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Lettura del libro Il Bel Paese di Antonio Stoppani

Calabria: MÀIDA e Vena la frazione Arbëreshë

Màida (Majida in calabrese) è un comune della provincia di Catanzaro in Calabria

MÀIDA

Regione: Calabria

Provincia: Catanzaro CZ

Altitudine: 299 m slm

Superficie: 58.34 km²

Abitanti: 4.641

Nome abitanti: Maidesi

Patroni: San Francesco di Paola (2 aprile)

 

www.comune.maida.cz.it

 

 ORIGINE del NOME

(Toponomastica)


Il toponimo è attestato nell’anno 1098 την μαγιδαν, anno 1088 εις την μαγιδαν; confrontare anche RDApLCRationes decimarum Italiae nei secoli XIII (1200) e XIV (1300) Apulia, - Lucania - Calabria»] (Nicastro) anno 1310 «In castro Mayde».

Il toponimo riflette il greco μαγις e il latino magida “madia” nel senso di “bacino”, “conca di terreno”, traslato geografico che si trova in altri nomi locali della Calabria, ove Maida è anche cognome.


 


TERRITORIO

(Topografia ed Urbanistica)


L'abitato di Maida sorge su una collina che si affaccia sulla Piana di Sant'Eufemia tra i fiumi Jayari a ovest e Cottola a est. 

Il territorio comunale comprende anche la frazione di minoranza etnica e linguistica albanese (arbëreshë) di Vena di Maida (Vjna in lingua arbëreshe), posta a 242 metri s.l.m. (vedi più sotto)



ITINERARI e LUOGHI

(Culturali, Artistici, Turistici e Storici)


Chiesa di Santa Maria Cattolica


Anticamente era una Chiesa di Rito Greco, era punto di riferimento dei Monaci Basiliani, che vivevano nelle "Laure" [il vocabolo ha origini greche e significa "cammino stretto", "gola"; la laura è, nel cristianesimo orientale, un insediamento monastico di dimensioni ridotte; in origine, indicava un agglomerato di celle o di grotte di Monaci, con una chiesa e, alle volte, un refettorio nel mezzo.

Si distingueva da un lato dagli Eremi degli Eremiti, la cui vita non prevedeva momenti passati con altri monaci, dall'altro dai Cenobi dei Cenobiti, nei quali la vita era tutta in Comunità]. 

Il titolo di "Cattolica" è proprio dovuto al fatto che i Monaci la chiamavano katholikon

La Chiesa mantenne la pianta a croce greca, probabilmente fino al 1783, quando fu distrutta da un terremoto; ricostruita, sorge sul luogo di un antico palazzo baronale.

Dato che nei secoli XVII (1600) e XVIII (1700) Maida era residenza estiva del Vescovo di Nicastro, la Chiesa di Santa Maria Cattolica è riportata nei documenti diocesani come Cattedrale almeno dal 1565.

Fino al terremoto del 1905 la Chiesa era dotata di una torre campanaria, originariamente usata per avvistamenti dal mare, definitivamente demolita nel 1930.


Contiene affreschi situati nel catino absidale e ai 4  pennacchi della cupola, sulle pareti iniziali delle 2 navate laterali si trovano 2 affreschi di Andrea Cefaly [nacque a Cortale (27 agosto 1827), paese in provincia di Catanzaro, da una famiglia dell'antica aristocrazia: il padre Domenico era un proprietario terriero, la madre Caterina Pigonati era letterata e musicista. 

Dopo i suoi studi catanzaresi, nel Collegio degli Scolopi, si trasferì nel 1842 a Napoli, per intraprendere la professione forense.

Vinta la resistenza paterna, si iscrisse all'Accademia di Belle Arti.

Nel 1848 prese parte ai Moti liberali antiborbonici.

Nel 1855 ritornò a Napoli, nel periodo in cui era in corso la rivoluzione pittorica verista e 2 anni dopo aprì il suo studio che divennne confluenza e officina di pittori e letterati.

