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Lettura del libro Il Bel Paese di Antonio Stoppani

Campania: Furore e amore un miracolo d'arte, cinema e bellezza


Furore è un comune italiano della provincia di Salerno in Campania.
Conosciuto anche come “il paese dipinto”, rientrante tra i Borghi più Belli d’Italia, è situato sulla cima di una scogliera e, raggiungibile unicamente tramite un percorso tortuoso, è una meta ambita, misteriosa, incastonata in un paesaggio impervio quanto affascinante.
Questo contenitore di abitanti, storie, passioni, tradizioni, leggende e turisti innamorati, più che un paese, è un abitato sparso con le case disseminate che spuntano dai costoni lungo il suo celebre Fiordo di Furore, che probabilmente ha ispirato il nome del paese per via del fragore delle onde del mare che si infrangono sulla roccia.
Tra giardini fioriti, pergolati, tetti rossi, mare cristallino questo minuscolo borgo è davvero da sogno; non a caso è stato abitato da Roberto Rossellini e da Anna Magnani, a lui sentimentalmente legata, che vi girò l’episodio “Miracolo” del film “L’amore”.

FURORE

Regione: Campania
Provincia: Salerno SA
Altitudine: 250 m slm
Superficie: 1,8 km²
Abitanti: 761
Nome abitanti: Furoresi
Patrona: San Pasquale Baylon (17 maggio)
Diocesi: Arcidiocesi di Amalfi - Cava de' Tirreni

www.comune.furore.sa.it

www.prolocofurore.it


borghipiubelliditalia.it/borgo/furore

www.cittadelvino.it/comune-di-furore

www.tuttitalia.it/associazioni/paesi-dipinti

www.unescoamalficoast.it







 GENIUS LOCI
(spirito del luogo)

Il simbolo di questo luogo stretto tra mare e monte è la “volpe pescatrice“, animale legatissimo alla terra, al bosco, che si spinge a mare per bisogno e diventa pescatrice.
Così fa il furorese, contadino e pescatore, vignaiolo e marinaio, “con un piede in barca e uno in vigna”.
Il borgo marinaro del Fiordo è il rifugio dell’uomo di mare, lo sparso abitato in collina è il teatro delle sue attività agricole e artigiane.

La Terra del Furore è l’altra faccia della costiera, quella “dove i rumori non sono altro / che una lieve imperfezione del silenzio”.
“Luogo caro agli dei - l’ha definito Katia Salvini -, un giardino pensile abbarbicato alla montagna e proteso sul blu del mare e del cielo”. 

Con le sue case sparse, sembra nato da un mazzo di carte sparpagliato dal vento.
Sui ripidi fianchi del canyon, o su qualche omerica rupe discoscesa, potrebbe celarsi una divinità addormentata: un nudo fauno, rievocato dagli eretici dell’amore libero, o una sirena, avvistata da una scalinatella, da una barca sul mare o dal sentiero dell’agave in fiore. Questo è Furore: un pozzo di desideri mitici, il respiro di una civiltà sul ciglio di una rupe pendente sul mare.



IDENTITA' TERRITORIALE

L’antica Terra Furoris
I Romani fuggiaschi, inseguiti dai Barbari, si rifugiarono su queste montagne e vi fondarono i primi insediamenti: Scala, Ravello, Furore.
Poi da quassù scesero verso il mare, fine a diventare navigatori abilissimi.
Nacque così la gloriosa Repubblica Amalfitana.

Furore restò, per la sua particolare conformazione, una roccaforte inattaccabile anche al tempo delle incursioni Saracene.
I suoi abitanti si dedicarono in particolare alla pastorizia e all’artigianato.
Il Fiordo rappresentò un porto naturale, nel quale si svolsero fiorenti traffici e si svilupparono le antiche forme di industria: cartiere e mulini alimentati dalle acque del ruscello Schiato, che discendeva dai Monti Lattari.
Il nome Furore derivò dalla particolare furia che il mare assume nei giorni e nelle notti di tempesta e dal fragore dei flutti sulla scogliera e nel Fiordo, con rumori spaventosi e assordanti.
Comprendeva anche un sobborgo, denominato “Casanova”, poi assorbito nell’espansione del paese e la cui denominazione è scomparsa.
Alcune delle famiglie più importanti hanno dato il nome a luoghi e strade: Le Porpore, Li Cuomi, li Candidi, Li Summonti.
 
