia di Avellino già nel 1036, ma comunque è certo che nel Sud Italia promotore della diffusione furono gli Spagnoli con il Regno delle Due Sicilie.


La diffusione in Sicilia, sarebbe comunque avvenuta attorno all'anno 1000 durante il Regno di Ruggero II d’Altavilla, anche se una delle testimonianze più antiche dell’arte della Seta realizzata nella Fabbrica Reale di Palermo (laboratorio in cui lavoravano, oltre a operai della seta, orefici e gioiellieri) riporta una datazione anteriore: si tratta del “mantello dell’incoronazione” del Re di Sicilia Ruggero II, oggi esposto presso il Museo Imperiale di Vienna che riporta la seguente iscrizione ricamata sull’orlo: 


«Lavoro eseguito nella fiorente officina reale, con felicità e onore, impegno e perfezione, possanza ed efficienza, gradimento e buona sorte, generosità e sublimità, gloria e bellezza, compimento di desideri e speranze, giorni e notti propizie, senza cessazione ne rimozione, con onore e cura, vigilanza e difesa, prosperità e integrità, trionfo e capacità, nella Capitale di Sicilia, l’anno 528».


La produzione della seta fioriva già fin dalla dominazione Bizantina, il baco da seta, infatti, che fu introdotto da Giustiniano I in Europa, e grazie a Re Ruggero in Sicilia, come detto, trovò in Sicilia un terreno fertile per la ricchezza e l’abbondanza di gelsi.


La seta che non veniva esportata grezza era destinata alle Botteghe di Filatori e Tessitori delle uniche 3 città isolane, Messina, Palermo e Catania, a poter effettuare le fasi successive del ciclo produttivo. 

I maestri tessitori, con la loro arte, davano vita ad abiti preziosi, velluti che rivestivano sedie e divani, tessuti utilizzati per i paramenti sacri.


In particolar modo, una città siciliana su tutte beneficò dei frutti del commercio serico, Messina che, nel 1591, pagando una somma di 583.333 scudi, ottenne dal Governo Spagnolo il privilegio di accogliere per certi periodi di tempo il Viceré insieme alla sua Corte; ma soprattutto le fu concesso il monopolio commerciale di tutta la seta prodotta, sia grezza che lavorata, nel territorio compreso tra Siracusa e Termini.

In questo modo, la città divenne snodo importantissimo del commercio internazionale di seta: mediante l’intermediazione degli armatori locali e dei mercanti genovesi e toscani, in seguito, di quelli francesi e inglesi, la seta prodotta in Sicilia approdava a Livorno, Genova, Marsiglia, da dove in gran quantità veniva esportata anche fino a Lione, e Londra. 

La presenza di mercanti Toscani, Veneziani, Genovesi, Fiamminghi, Francesi e Inglesi, quindi lo sviluppo di una dimensione internazionale, favorì la crescita del tessuto politico ed economico cittadino.

Tanti erano i privilegi e le prerogative che la Città dello Stretto riuscì ad ottenere che fu definita “una Repubblica dentro al Regno”.


Se Messina diventava la capitale della gelsicoltura, fu  a Palermo che i Musulmani introdussero la gelsi-bachicoltura, già nel 1200, in un territorio meglio predisposto ad accogliere tale coltura generando, nel tempo, quella crescita che permetterà alla Città Peloritana, alla fine del 1500, di imporsi in questo settore

Il prodotto, una volta “tratto” grezzo “a matassa”, era in gran parte destinato ad entrare nei circuiti commerciali internazionali dove, fino a tutto il 1600, era fortemente richiesto: addirittura, bisogna pensare che alla fine del 1600 (XVII secolo), a Lione, la più importante città europea per la manifattura serica, oltre un quarto delle sete lavorate erano importate dalla Sicilia.


Catania, infine, si distinse per una seta morbida, resistente e di lunga durata, prodotto tra le eccellenze siciliane che dava lavoro a 1 abitante su 10. 

Il Governo, nel 1727, istituì a Catania come a Messina, il “Consolato della Nobile Arte della Seta” per privilegio di Carlo VI Re di Sicilia; in quegli anni i Consolati ricoprono un ruolo di rilievo, controllando la qualità dei prodotti, ma influenzando anche la vita politica ed economica dell’isola.


Nel 1800 a Catania ci furono diverse fabbriche che lavoravano e producevano la seta, tra le quali non si può non menzionare Palazzo Auteri, una tra le più importanti seterie italiane che produceva tessuti pregiati e arricchiti da fili d’oro e d’argento.


Altro nome importante Don Alvaro Paternò che gestiva un’attività con oltre 100 operai che grazie al Re Filippo IV, poterono utilizzare il telaio Francese Jacquart uno tra i principali attrezzi che venivano utilizzati per la filatura. 

Secondo Paternò Castello di Carcaci, nel 1841 a Catania «i drappi che si smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per ognuna, i telai che li lavorano 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la seta che vi si impiega a libbre 112.840».


Il commercio della seta in Sicilia, come accennato prima, era regolato dai Consolati della seta di Messina, Catania e Palermo e molte furono le contese nel corso degli anni per il monopolio della seta tra le 3 Città, ma nel 1776, Acireale, di antica tradizione, si candidò a divenire anch’essa Consolato per lavorare in proprio la seta la cui produzione avveniva in gran parte nel quartiere de’ “Manganeddi”. 

Le 3 Città monopoliste però si opposero alla candidatura. 