Nel 1860 fu con Giuseppe Garibaldi, che seguì fino alla battaglia del Volturno, esperienza che tradusse in diverse opere pittoriche. 

Ritornato a Cortale, nel 1862 fondò una Scuola di Pittura, con presidente onorario Garibaldi]: "Gesù tra i dottori" e "Lasciate che i pargoli vengano a me". 

Il sagrato, che domina la piana di Lamezia Terme, è caratterizzato da una antica pavimentazione in pietra e mattoni e appoggia sulla sottostante Chiesa di San Sebastiano.


Il Castello Normanno


Nel paese sono ancora presenti i ruderi dell'antico Castello che era di forma quadrata con 4 torri agli angoli, una delle quali è ancora ben distinguibile, anche se parzialmente nascosta da costruzioni moderne. 

È stato sede di una prigione, di cui esistono ancora alcune celle e la scala in ardesia. 

Dagli anni 1950, circondato da costruzioni moderne, che in parte lo nascondono.

Il Castello e Maida erano rifornite d'acqua attraverso un acquedotto, di cui fa parte l'arco di Sant'Antonio e attraversato da un corso d'acqua che alimentava un mulino con abbeveratoio all'entrata nord dell'abitato.

Il territorio comunale di Maida comprende anche la frazione di minoranza etnica e linguistica albanese (arbëreshë) di VENA DI MAIDA (Vjna in lingua arbëreshe) originariamente Calabritti, posta a 242 metri s.l.m.

Il 4 maggio del 1831, col decreto istitutivo dei Comuni e dei Circondari, si stabiliva il Comune di Vena. 

Il 14 ottobre del 1839 Vena era assegnata come frazione al Comune di Maida.

Il paese fu fondato verso la fine del XV secolo (1400) da una Comunità Albanese (arbëreshë), venuta in Calabria, probabilmente, dopo la morte di Scanderbeg (1468), la caduta di Kruja (1478) e la caduta di Scutari (1479) quando si ebbe la quasi definitiva sottomissione dell’Albania all’Impero Ottomano.

Tra questi fuggiaschi Albanesi è probabile che ci fossero molti di coloro che avevano combattuto contro gli Ottomani e che meno degli altri si rassegnavano a vivere sotto questi padroni, oppure che temevano per la loro vita proprio per aver militato nelle truppe di Scanderbeg.

Secondo quanto sostenuto da Giovanni Fiore da Cropani, l’origine degli insediamenti Albanesi di Calabria risale a qualche decennio dopo la morte di Scanderbeg, quando, con l’invasione dell’Albania da parte degli Ottomani, molti Albanesi fuggirono.

Secondo lo storico Gaetano Boca, Vena di Maida sorse in località "Castiglione Calamizza", nelle vicinanze dell’omonimo casale. 

Con il tempo la nuova sede fu poi stabilita su un lembo del "Giardino del duca", tra le contrade "Katropé" e "Bari i zi".

Questi erano territori che, al momento dell’arrivo degli Albanesi appartenevano alla famiglia Caracciolo potente feudataria sul territorio che aveva terre e castelli nei territori che vanno da Girifalco a Maida, a Curinga e in tutto il Lametino.

Particolarmente noto per la magnificenza dei suoi costumi il paese fu visitato, nei secoli scorsi, da numerosi viaggiatori, tra cui Henry Swinburne, Craufurd Tait Ramage, Rilliet e Alexandre Dumas che gli dedicò l'intero capitolo nel suo "Viaggio in Calabria" qui riportato, e lo cita anche in "Luisa Sanfelice". 

Anche lo scrittore contemporaneo Carmine Abate, ispirandosi al libro di Dumas, situa nella località lo svolgimento del suo romanzo "Tra due mari". 

Tuttora abitata dai discendenti di soldati Albanesi, si è perso da secoli il rito Greco-Bizantino, ma è mantenuta la lingua albanese, tratto essenziale della minoranza etnica, e rimangono i costumi tradizionali albanesi, simili a quelli di Caraffa di Catanzaro, che vengono conservati da alcune famiglie, anche se ormai poco usati, solo in rare occasioni. 