La famiglia dei Summonte, proprietari di Furore, trasferitisi definitivamente a Napoli, la Capitale del Regno, verso la metà del 1400, lasciarono qui la loro impronta, costituendo un cospicuo “legato” in ducati, con le cui entrate annue doveva maritarsi una “zitella povera e onesta” di Furore.
I Furoresi erano, a loro volta, tenuti a recare alla dimora napoletana dei Summonti, in segno di gratitudine e di rispetto, “tre rotola di ragoste, bone vive et apte a riceversi”.

Lo storico Matteo Camera definisce i Furoresi cittadini “laboriosi e manierosi”, dotati di “forte tempera”, numerosi sono, infatti, i “centenari” e fra questi si ricorda un certo Jorlandino Merolla, vissuto fino alla veneranda età di 125 anni.

Simboli
La simbologia è sicuramente una chiave utile per penetrare lo spirito di una comunità.
Tentare l’accesso ai simboli presenti è perciò, interessante perché la simbologia s’integra magnificamente e rappresenta il costume di vita e l’essenza stessa della gente di Furore.
Specie se si privilegiano quelli più significativi dal punto di vista della storia e della cultura locale.

Il significante allude sempre a qualcosa che va al di là della sua forma esteriore.
Esso proviene, infatti, dal complesso firmamento dell’immaginario collettivo e ha molteplici valenze, che non sempre possono essere spiegate in modo univoco.
Ciò premesso, possiamo individuare quei segni meritevoli d’indagine, per capirne il significato metaforico e accedere così alla segreta anima dell’antica Terra Furoris.

La Colonna che troneggiante nello stemma e nel gonfalone del Comune, esprime, secondo il simbolismo classico, forza, sapienza, bellezza.
Secondo la lettura psicoanalitica, simbolo fallico, ed indiscutibilmente il suo forte valore espressivo, quale testimonianza di mascolinità,
bene rappresenta un paese dove la demografia ha fatto sempre registrare la supremazia dei maschi sulle femmine.
Lo conferma la tendenza nel linguaggio parlato a usare al maschile termini originariamente di genere femminile: è ad esempio ‘o ccarne, ‘o ppaste, ‘o nneve, ‘o tterra.

Le 3 contrade di Furore, corrispondenti agli ambiti territoriali delle 3 Parrocchie (Santo Jaco, Sant’Agnelo e Sant’Elia), sono contrassegnate da 3 Stemmi: il Ciuccio, la Gatta e la Cicala.
Emblemi, la cui interpretazione, volendo rifuggire da forme araldiche o favolistiche, può avvalersi di precisi codici di lettura psico-sociologica.
Il Ciuccio, ritto sulle zampe posteriori, allude a Priapo, dio della fecondità.
I Greci lo facevano cavalcare da Dionisio, mentre i Romani lo hanno visto al seguito della dea Cerere; a Furore le 2 divinità del mondo classico hanno sicura cittadinanza.
La Gatta, secondo la psicologia “animale femmina per eccellenza”, è abbinata alla dea Diana e resta inconfondibile emblema di libertà e di attitudine a vivere in condizioni difficili (infatti, la rupe furorese non può dirsi agevole).
La Cicala, infine, è il simbolo dell’immortalità, della spiritualità, della vita dopo la morte, tant’è che nell’antica Cina si usava mettere in bocca ai defunti un amuleto di giada a forma di cicala. 



ORIGINE del NOME 
(Toponomastica)

Terra Furoris, ovvero Terra del Furore, è l’antico nome del paese e trae origine dalla furia delle acque del mare all’interno del fiordo.
Del toponimo non sono state recuperate altre forme storiche che possono chiarirne l'origine, che per ora è incerta anche se si può richiamare un riscontro formale con Masseria Furore in Sicilia e con l'italiano "furore", che potrebbe essere divenuto un elemento antroponimico tramite, poi, del nome locale.


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TERRITORIO

«(…) Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d'Italia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. (…)»
(Giovanni Boccaccio, Decameron - II giornata, IV novella)

Furore fa parte della Costiera Amalfitana, il tratto di Costa Campana, situato a sud della Penisola Sorrentina, che si affaccia sul Golfo di Salerno; è delimitata a Ovest da Positano e ad Est da Vietri sul Mare.
È un tratto di costa famoso in tutto il mondo per la sua bellezza naturalistica, sede di importanti insediamenti turistici.
Considerato Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, esso prende il nome dalla città di Amalfi, nucleo centrale della Costiera non solo geograficamente, ma anche storicamente. 



Furore è definito "il paese con c’è" essendo costituito da uno sparso abitato che si estende sulle balze collinari della Costa d’Amalfi da quota 600 m slm al mare.
Questa particolare conformazione geo - morfologica lo rende "un paese non paese" con un’identità molto labile e difficile da consolidare.