Le cose cambiarono soltanto nel 1781 quando fu abolito il Decreto che limitava l’esercizio alle sole città del Consolato. 


Ma la filiera virtuosa legata alla seta, che aveva fatto la fortuna della Sicilia e soprattutto di Messina, era destinata ad entrare in crisi nel 1674, quando gli Asburgo decisero di castigare Messina, poiché era insorta, privandola dei privilegi di cui la città aveva goduto per oltre 80 anni (sin dal 1591).

Alla fine del 1700 (XVIII secolo) l’industria serica decadde nell’isola e dopo il 1850 la produzione perse ogni valenza fino a scomparire, volgendosi lo sguardo verso altri settori: zolfo, vino ed agrumi.


Catanzaro, nel suo nome il segreto della seta


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Già intorno al 1050, la produzione della Calabria contava 24.000 gelsi coltivati per le loro foglie e il loro numero tendeva ad espandersi.


«Hora godendo Catanzaro una perfettissima quiete diedesi alla coltura delle piante sudette, appellate Celsi, o come altri dicono Mori, e col beneficio dell'acque, che l'irrigavan, crebbero in breve con le foglie poi delle quali comincionsi a nutrir il Verme; indi da gusci del detto a cavar nell'acqua bollente la seta; con la pratica d'alcuni Orienteli nella Città commoranti imparando molti la testura di quella, ne fecero drappi di varie sorti; onde in modo vi si stabilì l'Arte»


(Vincenzo D'Amato, Memorie historiche dell'illustrissima, famosissima, e fedelissima città di Catanzaro, 1670)


Sulla base di questo testo, si ritiene che l'arte della seta sia stata introdotta a Catanzaro nel 1072, da una Casta di Orientali che abitava la Città. 

Secondo una tradizione catanzarese, sia il gelso che il baco sarebbero stati introdotti proprio in quel secolo che vide la nascita della città e alcune ipotesi fanno derivare il nome stesso della Città dal termine "Katartarioi" ovvero "filatori di seta"; o anche Katantzárion, che potrebbe essere fatto risalire al verbo greco katartizen, il cui significato è "preparare", "confezionare" ed anche "lavorare" e denota chiaramente l'azione che appartiene ad un qualche processo preparatorio, con riferimento ad un luogo "segreto" (ant) "posto sotto" (katà) "le terrazze" (anzar) "di un monte".


Infatti Catanzaro fu una città che lasciò “penetrare” la campagna fin nel centro urbano, con grandi giardini privati che a tutt’oggi rimandano al toponimo di “Kata-Antsarion” ovvero “la città sui giardini fioriti”, con siti terrazzati fioriti e coltivabili fra le sue mura (intra moenia). 

Le zone della città in cui si svolgeva la coltivazione dei gelsi con “terrazzamenti naturali” era posta dove ora si trova la “Villa Margherita” con i suoi giardini pubblici, che non era altro che una campagna terrazzata atta alla coltivazione di alberi da frutta e moltissime piante di gelso.


Le piante di gelso, fondamentali per nutrire i bachi da seta, venivano coltivate anche in altre zone della Città come ad esempio la “Vallotta”, una valle piena di alberi ove esisteva una fonte/sorgente detta del “Tubolo”. 

Altre coltivazioni si trovavano nella zona del centro storico: la “Grecìa”, sino alla zona del “Carmine” e di “Santa Barbara”, questi alcuni dei luoghi e come si è specificato prima, zone composte da orti, da giardini pieni di alberi da frutta, di vallette, di terreni terrazzati ricchi di acque, volutamente scelti per un’ottima coltivazione, ma anche punto di forza per poter resistere in caso di assalti e preservare lo stesso “Castrum”

La presenza del verde non era, deputata al solo scopo ornamentale, ma anche come “forza” economica. 

Vi erano inoltre stanziamenti di diverse etnie di origine “Greco-Bizantina”, più precisamente nelle zone del “Carmine”, “Vallotta” e “Villa Margherita”; al centro Città nei pressi di Palazzo Fazzari c’era il “quartiere Ebraico”, all’altezza del quartiere S. Angelo risiedevano Amalfitani e Siculi, ognuno occupando un settore diverso nell’arte della seta, ove su tutti sovrintendevano i Normanni

Facendo quindi capo al Castello Normanno ove veniva svolto il “potere amministrativo”, nei vari quartieri venivano svolti tutti i passaggi produttivi: ad esempio alla Filanda la filatura, alla Giudecca la tintoria, ai Coculi la bollitura dei “Coculli” ovvero i bozzoli grezzi.

In questo ciclo produttivo i dettagli della “lavorazione” avevano ovviamente la loro importanza e vi erano unità familiari che si dedicavano ai lavori anche in piccole corti.


Ancora rimandi al toponimo, laggiù (katacì) oltre il fiume Zaro, il cui accesso, consentito solo a chi conosceva il posto, era controllato da 6 porte tra le quali la “Portella” o Porta di Stratò, sulla quale sono riportate tutte le risorse ambientali per l'impianto di un Opificio: l'acqua necessaria in tutte le fasi della lavorazione, il vento per allontanare il cattivo odore, il sole per asciugare la seta. 

In quel luogo occulto, gli artigiani (katartarioi) esercitavano la trattura della seta grezza (katarteon sericon) e con le loro "segrete invenzioni" per la filatura e la torcitura, preparavano il prezioso filo di seta (katartizein metaxa).

