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Lettura del libro Il Bel Paese di Antonio Stoppani

Calabria 1950


I viaggiatori in Calabria del 1800 testimoni talvolta prevenuti quanto impietosi, si sono confrontati sempre e comunque con una regione che è un mondo, che per la sua costituzione ambientale raccoglie una sintesi di tutti gli ambienti del mondo, tanto che Guido Piovene afferma: "[...] Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso trattato di un labirinto.
Rotta da quei torrenti in forte pendenza, non solo è diversa da zona a zona, ma muta con passaggi bruschi, nel paesaggio, nel clima, nella composizione etnica degli abitanti [...]" 
"[...] Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frantumi. [...]".

Paradossalmente ma a ragione, affermò la viaggiatrice inglese Emily Lowe: «Evviva Calabria!
Terra che pericoli romanzeschi proteggono dall’invasione dei viaggiatori»
Isolamento mantenuto anche fino ai tempi recenti dall’insipienza dei Governi italici postunitari facendogli mancare le necessarie infrastrutture viarie.

E ancora Piovene, a proposito delle prevenzioni sulla Calabria: "[...] Tra i frutti del mio viaggio è la constatazione di quanto poco corrispondano i luoghi comuni sul mezzogiorno alle situazioni di fatto, non appena si esce da una visione letteraria generica, e se entra nel particolare. [...]"

Quello che segue è il racconto di 9 pagine e mezza delle 37 dedicate alla Calabria scritto da Guido Piovene nell’ambito del suo Viaggio in Italia del 1950, in cui afferma: "I giudizi oramai divulgati sulla Calabria, che abbiamo riesumato in breve, cedono il passo alla osservazione diretta; il nostro infatti è un viaggio, e non uno studio politico".


La Calabria non ha mai ricevuto nella tua storia tante provvidenze come oggi; è una verità di buon augurio con cui dobbiamo cominciare.
Purché segua subito dopo un'altra verità meno gradevole: i suoi bisogni sono immensi; la china da risalire è lunga. 
Non si tratta infatti in Calabria di modificare in meglio una struttura già esistente. 
Si tratta di rifare la struttura economica e sociale, spesso perfino il suolo.
Sulla prima radice del male nessun osservatore è discorde.
È uno squilibrio aggravatosi d'anno in anno dallo sviluppo demografico e quello economico. 
L'economia segnava il passo, la popolazione cresceva.
Dei mali derivati, inutile fare un elenco, che del resto tutti conoscono. 
La maggioranza dei Comuni mancava di acqua, di energia elettrica, di fognature, di scuole, di assistenza medica. 
L'alimentazione bassa; le case coloniche poche, e la popolazione stipata nei centri, dove molte persone dividevano una sola stanza, spesso un giaciglio, in abitazioni cadenti. 
Abituale era anche la convivenza con gli animali da cortile e i quadrupedi. 
Infierivano la malaria, debellata soltanto in questo dopoguerra, e oggi per fortuna quasi scomparsa; la tubercolosi, in regresso; una malattia che i medici definiscono anchilostomiasi, che rende l'uomo anemico, svogliato, debole ed inetto al lavoro. 
Se poi si guardano le scuole, nel 1909 Zanotti Bianco constatò che esisteva in tutta la Calabria un solo vero edificio scolastico.
Nel 1950, constatò ancora che su 7424 aule richieste, ne mancavano 6396. 
Veloce aumento demografico, economia statica: perciò grande eccedenza di popolazione passiva sulla popolazione attiva, sottoccupazione diffusa, gran numero di persone avvezze a vivacchiare e a trasformare l'indolenza forzata in filosofia, che poi è la cosiddetta filosofia del Mezzogiorno. 

Sarebbe inesatto pensare che lo Stato italiano non abbia mai speso nulla in Calabria. 
Soltanto, spese male, in lavori parziali e inorganici, paralizzati da interessi avversi, stesso suggeriti non tanto da un'utilità vera, quanto dalle immediate preoccupazioni elettorali ed allo zelo utilitario di deputati ansiosi di accontentare una clientela. 
Le pagine più colorite della letteratura economica sulla Calabria sono quelle che narrano questi disordinati tentativi di riassestarla; le loro conclusioni sono utili anche per noi. 
La Calabria viene definita un cimitero di opere pubbliche, arrestate a metà, quando il denaro dello stato finiva. 
I resti delle opere pubbliche, ringoiate dalla natura, sono variamente detti accampamenti abbandonati, rottami di un naufragio, sfasciume di miliardi. 