Alcune località prendono i nomi dalle famiglie che vi abitarono, oltre a Casanova, quindi, vi sono anche Li Summonti che prende il nome dalla famiglia Summonte, Le Porpore dalla famiglia Porpora, Li Cuomi dalla famiglia Cuomo, Li Candidi dalla famiglia Candido, Vespoli, Galli, Teglia. I Cognomi più ricorrenti erano: di Florio, Cuomo, di Milo, Merolla, Penna, Ferrajolo, Porpora, Amendola, Amodio, Anastasio, Avitabile, Candido, Cavaliere, Cennamo, Criscuolo, di Rosa, Gentile, Giovine o Iovine, Lama, Lauritano, Manzo o Manco, Rispolo, Sovieno e Sparano 


 STORIA

Età romana, nel tardo Impero, i Romani fuggiaschi inseguiti dai Barbari si rifugiarono su queste montagne e vi fondarono i primi insediamenti, tra cui Furore.
Per la sua conformazione, quel pugno di case non fu espugnato nemmeno al tempo delle incursioni Saracene.
1319, un atto notarile nomina per la prima volta la Chiesa di San Giacomo, risalente all’anno 1000, intorno alla quale si forma il primo insediamento sul pianoro di Furore, la cui storia sarà poi compresa in quella della Repubblica di Amalfi.
1348, si rifugiano negli orridi anfratti della Terra del Furore alcuni “Sacconi”, cioè gli eretici seguaci di Meco del Sacco da Ascoli Piceno, accusati dall’Inquisizione di praticare il libero amore.
Dalla metà del 1400 il Borgo appartiene alla nobile famiglia dei Summonte.
1600, risalgono a quest’epoca le strutture proto-industriali annesse all’antico borgo marinaro (da poco recuperate).
Nell’antichità, questa terra comprendeva 2 sobborghi: Terra Furoris e Casanovae, cioè Casanova che solo dal 1600 non viene più citato negli atti pubblici.
Le prime notizie certe che si hanno dell'insediamento abitativo risalgono ai tempi della Repubblica Amalfitana in cui Furore viene indicato come un semplice Casale extramenia di Amalfi.
Nel Basso Medioevo si emancipa divenendo Università ed eleggendosi un proprio Sindaco.
Per un breve periodo fu annesso a alla vicina Praiano, e poi ritornò a essere comune indipendente.
Furore emerge dal completo anonimato con la compilazione del Catasto Carolino del 1752 che restituisce l'immagine di una piccola comunità costiera sparsa sul territorio, priva di terreni coltivabili e scarsamente abitata.



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CULTURA
 
Luoghi della Cultura

Ecomuseo del Fiordo di Furore

E' un vero e proprio museo all’aria aperta ai piedi del Vallone di Furore dove, fino agli inizi del 1900, funzionavano a pieno ritmo cartiere, mulini e una calcara per la produzione della calce, grazie ad un ingegnoso sistema idraulico che utilizzava la forza motrice delle acque del torrente Schiato.

Il progetto dell’Ecomuseo scaturisce da quello più vasto di disinquinamento, recupero, riuso e valorizzazione del Fiordo di Furore e in particolare delle strutture proto - industriali (cartiere, mulini, sistemi idrici ecc.) ivi esistenti.
Progetto realizzato a partire dal 1982 e fino al 2000 con fondi nazionali (ex Cassa del Mezzogiorno) ed europei.
L’Ecomuseo, secondo definizione, vuole essere “uno specchio nel quale la comunità locale ritrova la sua identità e la mostra agli altri”.

Furore è definito "il paese con c’è" essendo costituito da uno sparso abitato, particolare conformazione geo - morfologica che lo rende "un paese non paese" con un’identità molto labile e difficile da consolidare in cui l’Ecomuseo vuole essere un tentativo per risolvere questo problema.
Esso è strutturato in diverse sezioni:

- Aula Verde - Erbario con l’esposizione delle essenze vegetali più preziose dell’area;

- Aula Celeste - mini Osservatorio Astronomico;

- Centro Visite guidate con una serie di percorsi botanici attrezzati;

- Sala Convegni per meetings, seminari, incontri;

- Buvette con bottega per la vendita di prodotti artigianali ed enogastronomici;

- Foresteria per l’alloggio di partecipanti a campi di lavoro, stages ecc.;

- Biblioteca - Cineteca, curata dall’Associazione Mò Film ONLUS;

- Museo dedicato ad Anna Magnani e collocato in una piccola struttura localmente denominata “Monazzeno” appartenuta all’attrice e che la frequentò per un breve periodo (1946 - 1948) con il suo amante Roberto Rosselini;

- Cappella rupestre dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, patrona dei mugnai;

- 3 Mulini e 2 Cartiere restaurate e trasformate in musei.