La presenza di una tale struttura ovvero uno Stabilimento Imperiale (risalente alla prima colonizzazione), con manodopera qualificata e speciali attrezzature tecniche, nel quale potrebbero essere confluiti sia gli artigiani espulsi dalle corporazioni e mandati in esilio, sia schiavi orientali giustificherebbe, quindi, lo sviluppo e la successiva affermazione dell'Arte della Seta nella sola Catanzaro, dove più profonde erano le radici Bizantine. 

Nel 1519 l'Imperatore Carlo V riconobbe il «Consolato dell’Arte della Seta», anche se gli «Statuti dell’Arte della Seta» sono dell’8 maggio 1568, e come detto, a Catanzaro l’Arte della Seta era già florida dal 1200.


Ogni anno, a primavera, i setaioli si recavano a Reggio Calabria, a vendere i loro prodotti a mercanti Genovesi e Veneziani, Spagnoli ed Olandesi là convenuti in gran numero; tornavano trionfanti e carichi di quattrini, il martedì dopo Pentecoste, chiamato «Martedì di Galilea», probabilmente facendo riferimento alla grande importanza che ebbero gli Ebrei, di cui resta traccia nel quartiere tuttora chiamato Filanda, dove anticamente erano ubicati i laboratori per la tessitura e la filatura della seta. 

Subito dopo si teneva una Fiera frequentatissima, che durava 2 settimane.

Proprio in riferimento al commercio delle sete prodotte a Catanzaro, maggiore rilevanza la si attribuì agli Ebrei che, come si è accennato, riuscirono a svilupparlo in maniera considerevole, tant’è che essi si recavano in Spagna, Olanda e Venezia per vendere il pregiato tessuto. 

Ma come mai gli Ebrei acquisirono tale importanza? 

C’è da dire che la loro presenza era già avvenuta nei paesi limitrofi a Catanzaro, come Belcastro, nel borgo di Simeri e in località “La Bruca” nome che sottolinea la produzione di gelsi, che successivamente in dialetto venne denominata “’A Vruca”, Taverna, ma anche Crotone e Reggio.

Abili nella “mercatura” furono chiamati in Città nel 1073, con la prospettiva di godere “perpetua franchigia”, ove svolsero il loro commercio aprendo anche nuove attività. 

Attratti da questo vantaggio ne giunsero in numero elevato, fu così che venne loro assegnato un quartiere nel centro città, la “Giudecca” che comprendeva le zone che andavano pressoché dalle strade circostanti Palazzo Fazzari e la “Discesa Jannoni”, per inoltrarsi fra i vicoli adiacenti al centrale “Corso Mazzini”. 

Essi incrementarono le attività inserendovi lo smercio della seta, abili commercianti non tardarono ad acquisire una notevole agiatezza, tuttavia la loro “condizione personale” non eccelleva poiché non godevano di alcuni privilegi come ad esempio del diritto di proprietà, della magistratura, delle armi, delle eredità, delle corporazioni delle arti e dei mestieri, insomma furono penalizzati in alcune espressioni di “vita quotidiana”. 

Vissero in uno stato quasi “inferiore”, tant’è che erano costretti a girare per le strade con un mantelletto nero per distinguersi dagli altri cittadini. 

Soltanto nel 1482 la condizione degli Ebrei venne migliorata, allorquando Ferdinando I D’Aragona, con alcuni decreti, non solo ammetteva gli Ebrei al pagamento delle pubbliche tasse, ma furono parificati ai cittadini Cristiani nei diritti e nei doveri

Gli Ebrei, dunque, erano parte integrante della città e, nonostante tutto, i Catanzaresi ben convissero con loro, ritenendo la loro presenza fondamentale dal punto di vista commerciale. 

Essi, infatti, si distinguevano come abili artigiani, soprattutto nella colorazione dei tessuti, specialmente dei filati serici che venivano lavorati e poi esportati (spesso abbelliti con filati d’oro e pietre preziose). 

Ma le attività degli ebrei non si indirizzarono alla sola lavorazione della seta, essi furono anche banchieri, nonché “fornitori di capitali” per alcune “operazioni” di lavoro tanto che, alle volte, rappresentarono per i Catanzaresi un favorevole supporto. 


La prosperità dell'Arte della Seta Catanzarese ebbe bruscamente fine nel 1678, a causa della peste che in quell'anno colpì la città con conseguenze così disastrose che la fiera non si potè più tenere e l'industria decadde irrecuperabilmente.


Dalla Calabria e dalla Sicilia la coltivazione del baco e la lavorazione della seta si diffuse prima nel resto d'Italia, quindi in Europa.

Il primato italiano venne conteso dalla zona di Lione in Francia nel 1600 (XVII secolo), nella quale giunsero molti artigiani provenienti da Catanzaro allora sotto dominazione Francese. 

L’occasione fu propizia per inventare il primo prototipo del famoso telaio Jacquard  realizzato, infatti, da un tessitore Catanzarese già nella seconda metà del 1400, noto a Lione come Jean Le Calabrais, Giovanni il Calabrese che fu invitato a Corte da Luigi XI intenzionato ad impiantare la manifattura tessile a Lione. 

Il telaio destò grandi preoccupazioni nel mondo operaio dei tessitori francesi e fu boicottato in diverse occasioni ostacolandone la diffusione, per timore che facesse aumentare la disoccupazione nel settore tessile.