Nella frazione Vena si trovano 2 architetture religiose:

Chiesa Arcipretale di Sant'Andrea Apostolo (Klisha Kryepriftërore e Shën Ndreut) che si trova nella Piazza principale del Paese e che secondo fonti storiche risale alla metà del XVIII sec. (1700).

Le notizie storiche si fermano all'episodio della visita del Vicario Apostolico della Diocesi di Nicastro Paolino Pace risalente al 1769. 

All'esterno la chiesa si presenta con una facciata di stile del tardo 1600 costituita da un’alzata superiore, dove si trovano 2 nicchie vuote al centro delle quali si trova una finestra di forma rettangolare. 

All’interno è costituita da una navata centrale, in fondo alla quale è situato l’altare maggiore, sul quale si innalzano 2 colonne laterali che sostengono una nicchia, dove viene conservata la statua del Patrono Sant'Andrea Apostolo. 

Vi sono altri 2 altari minori uno sul lato destro, contenente una nicchia, dove si trova la statua dell’Immacolata Concezione, e uno sul lato sinistro dove si trova la statua del Sacro Cuore. 

Più in fondo, sempre sul lato sinistro, quasi vicino all'altare maggiore, si trova una nicchia nella quale è situata la statua di San Francesco di Paola. 

In una teca è contenuta la statua della Madonna di Bellacava risalente al 1800. 

Prima del restauro del 1992, sul fondo dell’abside, esisteva un affresco che raffigurava la Crocifissione di S. Andrea, opera del pittore Gioacchino Alemanna. 

Il Santo Patrono viene festeggiato in novembre.

Santuario della Madonna di Bellacava (Klisha Nderma e Belakavës) che si trova in località “Croce”, è costituito da una chiesetta a pianta di croce latina sormontata da una piccola cupola cui si accede tramite un portone ad arco. 

All’interno, si trova un'unica navata in fondo alla quale è situato l’altare maggiore in cui è custodita una copia della statua della Madonna, poiché l'originale è nella Chiesa Parrocchiale. 


A questo Santuario sono legate diverse leggende popolari: la più nota narra che apparve in una cava ad un pastore, col desiderio di essere portata in paese, poiché la cava era fuori dal centro abitato, ma il pastore non le diede ascolto. 

Apparve poi nello stesso luogo a dei cacciatori esprimendo lo stesso desiderio e lo dissero al parroco che suonò le campane a festa, e la prima domenica di settembre arrivò la statua della Madonna nella Chiesa di S. Andrea. 

Una notte, venne in sogno ad una donna del paese e la accompagnò fino alla località Croce, e le disse: «Tu 'cca m'ha costruiri 'a casa mia ca pua ti pagu» ("Tu qui devi costruire la mia casa 'ché poi ti pago); e la costruì. 

Poi apparve in sogno ad un'altra donna chiedendole di costruire una piccola Edicola votiva nella "cava" (luogo dell'apparizione). 

Terminati i lavori di costruzione dell'Edicola e della Chiesa, era arrivato il momento di restaurare la statua, perciò i Maidesi decisero di portarla a Maida per restaurarla, ma durante il tragitto divenne sempre più pesante, mentre per arrivare a Vena era sempre più leggera, pertanto si decise di restaurarla a Vena; questo fu segno che la Vergine non voleva lasciare il suo amato paese. 

Inoltre preservò Vena, durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, dalla distruzione che volevano effettuare i Tedeschi: all'improvviso, infatti, si mise a piovere così forte e ci fu la nebbia con la quale non si poté vedere niente, perciò i Tedeschi non poterono entrare in paese e rinunciarono all'idea di distruggere Vena di Maida. 

Tutto merito della Santa Vergine secondo i Venoti. 

Viene festeggiata la prima domenica dopo ferragosto.


«Racconti di Viaggiatori»

[...] Cammin facendo discorrendo, la nostra guida ci parlò di un paese chiamato Vena che aveva mantenuto tradizioni straniere e una lingua che nessuno in Calabria capiva.