La Calabria e rocciosa è spaccata in profonde valli da una cinquantina di fiumi-torrenti con pendenze precipitose; il suo manto di boschi, di cui restano oggi solo splendidi avanzi, fu in gran parte distrutto da una popolazione povera, che cercava terreni per il pascolo o per la semina, oppure un immediato guadagno per sopravvivere; e subì di recente l'ultimo grave colpo dagli eserciti d'occupazione. 
I torrenti scendendo a mare nel periodi di piena disfanno la roccia senza difesa e la trascinano con sé.
Le bonifiche fatte sulle piane costiere, senza risanare il monte, erano perciò precarie e furono in gran parte spazzate via.
Sono accenni per indicare una tra le caratteristiche principali della regione. 

Tutto ciò che si compie senza aver prima rifatto, con metodo e con pazienza, l'ambiente morale, sociale, economico e perfino fisico, di fronte alla prolificità galoppante, è una costruzione compiuta sopra fondamenta marcite, oppure troppo piccole e deboli per sostenerla.
V'è un'altra verità su cui quasi tutti gli autori meridionalisti convengono. 
Le riforme, comprese le bonifiche, furono ostacolate e vanificate dal blocco di potenti interessi locali
Si chiamassero conservatori, o liberali, o socialisti, divisi spesso nelle idee, ma uniti dalla spinta sorda e spesso inconsapevole dell'interesse, quelli che comandavano erano i protettori naturali dell’immobiliarismo; ruotavano nella loro orbita il magistrato ed il legale, il sindaco ed il banchiere, il giornalista e l'impiegato. 

La cultura arretrata, estensiva dei campi rendeva di più ai proprietari; limitarsi a raccogliere gli affitti imposti a gente avida in terra e in lotta per sopravvivere, era più conveniente di investire capitali, contrarre debiti, mettere in gioco attitudini spesso scarse, nell’alea [àlea (dal latino alea «gioco di dadi» si ricorda la frase di Giulio Cesare al Rubicone "Alea iacta est" il dado è tratto, è stato gettato) - antico gioco d’azzardo - rischio, sorte incerta: correr l’alea, affrontare il rischio, tentare la sorte; nel linguaggio giuridico, alea normale del contratto, quel grado di incertezza economica che è implicito in tutti i contratti, in quanto dall’avverarsi di circostanze estrinseche e future può dipendere il vantaggio dell’una o dell’altra parte] economica e anche politica della trasformazione agraria. 
È una premessa che occorre tenere presente parlando di Riforma agraria ed anche nel criticarla. 
La Riforma è anzitutto un primo tentativo di eliminare una struttura attraverso la quale si doveva operare, ma che rendeva l'operare impossibile, giacché lo strumento stesso era ostile all'esecuzione.

Il dopoguerra, accompagnato dal risveglio politico di quelle che furono dette le plebi rassegnate e sanfedistiche dell'Italia meridionale, ha dovuto dunque affrontare una regione in gran parte malata di depressione cronica.
La scomparsa della malaria, che fu con la miseria il massimo incitamento ad una emigrazione depauperatrice, è il primo successo ottenuto.
Bisogna trasformare il regime fondiario, e accompagnare tale trasformazione con vaste bonifiche idrauliche e l'attrezzatura tecnica; arrestare il disfacimento del suolo; favorire lo spargersi della popolazione nelle campagne, e modificare finalmente il rapporto tra l'agricoltura è l'industria, oggi di gran lunga troppo favorevole all'agricoltura.
Che qualche risultato sia stato ottenuto, lo provano le statistiche.
Aumentata la produzione del frumento, dei pomodori, dell'avena, delle patate, dell'uva, del vino, delle barbabietole; accresciuto l'impiego dei fertilizzanti chimici come le spese di consumo.
Il ritmo dell'aumento delle macchine agricole e dei motoveicoli è oggi più forte che nell'Italia settentrionale.
Tutti i comuni calabresi tra poco avranno l'acquedotto.
Si tratta di creare tutte le premesse mancanti della vita sociale e direi di aggredire gli animi e la natura.
Questa fase della storia calabra rappresenta un primo urto ha una struttura asfittica, che non poteva sostenere le innovazioni.