Il Francese Joseph Marie Jacquard studiò il telaio di Giovanni il Calabrese e lo perfezionò, trovando il modo per migliorare ulteriormente la realizzazione dei tessuti operati; riuscendo, poi, a brevettare la macchina tessile che da lui prese il nome mentre un esemplare del telaio di Giovanni il Calabrese rimane custodito nel Museo delle Arti e dei Mestieri a Parigi.



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Ancora nel Meridione tra la seconda metà del 1500 e i primi del 1600 Napoli divenne una delle più popolose capitali d’Europa e una città nella quale il ritmo di vita della maggior parte della popolazione era scandito dal lavoro della seta. 

Brulicante di filatoi, botteghe di setaioli, «tinte», tessitorie, fondaci di mercanti, di stranieri e di attività finanziarie e commerciali, la città cambiò in quel periodo il suo volto anche dal punto di vista urbanistico. 

Con oltre 250.000 abitanti, Napoli entrò a pieno titolo, accanto a Firenze, Genova, Venezia e Bologna, nel novero dei grandi centri italiani della seta. 

Il “mito fondativo” dell’industria serica napoletana è generalmente indicato nell’esperimento tardo settecentesco della Colonia di San Leucio, a Caserta (che vedremo più oltre): esperimento sociale, industriale, architettonico ed urbanistico di portata tale da riuscire ad appuntarsi, tra le altre cose, la medaglia del primato e della primogenitura della manifattura serica nel Regno di Napoli.


Tuttavia l’esperienza di San Leucio costituisce in realtà solo il punto di approdo di una tradizione secolare che vedeva sin dal 1400 (XV secolo) Napoli e il suo Regno protagonisti dell’intera filiera manifatturiera della seta, sia nel panorama italiano che in quello estero.


Origini e apogeo della Manifattura Napoletana


Artefice dell’affermazione e dello sviluppo della manifattura serica a Napoli è il Sovrano Aragonese Ferrante che nel giro di 2 decenni, a partire dal 1465, pone le basi per la formazione e specializzazione delle maestranze, per l’emanazione di una legislazione protezionistica, per l’istituzione di una struttura corporativa permanente di mestiere. 

Tale progettualità si sostanzia nella promozione del trasferimento a Napoli di maestranze straniere altamente specializzate, nell’esclusiva concessa alle piazze di Napoli e Catanzaro per la lavorazione della materia greggia, nell’istituzione del Consolato dell’Arte della Seta che, nato nel 1477, sarebbe stato per secoli protagonista della storia della Manifattura Napoletana, di cui controllava l’accesso al mestiere, la produzione e la circolazione della materia prima, la giurisdizione speciale riconosciuta ai suoi membri.


La filiera assume sin dall’inizio un respiro internazionale, se nel 1600 Napoli arriverà addirittura ad esportare verso il Nuovo Mondo, barattando seta con nuovi coloranti per tessuti, e tale caratteristica è riconoscibile sin dallo Statuto Costitutivo dell’Arte che sancisce che nella composizione del “direttivo”, su 3 Consoli, prevedeva “uno straniero”.

Tale “cittadinanza” di mestiere rispondeva alla presenza massiccia in città, per gli affari connessi alla Seta, di Genovesi, Fiorentini, Bergamaschi, Spagnoli, Olandesi, Tedeschi, Francesi, spesso dediti ad attività plurisettoriali (finanza, commercio, manifattura).


I loro nomi, insieme a quelli di Maestri, Mercanti e Lavoranti, uomini e donne locali, sono annotati nei Libri dell’Arte, pregiati volumi arricchiti, negli anni di maggiore fulgore e ricchezza del Consolato, da splendide miniature su pergamena realizzate dalle mani di valenti Artisti.

Questi registri erano conservati presso la Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, collocata nel cuore antico della città, nelle immediate adiacenze del Quartiere Ebraico dove si era praticata per secoli l’Arte Serica e la tintoria e tra le botteghe dei Tessitori e dei Tintori lì insediatisi. 

La Chiesa e l’annesso Conservatorio erano sede delle attività assistenziali e mutualistiche garantite dall’affiliazione all’arte.


La manifattura tocca le sue vette tra fine 1500 e inizio 1600, quando vi è addetto un numero elevatissimo di lavoratori e lavoratrici, che operano secondo la consueta divisione sessuale del lavoro. 

L’elaborato processo produttivo è diffuso sul territorio: va dalla coltivazione dei gelsi - nutrimento dei bachi -  all’allevamento delle larve, fasi della produzione concentrate principalmente nelle Calabrie, ma con propaggini in Costiera Sorrentina e in alcuni casali intorno alla capitale; contempla, inoltre, la raccolta e la filatura e torcitura, la tintura e la tessitura.


In questo complesso ed articolato processo, vale la pena segnalare 2 aspetti che caratterizzano precipuamente l’industria Partenopea: il suo primato nella tintura di un particolare colore nero, il cosiddetto “nero di Napoli”, richiestissimo dal mercato estero per le impareggiabili caratteristiche di lucentezza e stabilità; la sua precoce specializzazione in prodotti di seta leggera realizzati con materia prima meno pregiata (in filo grosso) e destinati al consumo delle fasce medie della popolazione (trine, stringhe, passamani ed altre minuterie), a fronte del target produttivo individuato nella prima ora nei drappi pesanti (realizzati in filo sottile) e nei preziosi tessuti auroserici.