Le due circostanze suscitarono in noi il desiderio di visitarlo.

La guida ci avvertì però che non vi avremmo trovato nemmeno una locanda e che pertanto potevamo soltanto pensare di passarci e non di fermarci. 

Ci informammo quindi dove avremmo potuto fare una sosta per la notte il nostro “pizziota” ci indicò il borgo di Maida come il più vicino a Vena e quello in cui dei signori potevano tranquillamente fermarsi; lo pregammo quindi abbandonare la via maestra e di condurci a Maida. [...]

[...] Dopo tre ore di marcia nella montagna scorgemmo Maida.

Era un mucchio di case, abbarbicate sulla montagna, che, come tutte le case calabresi, erano state intonacate in modo primitivo, con uno strato di gesso o di calce, ma che, per le ripetute scosse che avevano subito, avevano perso una parte dell'ornamento superficiale cosicché, quasi tutte erano coperte di larghe macchie grigie che conferivano loro l'aria di aver avuto una malattia della pelle. [...]

[...] Da ogni casa, come dai sepolcri nel giorno del giudizio universale, vennero fuori, d'un tratto, tutti gli abitanti, cosicché, un momento dopo, non fummo solo seguiti, ma circondati in modo tale che ci fu impossibile proseguire. 

Sentiamo allora, come meglio potemmo, di trovare una locanda. 

Ma, forse perché il nostro accento aveva un carattere particolare o forse perché chiedevamo qualcosa di sconosciuto, ad ogni nostra richiesta, la gente si metteva a ridere [...]

[...] Improvvisamente un uomo attraverso la folla, mi prese per mano e dichiarò che eravamo sua proprietà. 

Disse che ci avrebbe condotto in un luogo dove saremmo stati come gli angeli in cielo. [...]

[...] Poi riattraversando la folla che diventava sempre più numerosa, s'incamminò davanti a noi, senza perderci un instante, parlando senza tregua, gesticolando senza pausa e non smettendo di ripetere che il cielo ci aveva favorito mettendosi nelle sue mani. [...]

[...] quelle promesse si conclusero davanti ad una casa, devo dirlo, con un aspetto leggermente migliore rispetto a quelle che la circondavano, ma il cui interno si fece immediatamente presagire i mali di cui eravamo minacciati. 

Era una specie di «cabaret» composto da una grande stanza divisa in due da una tappezzeria a brandelli che pendeva dai travetti e che lasciava passare dalla parte anteriore a quella posteriore attraverso uno squarcio a forma di porta.

A destra della parte anteriore destinata al pubblico c'era un banco di mescita con alcune bottiglie di vino e d’acquavite e alcuni bicchieri di diversa grandezza. 

Là si trovava la padrona di casa, una donna di trenta-trentacinque anni che non sarebbe stata così brutta se una sporcizia rivoltante non ci avesse costretti a storcere lo sguardo.

A sinistra, in una rientranza, c'era una scrofa che aveva appena partorito e allattava una dozzina di porcellini, ed i cui grugniti avvertivano i visitatori di stare alla larga dal suo territorio. 

La parte posteriore, illuminata dalla finestra che si affacciava su un giardino è completamente ostruita da piante rampicanti, era l'abitazione della locandiera. 

A destra c’era il suo letto coperto da vecchie cortine verdi, a sinistra un enorme camino dove si agitava, coricato sulla cenere, qualcosa che nell'oscurità assomigliava a un cane e che un po' di tempo dopo scoprimmo essere uno di quegli orrendi idioti, dal grosso collo e dalla pancia penzolante che si vedono ad ogni passo nel Valais.

Sul davanzale della finestra erano sistemate sette o otto lampade a tre beccucci, e accanto al davanzale c'era il tavolo, coperto da odiosi stracci a brandelli che in Francia sarebbero stati buttati davanti alla porta di una cartiera. 

Quanto al soffitto, era a listelli e s'apriva su un solaio pieno zeppo di fieno e di paglia. 

Era quello il paradiso dove dovevamo stare con gli angeli. [...]