I giudizi oramai divulgati sulla Calabria, che abbiamo riesumato in breve, cedono il passo alla osservazione diretta; il nostro infatti è un viaggio, e non uno studio politico.

Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso trattato di un labirinto.
Rotta da quei torrenti in forte pendenza, non solo è diversa da zona a zona, ma muta con passaggi bruschi, nel paesaggio, nel clima, nella composizione etnica degli abitanti.

È certo la più strana tra le nostre regioni.
Sulle sue vaste plaghe montane talvolta non sembra d'essere nel mezzogiorno, ma in Svizzera, nell'Alto Adige, nei paesi scandinavi.
Da questo Nord immaginario si salta a foreste d'olivi, lungo coste del classico tipo mediterraneo.
Vi si incuneano canyons che ricordano gli Stati Uniti, tratti di deserto africano ed angolo in cui edifici conservano qualche ricordo di Bisanzio.

Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frantumi.
Si deve a questo se i viaggiatori stranieri, in Calabria, rimangono disorientati.
Non riescono a definirla.
La trovano diversa, non solo dalle altre regioni italiane, ma da qualsiasi parte del mondo, e tentano a valutarne la civiltà.
Le influenze greche non vi lasciarono traccia così forte come in Sicilia.
Né la Calabria ha nulla di levantino, nonostante i rapporti con i paesi ad Oriente.
Un poeta straniero mi disse un giorno che essa ha un fondo piuttosto epico che lirico, a somiglianza della Serbia o del Montenegro.
I bruschi trapassi si vedono anche nelle culture, nell'assetto economico.
Ai residui di latifondo fa riscontro una piccola proprietà frazionata.
Ai fitti coltivi, alla popolazione densa lungo il Tirreno, si contrappone il silenzio delle plaghe interne, dove si estendono pascoli e boschi solitari, vuote di uomini l'inverno, perché la loro popolazione stagionale si raduna nei centri.

Anche le coste sono a mosaico; senza contare il contrasto tra la ionica e la tirrenica.

La tirrenica a da prima rocce scortese sulle acque, tra cui gli uomini riescono ad inserire a malapena qualche ritaglio di cultura: il tratto che fu definito della miseria al sole.
Ma più a sud si apre la fertile piana di Sant'Eufemia, una delle tre piane che variano nella Calabria il duro paesaggio appenninico, già redenta in gran parte dalla bonifica.
Sotto, nel vibonese, la fertilità si accresce, e si diffonde, come nella "Campania Felix", il virtuosismo delle molte colture.
Segue la piana di Rosarno, meno ubertosa, ma col mare degli olivi giganti che penetra le spalle nella montagna.
In ultimo, fino a Reggio, lo spazio dei giardini d'agrumi.

Sulla costa ionica, la grande piana di Sibari, bonificata ma solcata da decine di letti di torrenti che la minacciano; il marchesato di Crotone, dove ti ritrova il paesaggio tipico del latifondo; e lunghi tratti di deserto quasi lunare, di un giallo pallido, rotti dalle fiumare che portano i monti a valle, magnifici e disperati.

La Calabria, dicevo, è una mescolanza di mondi.
Nessuna delle sue città vi ha potuto affermare sulle altre un primato riconosciuto.
Lo ambiscono egualmente: Reggio con la più grande potenza come la più ricca e in rapida crescita, e Catanzaro che rivendita tradizioni di aristocrazia.


Già a Castrovillari, scendendo dal nord, si vede come il colore meridionale, e la psicologia ch’esso comporta, stiano oggi estinguendosi.
Castrovillari è una cittadina moderna, composta essenzialmente di due lunghe strade in croce.
Somiglia a un grosso borgo pioneristico degli Stati Uniti, con le botteghe emporio, che vendono un po' di tutto.
Vi spiccano, nelle mostre, i salumi, le soppressate che sono forse le migliori d'Italia, e un'altra specialità del luogo, un impasto piccante di alici bagnate nel sale, peperoni tritati ed olio.
Questi peperoni tritati, più forti della paprika, si insinuano dappertutto nella cucina calabrese ed infuocano i cibi; se bene anche la cucina vada oggi uniformandosi ad usanze più dolci.
La cittadina antica, con un bel castello e un panorama di profonde vallate dall'alto di un colle, e come accantonata da quella nuova.