DECLINO e NUOVE PROSPETTIVE


Nella seconda metà del 1600 inizia l’inesorabile declino della manifattura e i pochi, discontinui sussulti di ripresa settecenteschi non sono sufficienti a sventare la scomparsa della Napoli “brulicante di filatoi, botteghe di setaioli, tinte, tessitorie, fondaci di mercanti”, costretta a cedere il passo alla concorrenza estera, per svariate cause: la mancata meccanizzazione dei processi produttivi, i conflitti nel mondo del lavoro, l’accelerazione della moda e l’imposizione di diktat stagionali, la preferenza sempre maggiore accordata dal mercato a prodotti di minor pregio e di conseguenza di minor costo (come cotoni e mussolini). 

Le concomitanti cattive congiunture economiche decretano la definitiva crisi di quella realtà artigiana, mai realmente elevatasi al rango di “industria”.


La Colonia Leuciana riscrive, quindi, a partire da fine 1700, la storia della Manifattura Napoletana, relegando nell’oblio i fasti e i numeri impressionanti della prima età, assumendo il monopolio della storia meridionale della seta

La Manifattura Leuciana vede svolgersi al suo interno l’intero ciclo produttivo e si ritaglia una fascia di mercato di livello medio-alto, in cui rientra la Corte di Napoli. 

Si tratta di ignari protagonisti di un esperimento sociale, politico, economico, prendono il posto di quei liberi mercanti, tessitori e lavoranti, uomini e donne, regnicoli e stranieri, che fino a qualche anno prima affollavano i Registri della “Nobile Arte della Seta”.


San Leucio la Città della Seta, (clicca qui per andare al sito del Real Borgo) frazione del Comune di Caserta nota per ragioni storiche ed artistiche, posta a 3,5 km a nord ovest della città. 

Il sito reale, insieme alla Reggia di Caserta, è stato riconosciuto come Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO.

Il Complesso di San Leucio nella sua veste attuale si estende su una superficie di 16.871 m² e ha una facciata lunga 354 m intervallata da un doppio ordine di lesene, caratterizzata inoltre da 2 ordini di finestre e 2 marcapiani con timpano centrale: monumentale è la scalinata a doppia rampa che segna l'ingresso principale alla struttura.


Prima ancora che prendesse il nome attuale, vi era un Feudo dei Conti Acquaviva di Caserta noto come Palazzo del Belvedere o Palagio Imperiale che nel 1750, come tutti i possedimenti già Acquaviva, poi divenuti Caetani, passarono ai Borbone di Napoli, e il Feudo divenne un Romitorio per i Reali.


Stanco del caos e degli intrighi della Corte Reale Casertana, nel 1773 Ferdinando IV volle costruirsi un ritiro solitario dove poter trascorrere del tempo spensierato.

Scelse le colline che fiancheggiavano il Parco di Caserta dove già sorgeva un rudere di una Cappella dedicata a San Leucio, il martire vescovo di Brindisi, dal quale prese il nome.

Il Romitorio comprensivo di una vigna e di un boschetto, era frequentato dal Re per brevi periodi, dopodiché era custodito da alcuni guardiani di stanza con le proprie famiglie. 


Il 17 dicembre 1778, accadde un fatto inusitato che determinò il destino della colonia: il primogenito del Re ed erede al trono, Carlo Tito, morì di vaiolo. 

Il Re, a seguito dall'evento, decise di erigere un “Ospizio per i poveri” della provincia presso il quale volle un Opificio per non tenerli in ozio.

La Colonia crebbe rapidamente così che si decise di costruire ulteriori edifici per migliorarne le funzionalità tra i quali: una parrocchia, degli alloggi per gli educatori e padiglioni per i macchinari. 

L'organizzazione era affidata a un Direttore Generale affiancato da un Direttore Tecnico che monitorava la condizione degli impianti. 

L'istruzione tecnica degli operai era affidata al Direttore dei Mestieri ciascuno per ogni genere. 

Si voleva in tal modo riprendere l'idea dell'organizzazione “colbertina” francese [Jean-Baptiste Colbert (1619 -1683) è stato un politico ed economista francese.

La sua opera fu diretta principalmente ad accrescere la ricchezza del Paese, incoraggiandone lo sviluppo industriale].


Le commesse di seta provenivano da tutta l'Europa: ancor oggi, le produzioni di San Leucio si possono ritrovare in Vaticano, al Quirinale, nello Studio Ovale della Casa Bianca: le bandiere di quest'ultima e quelle di Buckingham Palace sono fatte con tale materiale. 

Si ritrovano testimonianze dell'arte anche nelle celebrazioni e nelle Festività popolari, specialmente nel capoluogo partenopeo, come ad esempio la festa di Sant'Anna a Porta Capuana e la Madonna del Carmine nell'omonima Basilica al Mercato.


Il Re Carlo di Borbone pensò di inviare i giovani in Francia ad apprendere l'arte della tessitura, per poi lavorare negli Stabilimenti Reali. 

Fu così costituita nel 1778, una Comunità nota come “Real Colonia di San Leucio”, basata su norme proprie. 

Alle maestranze locali si aggiunsero subito anche artigiani francesi, genovesi, piemontesi e messinesi che si stabilirono a San Leucio richiamati dai molti benefici di cui usufruivano gli operai delle seterie.