[...] ma dopo esserci consultati con il nostro pizziota, venimmo a sapere che in tutta Maida non avremmo trovato una sola locanda e molto probabilmente una sola casa comoda come quella che ci veniva offerta. 

Decidemmo quindi di entrare e facemmo un'ispezione dei locali: era, come avevamo già visto, da far drizzare i capelli. [...]

[...] la nostra ospite ... Si recò nel retrobottega che serviva anche da sala da pranzo, da salotto e da camera da letto e buttò una fascina nel camino; fu allora che, al bagliore della fiamma che l’obbligò a indietreggiare, ci accorgemmo che quello che avevamo scambiato per un cane pastore era un giovanotto di diciotto-venti anni.

Disturbato nelle tue abitudini, lanciò qualche lamento e si ritirò su uno sgabello nell'angolo più lontano del camino e fece ciò con i movimenti lenti e penosi di un rettile intorpidito. [...]

[...] Ho per sistema ad accettare tutte le situazioni della vita senza tentare di reagire contro l'impossibilità, cercando tuttavia di trarre immediatamente dalle cose il miglior risultato possibile. 

Ora mi parve subito chiaro come il giorno che, grazie ai topi della soffitta, alla scrofa del negozio e alla moltitudine degli altri animali che dovevano abitare nella stanza da letto, non avremmo dormito un solo istante.

Era una cosa da accettare con rassegnazione e lo feci rivolgendo il mio interesse alla cena.

C'erano dei maccaroni che non mangiavo. 

C'era la possibilità di avere, cercando bene con qualche sacrificio di denaro, un pollo o un tacchino; inoltre nel giardino dietro la casa c'erano diverse specie di insalata. 

Con tutto ciò e le castagne di cui avevamo piene le tasche non si fa un pasto regale, ma non si muore di fame.

Mi si perdonino tutti questi particolari; ma scrivo per gli infelici viaggiatori che possono trovarsi in una situazione analoga alla nostra e che istruiti dalla nostra esperienza potranno forse cavarsela meglio di come riuscimmo a fare noi. [...]

[...] Fu la volta del pollo girava come una trottola, era rosolato a punto e presentava un aspetto molto appetitoso; mi avvicinai per tagliare la cordicella e vidi l'idiota che, sempre disteso sulla cenere, manipolava non so che roba nel fuoco e in un piccolo piatto di terra.

Ebbi l’infelice curiosità di dare uno sguardo per vedere che cosa cucinava; mi accorsi che aveva raccolto con grande cura le interiora della nostra gallina e le faceva friggere. 

Era probabilmente una cosa molto ridicola, ma vedendo ciò, lasciai cadere il pollo nella leccarda sentendo che dopo tale vista mi sarebbe stato impossibile mangiare qualunque tipo di carne.

Siccome Jaden (l’amico pittore di Dumas) non aveva visto niente s’informò della causa per cui ritardavo a portare l'arrosto. 

[...] s’alzò anche lui e venne a vedere ciò che succedeva: trovò il povero idiota che mangiava a piene mani la sua spaventosa fricassea. 

Fu la sua rovina; si girò dall'altra parte bestemmiando con tutte le parolacce che la bella e ricca lingua francese poteva fornirgli.

L'idiota, intanto, lungi dal pensare che fosse lui la causa di quella doppia esplosione, non perdeva una boccata del suo pasto. [...]

[...] Solo la parola pollo pronunciata da uno di noi avrebbe avuto le conseguenze più negative; la nostra ospite stava per avvicinarsi al camino con un piatto in mano, ma le gridai che ci saremmo accontentati di mangiare l'insalata. [...]

[...] La nostra ospite per non farci aspettare l'insalata, diventata il piatto forte del pasto, s’affrettava lei stessa a condirla e dopo avervi messo l'aceto, che, come si sa, è una vera eresia culinaria, versava da uno dei tre beccucci l'olio della lampada nell’insalatiera. 

A tale spettacolo mi alzai ed uscii. [...]