Già in questa prima parte della Calabria emergono le splendide incongruenze della sua natura.
Nella valle che sale a Castrovillari dalla costa tirrenica sia un paesaggio rupestre, con boschi di faggi e castagni, meridionale solamente per la solitudine; ma se si scende verso la costa jonica, ecco panorami di canyons stretti che spaccano la roccia, e la piana di Sibari rotta dalle fiumare.

E Corigliano Calabro, che la chiude a sud, è già il tipico borgo della costa orientale, arrampicato su un colle, in salita erta, incoronato dal castello Compagna: con un numero di abitanti che nel Nord ne farebbe una vera città, affollatissimo di contadini che non vivono nella campagna, folto di botteghe artigiane, e con un personaggio che troneggia sulla folla, la guardia municipale bonaria.


Qui, come spesso in Calabria, quando giunge una macchina sbucano frotte di bambini, vi si assiepano intorno, e non appena il nuovo venuto si muove lo seguono passo passo, aumentando fino a divenire un corteo.

Ancora presso Castrovillari, e sui monti verso Cosenza, sta la corona di villaggi albanesi: Spezzano, San Demetrio Corone, Santa Sofia d'Epiro, Lungro.


Vi si conservano, come in isolotti, specie nei più lontani dalle grandi arterie, la lingua, le usanze e i riti della terra d’origine, nelle funzioni religiose, nei matrimoni e nelle esequie.
Sarebbe però troppo lungo addentrarsi in questi avanzi di folklore, forse in procinto di sparire, che possono essere apprezzati soltanto con la convivenza.
Un accenno speciale spetta ai loro canti albanesi, nei quali la nenia orientale sembra mescolarsi a ritmi che ricordano gli spirituals negri.
Nei dintorni di San Demetrio Corone sorge la chiesa di Sant'Adriano con affreschi bizantini simili a quelli di Monticchio nella Lucania ed apparentati ai mosaici di San Vitale di Ravenna.
San Demetrio è anche sede di un collegio che ebbe rinomanza nei tempi non lontani in cui ospitava l'unico liceo di una vasta zona.


Il colore meridionale svanisce anche nei vestiti.
Il modesto costume da lavoro si incontra ancora; così qualche vestito arieggiante al costume.
Ma per vedere un esemplare dei ricchi abbigliamenti festivi bisogna fare qualche sforzo, molto più che in Sardegna e nello stesso Abruzzo.

Della passione storica ed umanistica, propria alla borghesia di un tempo, rimangono residui, ma soltanto residui.
La trasformazione del mondo meridionale è veloce.
Dove è morta la vecchia civiltà, e non ne subentra una nuova, si ha un intervallo di vuoto, di grigiore e di noia.

Nella piccola Castrovillari, in cui non è ancora nata l'industria, ed in cui, come spesso accade, i lavori compiuti dalla SME, Società Meridionale Elettricità, portarono una ventata di benessere effimero senza mutare le condizioni di fondo, vi sono oltre cento avvocati regolarmente iscritti all'albo.

Si parla spesso delle tristi condizioni in cui abbiamo raccolto il proletariato ed il sottoproletariato calabresi.
Ma forse varrebbe la pena di indugiare sulle condizioni di una media e piccola borghesia, che oltre ad essere povera è anche disorientata; una piccola e media borghesia che compie sacrifici eroici per far studiare i figli, spesso inutilmente perché il titolo di studio non basta a trovare un impiego.

La noia, l'attesa senza speranza, l'impossibilità di usare le doti naturali e i frutti dei propri studi, portano l'intellettuale ad uno stato cronico di nevrastenia; con quell’attaccamento un po' lamentoso alla propria persona, ai propri comodi, alle proprie abitudini, che molti stimano una causa, ed invece è l'effetto, dell’inanizione morale.

Ogni incontro, e ogni colloquio con la classe media sprigionano intorno a noi, simile ad un vapore pungente, l'atmosfera di Cechov; lo scrivo qui perché non mi è ancora accaduto di trovare una identità così stretta tra l'opera di uno scrittore e una situazione di fatto; e questo è uno, per fortuna non l'unico, tra i leitmotiv della Calabria.
La realtà mi ha recitato davanti agli occhi diecine di Zio Vanja e di Giardino dei ciliegi; gente agitata dal miraggio febbrile dell'evasione, dell’andar lontano, del mutare esistenza, senza però la fiducia che questo avvenga, anche perché invecchiata nelle consuetudini fisiche e nei legami familiari.
Così il tempo passa nel sogno, nevrotico ed impossibile, del mutamento, della fuga, di un approdo futuro e nebuloso, che si chiama la vita.