Ai lavoratori delle seterie era, infatti, assegnata una casa all'interno della colonia, ed era, inoltre, prevista per i figli l'istruzione gratuita potendo beneficiare, difatti, della prima scuola dell'obbligo d'Italia che iniziava fin da 6 anni e che comprendeva le materie tradizionali quali la matematica, la letteratura, il catechismo, la geografia, l'economia domestica per le donne e gli esercizi ginnici per i maschi.

I figli erano ammessi al lavoro a 15 anni, con turni regolari per tutti, ma con un orario ridotto rispetto al resto d'Europa

Le abitazioni furono progettate tenendo presente tutte le regole urbanistiche dell'epoca, per far sì che durassero nel tempo (abitate tuttora) e fin dall'inizio furono dotate di acqua corrente e servizi igienici.


Per contrarre matrimonio gli uomini e le donne, compiuti rispettivamente almeno 20 e 16 anni, dovevano dimostrare di aver conseguito uno speciale “Diploma al merito” concesso dai Direttori dei Mestieri.

I matrimoni si svolgevano il giorno di Pentecoste con una celebrazione particolare: a ogni coppia era assegnato un mazzo di rose, bianche per gli uomini e rosa per le donne, fuori la Chiesa li aspettavano gli anziani del villaggio, di fronte ai quali le coppie si scambiavano i mazzi di fiori come promessa di matrimonio.

Ciascuno era libero di lasciare la colonia quando voleva, ma, data la natura produttiva del luogo, si cercava di inibire tali eventualità, ad esempio, facendo divieto di ritorno in colonia oppure riducendo al minimo le liquidazioni.


La produttività era garantita da un bonus in denaro che gli operai ricevevano in base al livello di perizia che avevano raggiunto.

La proprietà privata era tutelata, ma erano abolite doti e testamenti.

I beni del marito deceduto passavano alla vedova e da questa al “Monte degli Orfani”, cioè la cassa comune gestita da un Prelato che serviva al mantenimento dei meno fortunati

Le questioni personali erano giudicate dal l'Assise degli Anziani, cosiddetti seniores, che avevano raggiunto i massimi livelli di benemerenza ed erano di nomina elettiva; i seniores monitoravano anche la qualità igienica delle abitazioni e potevano deliberare sanzioni disciplinari nonché espulsioni dalla colonia.


Per contrastare la concorrenza straniera, i leuciani si aprirono al mercato dell'abbigliamento con la produzione di maglie, calze, broccati e velluti e seguendo la moda francese.

La fortuna delle produzioni leuciane è ampiamente documentata fino alla prima metà del 1800 quando l'impianto ebbe l'esclusiva sullo straordinario tessuto “fili di vetro”.



Il Re Ferdinando IV di Borbone progettò di allargare la colonia anche per le nuove esigenze industriali dovute all'introduzione della “trattura” della seta e della manifattura dei veli, quindi per costruirvi una nuova città, da chiamare Ferdinandopoli, concepita su una pianta completamente circolare con un sistema stradale radiale e una piazza al centro per farne anche una sede reale. 

Non vi riuscì, ma nei quartieri annessi al Belvedere mise in atto un Codice di leggi sociali particolarmente avanzate, ispirate all'insegnamento di Gaetano Filangieri e trasformate in leggi da Bernardo Tanucci.

Preferiva San Leucio in modo particolare e vi organizzava spesso battute di caccia e feste condivise con la stessa popolazione della colonia. 

Il Sovrano firmò nel 1789 un'opera esemplare contenente i principi fondanti della nuova Comunità di San Leucio: origine della popolazione di San Leucio e suoi progressi fino al giorno d'oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa di Ferdinando IV Re delle Sicilie, conosciuti più comunemente come gli «Statuti di San Leucio», Codice pubblicato dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. 

Il testo, in 5 capitoli e 22 paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell'epoca ad interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica e pone grande attenzione al ruolo della donna.


Diverse opportunità erano offerte anche agli invalidi del lavoro che potevano rimanere in loco dopo l'infortunio; per questi fu progettato un Ospizio apposito, la “Casa degli infermi”, che però non fu possibile portare a compimento a causa della discesa di Napoleone Bonaparte in Italia e della nascita della Repubblica Partenopea nel 1799.

Pertanto, gli invalidi continuarono a sopravvivere grazie a delle donazioni spontanee dei lavoratori diplomati al merito, raccolti in un'apposita cassa dai seniores. 

Gli operai addetti alla coltivazione dei campi, invece, potevano vendere una parte del raccolto al mercato in base ai prezzi stabiliti dal Sovrano.


In seguito alla Restaurazione il progetto della neo-città fu accantonato, anche se si continuarono ad ampliare industrie ed edifici, tra cui il Palazzo del Belvedere. 

Nel 1834 i Borbone decisero di costituire una società insieme a privati, tale fu la configurazione organizzativa fino all'Unità d'Italia

Nel 1862, nonostante lo sviluppo della produzione e il perfezionamento del nuovo tessuto “Jacquard”, i Savoia ne decisero la chiusura, riaprendola poi appena 4 anni dopo, ma concedendola ancora in locazione ad imprese private.

Nel 1866 la Colonia di San Leucio venne elevata a Comune con il nome di San Leucio, fino alla sua definitiva aggregazione nel 1928 al Comune di Caserta.


LE CITTÀ del CENTRO‐NORD


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Lo sviluppo della bachicoltura nelle principali Città del Centro‐Nord, fu un importante reddito di supporto all'economia agricola e la produzione e commercio di tessuti, assieme a quella della lana, un'industria molto redditizia che diede ricchezza e potere alle Corporazioni che la praticavano, come fu a Firenze dove l'Arte della Seta venne riconosciuta una delle 7 Arti.