(tratto dal capitolo “Maida” da “Viaggio in Calabria” di Alexandre Dumas 1835)

Dopo un'ora e mezza di cammino arrivammo a Vena. 

La nostra guida non ci aveva ingannati perché alle prime parole che rivolgemmo ad un abitante del paese ci fu facile capire che la lingua che parlavamo gli era perfettamente sconosciuta come a noi quella nella quale ci rispondeva. 

Ciò che venne fuori da quella conversazione fu che il nostro interlocutore parlava un dialetto Greco-Italico e che il paese era una delle colonie albanesi che emigrarono dalla Grecia, dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II.

La nostra entrata a Vena fu sinistra: Milord cominciò con lo strangolare un gatto albanese, che non potendo, in coscienza, vista l'antichità delle sue origini e la difficoltà di discutere il prezzo, valutare quanto un gatto italiano, siciliano o calabrese, ci costò quattro carlini: era un salasso serio per lo stato delle nostre finanze per cui, perché non si ripetesse un fatto simile, Milord fu messo al guinzaglio. 

Tale uccisione e gli urli lanciati non dalla vittima, ma dai suoi proprietari causarono un rassembramento di tutto il paese che ci permette di notare, dal tipo di costume di ogni giorno che portavano le donne, che quelli riservati alle domeniche ed alle feste dovevano essere molto ricchi e belli. 

Proponemmo allora alla padrona del gatto, che teneva teneramente il defunto tra le sue braccia come se non potesse separarsi neanche dal suo cadavere, di portare l'indennizzo ad una piastra se avesse voluto indossare il suo più bel vestito e posare perché Jardin le facesse il ritratto. 

La negoziazione fu lunga; ci furono delle discussioni abbastanza animate tra moglie e marito; infine la donna si decise; rientrò a casa e mezz'ora dopo uscì con un costume risplendente d'oro e di ricami: era il suo abito da sposa. 

Jardin si mise all'opera, mentre io cercavo di trovare qualcosa per il pranzo, ma nonostante tutti i tentativi riusciti solo ad acquistare un pezzo di pane. 

I tentativi reiterati della guida, rivolti allo stesso obiettivo, non furono più fortunati. 

Dopo un'ora Jadin finì il disegno. 

Ora siccome tranne che mangiare il gatto, che era passato dall’apoteosi al ludibrio e che due bambini trascinavano dalla coda, non c'era possibilità che riuscissimo a soddisfare l'appetito che ci affliggeva dal giorno precedente alla stessa ora, ritenemmo che non era opportuno di restare più a lungo nella colonia greca e ci rimettemmo in sella per riprendere il nostro itinerario. [...]

(tratto dal capitolo “Bellini” da “Viaggio in Calabria” 1835 di Alexandre Dumas - pagina 119 )


STORIA


Le origini ed il Medioevo


Il territorio di Maida fu abitato dai tempi più remoti

Lo testimoniano le numerose grotte presenti nella zona, certamente abitate in epoche lontanissime e alcuni reperti scoperti nel litorale: nel 1980, durante una campagna di scavi sono stati scoperti in località Casella manufatti in pietra risalenti al Paleolitico Inferiore; si tratta in maggioranza di choppers unifacciali e raschiatoi in scheggia. 

Altri manufatti dello stesso periodo, del Paleolitico Superiore e del Neolitico, sono stati rinvenuti perché portati in superficie dalle attività agricole: si tratta di schegge corte e spesse in selce, quarzite e diaspro, per la maggior parte raschiatoi.

Dal II millennio a.C. in poi ci furono varie invasioni di popoli indoeuropei, tra i quali ricordiamo gli Enotri; in seguito troviamo i Romani e i Longobardi.

Tra il VII e il VI secolo a.C. arrivarono i Greci, che, anche in questi luoghi, fondarono alcune città. 

Alcuni storici sostengono che a Maida sorgesse l'antica Lametia, altri la identificano con Melania. 

I Bizantini nell'VIII secolo fortificarono il borgo, che chiamarono Maghida, nome che sopravvive nel dialetto. 