Il dirigente di un'azienda, o di una scuola, o d'altro, a cui ricorri per ricevere informazioni, ti accoglie spesso dicendoti come premessa: «Mi domandi quello che vuole, ma sappia che il mese venturo andrò via»; sono le parole chimeriche che ho udito ripetere nei tristi luoghi di clausura forzata.
Essendo un giornalista anch'io, non ho potuto ascoltare senza vergogna che i grandi giornali delle metropoli pagano i corrispondenti locali nel mezzogiorno fin 400 lire per un articolo.
E anche nel darmene notizia si palesava l'anima meridionale, che crede nell'autorità, e si pensa tradita non dal re senza pecche, ma da coloro che l'attorniano e lo tradiscono.
«Se lo sapesse ...» mi diceva un tale nominando il direttore di un grande giornale lontano.
«Se potessi arrivare fino a lui, come sarebbe diversa la mia condizione!»
Sono osservazioni ho messo qui perché mi sono venute a taglio; ma valgono per tutta la Calabria e per tutto il Sud.

Su questo sfondo si vede sorgere il prodigio inatteso di una città, Cosenza: ricca, colorita ed attiva.
Per spiegarlo, bisogna ricordare che la Calabria è come pervasa da un movimento migratorio: in parte verso l'America o altre regioni; ma in parte convergente sui centri maggiori.
L'atmosfera dei capoluoghi perciò è quasi sempre in antitesi con quella del circondario, che invece si va spopolando, e in alcuni paesi ha perso oltre la metà degli abitanti.

Cosenza è uno dei fenomeni, dico fenomeni nel senso spettacolare, del nostro Mezzogiorno, come Pescara nell'Abruzzo.
In proporzioni ridotte, si pensa alle città dei primordi del Texas, a Huston per esempio, enormi teste senza corpi.
Nel dopoguerra Cosenza si è addirittura raddoppiata.
Espandendosi sulle colline, anch'essa accampa ormai diritto ad essere chiamata «la città dei sette colli».
Questa è un'osservazione scherzosa.

In realtà i Cosentini, come in genere i calabresi, sono di ingegno esatto e rifuggono dalle iperboli.
La Calabria e Cosenza in maniera speciale, hanno spiccate attitudini alla filosofia.
Se Napoli la vince in scintillio dialettico, si riscontra in Calabria un più essenziale rigore speculativo; che potè manifestarsi in filosofi come il Campanella e il Telesio, ed anche prendere le vie della visione mistica, come in Gioacchino da Fiore.
I movimenti vi sorgono quasi sempre da un punto positivo più che fantastico.
Qualcuno contrappone la Calabria, speculativa ed incline alla precisione, alla Basilicata, di indole più fantastica e più poetica.
Non per nulla sorse a Cosenza quell'Accademia cosentina, tra le più celebri d'Italia, che fu illustrata dal Telesio, nel Seicento divenne, per amore della realtà, centro dell'opposizione al gusto stravagante dei marinisti [il termine "marinisti", con cui si indicano i poeti secenteschi che si ispirarono esplicitamente al modello del Marino, fu coniato da un contemporaneo e rivale del caposcuola, Tommaso Stigliani, ed ha avuto fino dal suo sorgere una connotazione spregiativa. 
Il marinismo fu uno stile usato in poesia e nel dramma in versi, che si caratterizzava per una tendenza all'arguzia e all'ornato. Deve il suo nome al poeta Giovan Battista Marino (1569-1625).
La definizione intende denunciare la scarsa originalità, la tendenza all'imitazione pedissequa, la monotonia dei temi, l'eccesso di retorica e la vuota magniloquenza che, secondo un giudizio critico drasticamente negativo, caratterizzano (salvo poche eccezioni) il complesso della lirica concettista del XVII secolo].
Vecchia di oltre quattro secoli, tale Accademia vive ed opera ancora, benché con scarsi mezzi.