Industrie dei filati serici fiorirono a Lucca, città nella quale la Famiglia dei Guinigi diventò ricca e potente commerciando le sue sete in tutta Europa, sete realizzate grazie ai bozzoli dei bachi da seta inviati dalla Calabria; in seguito, alla fine del 1200 (XIII secolo) a Bologna: il "mulino alla bolognese" viene così descritto in una cronaca del 1621:


«Certe macchine grandi, le quali mosse da un piccolo canaletto d'acqua di Reno fanno ciascuna di loro con molta prestezza filare, torcere e adopiare quattro mila fila di seta, operando in un istante quel che farebbero quattro filatrici.»


Il mulino migliorava le macchine utilizzate mediante una ruota idraulica ed un incannatoio meccanico e permetteva di ottenere filati più uniformi e resistenti rispetto a quelli prodotti a mano o con altri mezzi meccanici. 

Secondo numerosi storici della rivoluzione industriale il mulino da seta alla bolognese, forte di innovazioni tecniche e dell'energia meccanica dei canali di Bologna, rappresenta un importante modello di sistema protoindustriale che permise alla città di commercializzare filati in tutta Europa attraverso il “Canale Navile”.


In Lombardia la produzione della Seta fiorì nel 1300 (XIV secolo): il Duca Galeazzo Maria Sforza impose ai proprietari terrieri una piantumazione forzata di gelsi, pratica che lo zio Ludovico il Moro, in seguito, intensificò portando la regione ad essere una delle più conosciute per la produzione serica in Europa.

In particolare nelle zone della Lomellina, l’invenzione dei primi meccanismi di torcitura e filatura della seta, originano nel 1300 (XIV secolo), per opera di Lodovico il Moro (soprannominato così dal nome scientifico dei gelsi, bombix mori), a partire dalla zona di Vigevano, allevamenti di bachi e semenzai di gelsi diffusi poi nel suo Ducato. 

L’attività di gelsibachicoltura comunque raggiunse il suo primato in Lomellina, dove la bachicoltura subì un elevato sviluppo grazie alla successiva lavorazione della seta e alla specializzazione acquisita dagli operatori nella selezione qualitativa del seme‐bachi e nella gestione degli allevamenti; qui si realizzarono i primi allevamenti costituiti da ambienti controllati per la crescita degli insetti e si adottarono essiccatori ad aria calda per l’essicazione delle crisalidi.


Tale attività riveste un ruolo marginale in molte località delle Prealpi Lombarde, essendo questa un'area a carattere prevalentemente agropastorale. 

Tuttavia, nel corso del 1800 e ancora nella prima metà del secolo successivo, l'allevamento del baco da seta e la corrispondente gelsicoltura, potevano essere annoverate tra le principali attività produttive Lombarde.

In molti paesi della provincia di Varese esistono documentazioni e tracce della lavorazione della seta.

A Brinzio, per esempio, sono presenti le filande Ranchet nei pressi dell’abitato, esempio di archeologia industriale, oggi in completo stato di abbandono.

Altra località nota per la bachicoltura è Malgesso.

Li allevavano tutti, chi più chi meno, secondo la produzione di foglie di gelso. 

Si tenevano nelle stalle, ma più facilmente in cucina poiché il baco è delicato e si ammala facilmente.

In una cucina dove viveva sempre una famiglia numerosa, dai nonni ai nipotini, stavano anche i tavul, i graticci di canne per stendere “i cavaler”, e si riscaldava la cucina a volte più per i bachi che per le persone! 

Qualcuno, più fortunato, disponeva di una vera bigatèra, locali adibiti all’allevamento del baco, ma che dovevano essere assolutamente riscaldati (di solito c’era un camino) perché il baco ha bisogno di caldo. 


I Malgessesi caricavano i galett nella gerla e si andava a piedi alla filanda: soprattutto a Comerio

Oppure passava un signore a ritirarli.

Un altro luogo molto importante era il setificio di Ispra, del fabbricon di Besozzo dove tante ragazze e donne del nostro paese andavano a lavorare.

Erano una manodopera soprattutto femminile, perché come scriveva il medico Serafino Bonomi, mandato nel 1873 a controllare le condizioni igieniche delle operaie della seta nella zona di Como: «la mitezza del carattere le rende più docili alla disciplina e più pronte ad adattarsi alle molteplici esigenze del lavoro!» Venivano soprattutto pagate di meno!

Per non parlare del lavoro minorile: nel 1800 anche bambini sotto i 9 anni sono stati mandati al lavoro; ancora nel 1900 le bambine di 10-12 anni lavorano nelle filande. 


Como altra Città della Seta Lombarda, città che si distinse nella produzione di ricchi tessuti in seta, ha le sue origini storiche della lavorazione della seta risalenti al 1500 (XVI secolo), ma è soprattutto con l’industrializzazione nella seconda metà del 1800 in Lombardia che la Città Lariana conquista la leadership europea della produzione e dell’esportazione dei preziosi tessuti.


La testimonianza storica si trova nel Museo della Seta che documenta la produzione serica industriale Comasca, in via Castelnuovo 9, situato accanto allo storico Istituto di Setificio, 10 minuti a piedi dalle mura medievali della città.