Nel X secolo la fortezza venne conquistata dagli Arabi, e divenne parte dell'Emirato di Squillace.

Successivamente troviamo i Normanni, gli Svevi e gli Angioini

Fu occupata nel 1087 da Miera di Falluca, signore di Rocca Falluca e Catanzaro durante il conflitto che oppose l'erede del Guiscardo Ruggero Borsa al fratellastro Boemondo I d'Antiochia; a causa di questa conquista i Falluca persero i loro domini. Il trattato di pace del 1089 fra Ruggero Borsa e Boemondo stabilì l'assegnazione di Maida e di Cosenza a Boemondo in cambio di Bari.

Durante uno dei suoi viaggi, il 23 maggio 1223, Federico II si fermò a Maida e istituì una grande riserva di caccia parzialmente ricadente nel territorio del feudo di Maida. 

In questo periodo Maida perse gradualmente l'uso della lingua greca. Successivamente Carlo I d'Angiò assegnò il Castello di Maida in Feudo a Egidio di Santoliceto che però non si fece ben volere dai maidesi, tanto che, in sua assenza, la popolazione insorse distruggendo parzialmente il Castello. 

Dopo un'indagine durata 2 anni, Carlo d'Angiò fece punire i responsabili e ordinò la ricostruzione del Castello, durante la quale venne ampliato, dotato di granai, comprendendo l'attuale Piazza Roma.

Successivamente il Feudo continuò a passare di mano in mano ai Santoliceto al figlio, Egidio junior, poi a Guglielmo di Santoliceto, e infine alla figlia di quest'ultimo, Luisa. 

Successivamente il Feudo tornò alla Corona, che lo concesse alla Regina Sancha e nel 1334 Roberto d'Angiò assegna il Feudo di Maida a Goffredo Marzano, dopo aver ottenuto, nel 1331, il Castello dalla regina Sancha.


In questo periodo, fin dal 1385, ci fu una fuga, intensificatasi con il consolidamento del potere dei Caracciolo agli inizi del XVI secolo (1500), verso i paesi limitrofi per sottrarsi alla dominazione feudale.

Nel 1400 è padrone del Feudo Gualtiero Caracciolo detto il Viola, e da allora la famiglia Caracciolo sarà a lungo, tranne brevi pause, padrona del Feudo

Il 2 giugno 1459 i Maidesi si rivoltarono contro il feudatario per ottenere sgravi fiscali, il generale Davalos sedò la rivolta.


Nella metà del XV secolo (1400) arrivano dei coloni Albanesi che daranno origine all'abitato di Vena di Maida

Dopo la morte di Ottino Caracciolo il Feudo divenne Demanio Regio per volere di Re Ferdinando I d'Aragona, che concesse a Maida dei benefici. 

Successivamente Ferdinando assegnò Maida al figlio Federico, che concesse nuovi statuti, detti Capitoli; essi concedevano ai Maidesi il beneficio di commerciare con l'esenzione dalle tasse durante la domenica, negavano l'estradizione, gli abitanti potevano essere giudicati solo dalla magistratura del Feudo. 

Veniva vietata qualsiasi forma di requisizione non indennizzata, se non effettuata dal Principe, venivano abolite le corvé non indennizzate. 

Inoltre venne abolita la tassa di un terzo sul raccolto alla Corona, ed altri privilegi che favorirono lo sviluppo di Maida.


Secoli XIV (1300) e XVII (1600)


Nel 1496 sale sul trono napoletano Federico d'Aragona che conferma a Maida tutti i privilegi goduti precedentemente e ne elargisce dei nuovi. 

I maidesi erano molto legati a questo Re e diversi cittadini accorsero in sua difesa quando fu attaccato dal Re di Francia e dagli Spagnoli; Federico fu sconfitto e divenne viceré Consalvo di Cordova. 

Il periodo successivo fu difficile, caratterizzato da economia in crisi, diminuzione delle entrate e aumento delle tasse. 

Successivamente il Feudo fu venduto ai Loffredo, ma i Caracciolo continuavano a vantare diritti, specialmente sulle terre di Maida e Lacconia e la contesa venne risolta, tra il 1518 e il 1519, da Re Carlo V a favore dei Loffredo.