Il declino attuale degli studi umanistici nel mezzogiorno non ci consente di chiamare Cosenza l’Atene calabrese, come fu nel passato; pure vi si respira ancora un clima dove la cultura è endemica, capace di rifiorire.

Tra i frutti del mio viaggio è la constatazione di quanto poco corrispondano i luoghi comuni sul mezzogiorno alle situazioni di fatto, non appena si esce da una visione letteraria generica, e se entra nel particolare.

Ho incontrato a Cosenza Don Luigi Nicoletti, figura tipica del vecchio Mezzogiorno, nel tempo stesso latinista, grecista, storico, uomo spiritoso, esperto in maneggi politici e discendente alla lontana di Alessandro Manzoni.
Non ne cito il nome soltanto come dato di cronaca.
Corrente critica, fredda, arguta: vi circola veramente, emigrato dal Sud, un rivolo dell'umorismo che noi chiamiamo manzoniano.
Il nordico vi si trova bene.
Notiamolo fra i tanti paradossi della Calabria.


Cosenza cominciò a rinascere con la ferrovia ai tre quarti dell'Ottocento.
Città di fondovalle, chiusa tra i monti, scoraggiava prima coloro che volevano entrarvi o uscirne.
Essi dovevano traversare alti valichi ingombri l’inverno di neve, e, se venivano dall'est, le zone dominate dalla malaria; senza contare il banditismo.
Ci voleva una settimana per recarsi a Napoli.

L'apparizione della città moderna, che cambiò la faccia a Cosenza, ebbe inizio tra il 1925 e il 1930; ma la crescita fenomenale, grazie anche alla notevole vitalità dell'iniziativa privata, è degli anni più recenti di questo dopoguerra. 

Sono radunate a Cosenza quasi tutte le industrie: lanifici, saponifici, cartiere, concerie, mobilifici, e soprattutto stabilimenti per generi alimentari; oltre ad un'industria speciale, quella per l'estrazione del sugo della liquorizia, la cui radice è merce di esportazione anche in America, perché entra nella conta del tabacco americano.

Più ancora che città industriale, Cosenza è però città di mercato, giacché affluiscono in essa i prodotti agricoli, come l'olio e gli agrumi.
La Cassa di Risparmio della Calabria, la grande potenza del luogo, è abbastanza larga di credito.
Si spera che sorga a Cosenza, come è sorta a Piacenza, un’università cattolica per gli studi di agraria, attirando anche studenti del Medio Oriente, e trattenendo in parte gli studenti locali; i quali oggi emigrano tutti, a Roma i più ricchi, a Napoli e a Bari i medi, ed i più poveri a Messina.
Una simile università cadrebbe oggi al punto giusto.
Ferve infatti il lavoro per la Riforma agraria, che sta redimendo la Sila e la costa ionica, sviluppandone la produzione, e facendo altresì convergere nel capoluogo molti tecnici e forze nuove.

La Cosenza moderna, posta nel fondovalle, non insidia l'antica, che di là dal Busento occupa invece la collina.
Si hanno due città, separate ed unite, ma entrambe vive in maniera diversa.
È una prova di come sia possibile far sorgere quartieri nuovi, e trasportare altrove il centro della vita attiva, senza distruggere l’antico.
Grazie a tale criterio, Cosenza è almeno da quest'angolo una città veramente moderna.

Soffia nella città vecchia l'aria della vecchia Napoli.
Una congerie di edifici, quasi una casbah piena di nobili avanzi, copre la collina rapida, percorsa da vicoletti tortuosi, rotta da gradinate e sottopassaggi.
Vi si stipano case popolari, talvolta con le scale esterne a pergolato, palazzi signorili, chiese; quasi agglomerando tutti i detriti degli stili che signoreggiano a Napoli, dal gotico al catalano.