Macchine, utensili e collezioni moda raccontano le evoluzioni artistiche, storiche e tecnologiche di una Città che già dal Rinascimento ha avuto una forte vocazione tessile.



Il percorso idealmente prosegue con il Museo Studio del Tessuto (MuST) che si trova in via per Cernobbio (che dista circa 5 chilometri). 

La collezione del Museo conta ad oggi più di 3.300 reperti tessili singoli, e oltre 2.500 libri-campionario che, insieme, illustrano la storia del tessuto dall’anno 200 (III  secolo) al 1900 (XX secolo).


Infine arriviamo in Trentino e più precisamente a Rovereto, in cui le fabbriche della seta si trovavano nel cuore della città dove appositi canali portavano l'acqua necessaria al funzionamento dei filatoi (clicca per vedere il video

Un'epoca d'oro giace tra le pieghe della storia di Rovereto e della Valle Lagarina, alla confluenza tra il torrente Leno e il fiume Adige, in Trentino Alto Adige: un'epoca in cui Rovereto era sulla bocca di tutti i commercianti di seta d'Europa per la qualità del suo filato brillante e lucente.

Camminando tra le rogge, canali scavati nel cuore della città per rendere accessibile alle fabbriche la forza motrice del torrente, e le facciate settecentesche delle case di commercio in cui si faceva sfoggio del prodotto, si sente ancora l'eco di quella fase aurea iniziata sul finire del 1500 e che per 4 secoli ha connotato la Città della Seta. 


Quest'attività contribuì positivamente in ambito lavorativo, creando numerosi posti di lavoro, particolarmente per le donne e i giovani, fino alla fine del 1800.

La Città di Rovereto, nel periodo della produzione e lavorazione della seta, fiorì anche in campo culturale: infatti venne fondata nel 1750 una delle istituzioni culturali più importanti, l'Accademia Roveretana degli Agiati, a ponte fra le 2 culture, italiana e tedesca; furono create anche molte opere pubbliche e palazzi imponenti.


Poi, repentina e irreversibile, è sopraggiunta la modernizzazione dell'epoca contemporanea, che ha sradicato quel sistema economico: le tracce più profonde sono però tuttora visibili, dal paesaggio punteggiato di gelsi, delle cui foglie i bachi erano ghiotti, alle scalinate settecentesche degli atri dei palazzi, al gusto raffinato per le arti che fanno ancora oggi di Rovereto l'“Atene del Trentino”.



I filatoi di Roggia Paiari sono un complesso urbanistico di rilevanza storica costituito da 6 filatoi edificati tra il 1700 e il 1750 nella zona di Santa Maria a Rovereto.

Solo qualche decennio dopo la cacciata dei Veneziani (1509) inizia in Vallagarina la coltivazione del gelso e la lavorazione della seta. 

Dopo di allora, e per 400 anni, la produzione della seta diviene il perno della vita economica, culturale e sociale roveretana.


Per ottenere la seta greggia, veniva innanzitutto coltivato il gelso e allevato il baco da seta (nelle case agricole); va detto, però, che gran parte della seta grezza veniva importata di contrabbando dal Veronese. 

Solo a fine 1700 e poi nel 1800 la coltivazione dei gelsi si estese nelle campagne della Vallagarina: quando le nuove grandi filande industriali soppiantarono gli ormai vetusti filatoi idraulici.


L'arte della seta lavorata, con le tipiche fasi di torcitura e filatura, inizia a Rovereto nella seconda metà del 1500.

Queste operazioni venivano eseguite nei filatoi; un primo filatoio idraulico fu costruito nel 1550 in via Portici dai Norimberghesi fratelli Ferleger, cui seguì nel 1580 uno molto più grande dei Wegleiter, pure di Norimberga, in via Portici n. 1. Alla metà del 1600 se ne contavano solo 6 (quasi tutti Norimberghesi: Ferleger, Folckamer, Guttheter, Falzorger) ma nel secolo successivo divennero 38. 

Questa rapida e importante crescita di filatoi fu resa possibile da nuovi importanti investitori (Tedeschi e Lombardi) e naturalmente dalla presenza del Torrente Leno.


I filatoi di Roggia Paiari, situati nel borgo di Santa Maria (già San Tomaso) sulla riva sinistra del Torrente Leno sono il n. 31 "Al Zambel" in Via Marsilli; il 32 in via Santa Maria, 25; il 33 nel Vicolo Tintori (denominazione tarda, derivante dall'attività di tintura); il 34, 35, 36 in via Santa Maria e su Vicolo Paiari.


I filatoi di Santa Maria furono edificati alla fine del 1600, eccetto il filatoio n. 36 che forse risale addirittura al 1500.


Anche dall'altra parte del Leno furono numerosi i filatoi, serviti dalla Roggia Grande, dalla Roggia Piccola, delle Rogge Riunite. 

Ad esempio l'ex filatoio Sichardt, sulla Roggia Piccola, viene utilizzato per Uffici Comunali mentre le Rogge Riunite arrivano ancora sino alla ex Manifattura Tabacchi, sino a Borgo Sacco.


Gli edifici adibiti alla torcitura e alla filatura influenzarono l'Architettura Roveretana.

Le case, infatti, hanno subito dei cambiamenti, in particolar modo sviluppandosi in altezza, raggiungendo i 7 piani, avvicinandosi così alla struttura del filatoio. Generalmente le abitazioni si articolavano solo su 2-3 piani.


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