A seguito di tali avvenimenti l'economia di Maida crollò

A rendere la situazione più grave fu il pericolo di incursioni saracene: sebbene Maida non ebbe incursioni dai Saraceni, per proteggersi si costruirono, negli anni 1560, lungo la costa numerose torri di avvistamento, di esse sono ancora visibili i ruderi.

In questo periodo Maida ospitava un'Università e nel 1561 il Feudo di Maida contava 979 fuochi (famiglie).


Il Feudo divenne successivamente oggetto di diverse compravendite e dopo le nozze di Dianora Caracciolo con Marcantonio Loffredo il Feudo passò nelle mani di quest'ultima famiglia e fu elevato a Principato.


Nel XVII secolo (1600) sono da ricordare i terremoti del 1638 e del 1659 ed il peggioramento della situazione economica, che misero in difficoltà i feudatari che per migliorare l'economia fecero costruire canali irrigui, molini, acquedotti; ma le numerose tasse imposte resero molto tesi i rapporti con i cittadini, che uccisero uno degli ultimi dei Loffredo. 

Di positivo, in questo secolo, c'è un certo risveglio culturale con la presenza di un teatro e di un'Accademia, detta degl'Inquieti.


XVIII secolo (1700)


Nel dicembre del 1691 il Feudo fu acquistato da Fabrizio Ruffo, alla cui morte (1692) succedettero dapprima il nipote Francesco, poi il figlio di questi Carlo e, via via, altri eredi della famiglia, tra cui Ippolita che fu una buona feudataria, in quanto era cresciuta nella cittadina ed era legata affettivamente a Maida.

Per aiutare la gente, dopo il terremoto del 1783, essa fece aprire una filanda, in cui dette lavoro a molti disoccupati, promosse l'istituzione di piccole concerie e cercò di venire incontro ai bisognosi.


Il terremoto del 1783 produsse molti danni: caddero a Maida il castello, l'ospedale di San Pietro, il teatro, le mura cittadine e varie chiese; i morti furono 95.

Il governo pensò di intervenire per aiutare la popolazione requisendo i beni della maggior parte delle case religiose e costituendo la Cassa Sacra, ma causando la spoliazione dei numerosi Conventi e di conseguenza la privazione dei redditi derivanti dai quei beni.



Alla fine del 1700 si diffusero anche a Maida le idee Illuministiche e Giacobine

Il Cardinale Fabrizio Ruffo, nel marzo 1799, si recò anche a Maida per reprimere il movimento giacobino; impose tasse altissime ai nobili del luogo e riuscì a convincere molti cittadini a seguirlo nella sua spedizione napoletana.


In questi anni, tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800, sorsero numerosi palazzi, alcuni dei quali, secondo alcune fonti, furono progettati da un allievo del Vanvitelli.


XIX secolo (1800)


Durante il periodo della contro-rivoluzione borbonica, il 16 luglio 1806, il territorio di Maida fu teatro di una battaglia tra francesi ed inglesi, risoltasi in favore di questi ultimi.

I nomi "Maida Hill" e "Maida Vale" a Londra prendono origine da questa battaglia.



Il ritorno dei Francesi a Napoli segna la fine del sistema feudale, e una riforma amministrativa fa di Maida il capoluogo di un circondario comprendente tutti i territori dell'ex Feudo.


Il 29 agosto del 1860 i Maidesi assistettero al passaggio di Giuseppe Garibaldi che affacciandosi dal balcone di palazzo Farao annunciò la disfatta di diecimila borbonici, come ricorda la lapide posta sul palazzo.


Dopo l'Unità d'Italia, Maida visse gli stessi problemi economici e politici degli altri paesi del Sud: la terra era nelle mani di pochi latifondisti e l'unica risorsa era l'artigianato. 

Alla fine del 1800 iniziò l'emigrazione che continuò per tutto il 1900, con le uniche interruzioni durante le 2 guerre mondiali.



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