La vita brulicante di questi vicoli cola sulla via maggiore, che li costeggia al margine, e si chiama Corso Telesio.
È una Spaccanapoli stretta, erta, anch'essa tortuosa, battuta a precipizio da carrozzelle cigolanti: un campionario di suoni meridionali, secondo la definizione che ho letto, forse perché si concentrano in poco spazio come api in un alveare.
Si radunano qui i contadini che scendono dalla Sila.
Le bottegucce espongono in nature morte i cibi tipici locali: caciocavallo, pecorino, le caciotte silane imbottite di burro, i fichi secchi con la mandorla o con la noce, l'uva passita e i fichi avvoltolati a palla e incartocciati nelle foglie di lauro, la mostarda d’uva; cibi pastorali o agresti, che alimentano da tempo piccole industrie.
A tre quarti di strada sono il Duomo e l'Arcivescovado, che ci colpisce entrandovi per il suo degno aspetto, insieme di ministero e di banca; il clero è potente a Cosenza, ed un energico Arcivescovo, nemico, a quanto mi è stato detto, del ballo, ne controlla il costume.
Si può vedere nel palazzo, tratta dalla cassaforte, la Croce reliquiario d'oro con smalti, filigrane, granate, donata da Federico II, opera siciliana sotto influsso orientale del periodo Normanno-Svevo; il più famoso oggetto d'arte rimasto in Calabria, insieme con il codice cosiddetto purpureo, che si trova a Rossano.
Gli azzurri, i rossi, i verdi di questa Croce cosentina sono di quel gusto orientale, delicatissimo, che rifugge i colori netti e ricerca i colori ambigui.
Lasciato l'Arcivescovado, si sale ancora costeggiando alcune case gentilizie, perché la nobiltà vive in Cosenza vecchia; si getta uno sguardo al giardino orientale del barone Passalacqua, quasi una goccia di Sicilia in ambiente napoletano; si arriva in alto, all'Accademia, alla Biblioteca Civica, al teatro purtroppo devastato dai bombardamenti, finalmente alla villa con lo splendido viale d’elci che domina la vallata.
Un tempo questo viale di gusto partenopeo era la passeggiata della città; oggi si passeggia a valle, nella maggiore arteria nuova, il corso Mazzini, tra i palazzoni, i caffè e i negozi del Novecento.
È un trasferimento che sembra condensare, quasi in forma di apologo, il cambio di umore nel mezzogiorno.

Talvolta si ha l'impressione di passare, a Cosenza, da una città borbonica a una città americana.
Il corso Mazzini è una piccola Broadway.
Quei palazzoni, quei caffè, quei negozi che espongono i più recenti modelli di Dior e di Fath, e ostentano vetrine di un modernismo milanese, quando Milano vuol dare dei punti all'America, ricordano come Cosenza sia la città della Calabria che paga più ricchezza mobile.
Il contrasto tra le due Cosenze è però come emulsionato dagli abitanti, che sono gli stessi dovunque, e che mutano meno presto delle costruzioni.
Al posto delle automobili pubbliche, si usano le carrozzelle, mezzo normale di trasporto, sfrenate a corsa pazza sia nella parte vecchia sia nella nuova, tra Broadway e la villa borbonica.
Cosenza si presenta ancora la più spettacolosa concentrazione di avvocati del Mezzogiorno: si fa colazione tardi, perché gli avvocati compaiono in tribunale tra 11:30 e le 12:00; si cena alle 11:30 di sera, ritornando dallo spettacolo, prima di coricarsi.

E come tutto il mezzogiorno influenzato da Napoli, Cosenza alterna abitudini agresti e delicatezze francesi.
Comincia a diffondersi il burro, fino a ieri quasi straniero; ma uno dei piatti Cosentini è un piatto francese: le patate tagliate a fette, pressate insieme e messe al forno.

La devozione cittadina resta divisa in mezzadria tra la Madonna del Pilèrio, che nel 1600 preservò la città dalla peste e porta sulla guancia la macchia nera del morbo, ed il santo locale San Francesco di Paola.
Altro San Francesco, mi dicono, sarebbe accolto da espressioni di contrarietà vivace.
Sulle colline, a Laurignano, sorge il convento con la chiesa sontuosamente rifatta dei passionisti, la cui Madonna è anch'essa meta di pellegrini.

Salendo, possiamo dare un ultimo sguardo alla città, che riposa a Valle, sul punto dove il Busento si versa nel maggiore fiume calabrese, il Crati.
È nota la leggenda per cui il tesoro di Alarico, deviato il corso del Busento, fu sepolto nell'alveo, dove subito dopo si ricondussero nelle acque.
Ma è ancora incerto il luogo preciso.
I ricercatori italiani o stranieri, che compaiono ad ogni primavera, per ora hanno trovato soltanto fanghiglia.

(La Calabria da «Viaggio in Italia» di Guido Piovene - 1950 - pagine da 657 a 667)

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