Arti Artisti Artigianato Antichi Mestieri


I  Murales di Furore

Per quanto concerne l’iconografia, il tema della storia di Furore è ricorrente in quasi tutte le opere.
Occorre ricordare che Furore è un paese senza storia, che fino al 1947 era occupato con il Comune di Conca dei Marini e proprio per questo motivo si è cercato, attraverso i Murales e le altre tipologie di opere, di arricchire la storia del paese con eventi realmente accaduti, leggende ed aneddoti che da moltissimi anni ormai riecheggiano tra le stradine di Furore.
Ci sono numerosi riferimenti iconografici allo stemma del Comune di Furore (colonna d’oro in campo azzurro) e agli stemmi delle 3 contrade (il Ciuccio, la Gatta, la Cicala), come è rappresentato nel murale di Lidia De Vettori "Le contrade di Furore"; e ancora nel pannello ceramico di Giulia Lauritano "Cartolina da Furore".
Vi sono poi rimandi al Fiordo di Furore, come nel caso de "Il Fiordo di Furore" di Salvo Caramagno; al tema della pesca connesso a quello dell’agricoltura, come nelle opere di Gino Piergentili "L’agricoltura e La pesca"; alla vendemmia, al vino e al dio Bacco, come nei murales "In un magico e mistico furore divino" di Vincenzo Perna, "Bacco" di Antonio Olivieri del Castillo e "La spremitura dell’uva" di Mario Ortolani; alle tipiche case di Furore e di tutta la Costiera, caratterizzate dalla famosa volta estradossata, come nel murale "Amore: il miracolo" di Pina De Martino e in quello di Gaetano Paolillo, alla storia d’amore tra Rossellini e la Magnani; alle Janare (le streghe benevole identificate come la sacerdotesse di Diana), raffigurate ne "Le Janare" di Vincenzo Perna; ai Santi “vottate abbascio”, cioè scaraventati giù dai dirupi di Furore, come nelle opere: "Leggende furoresi" di Giuseppe Antonello Leone e Maria Padula, "Ritorno a Furore" di Nadia Farina. Presso l’Hotel “Bacco”, situato in via G.B. Lama, sono conservati una tavola di Giuseppe Centro dal titolo "Vendemmia a Furore" e i bozzetti di 5 opere che sono state realizzate in dimensioni maggiori.
È questo il caso di "In un magico e mistico furore divino" di Vincenzo Perna, delle "Baccanti" di Goffredo Godi, dei "Fiori di campo" di Annamaria Grassia, dell’"Acquila" di Fritz Gilow, de "La storia di Furore dalle origini" di Antonio Olivieri del Castillo.
Ancora, presso la Sala Consiliare della Casa Comunale, sono custodite 2 tele di Ajd Rassell Gallo intitolate "Il miracolo di R. Rossellini A. Magnani" e 6 tavole raffiguranti "L’eresia di Meco del Sacco" di Vincenzo Murano.
Infine nelle scale che dall’ingresso del Comune conducono al piano superiore c’è "Terra Furoris" del pittore Antonio Maresca di Sorrento.

Le opere presenti a Furore non sono tutte dei Murales, ci sono anche pannelli ceramici: "I banditi e il faro" sulla Costiera di Carmela Candido - "Cartolina da Furore" di Giulia Lauritano - "Fiori di campo" di Annamaria Grassia - "Terra Furoris" della ceramica d’Amore;
sculture in marmo: "Figura forma di terra" di Carla Crosio - "Gli evangelisti" di Francesco Mangieri detto Mao - "Prometeo: il tormento del potere" di Raffaele Di Meglio;
in ferro: "Le stagioni del Paradiso a Furore" di Ajd Rassell Gallo - "Il Fiordo di Furore" di Luigi Mazzella;
in ferro e acciaio: "Gabbiani" di Giovanni Ariano - "Nel Giardino del tempo Sara accompagna un uccello" di Giovanni Ferrenti;
in ferro e rame: "Furore: la sirena e i profili. Il verso “Achille”" di Riccardo Dalisi;
in piombo lavorato a sbalzo: "Masaniello e La vela" di Luigi Mazzella;
in legno: "Presepe" di Ernest-Heinrich Kneisel - "Acquila" di Fritz Gilow - "Il Santo delle cicale" di Antonello Prototipo;
supporti per acrilico di formica, mdf e forex, nonché opere realizzate con cemento: "Discorso su Furore" di Elio Mazzella;
varie materie: "Reti e natura" di Rosario Mazzella - "L’agricoltura - La ribellione - La pesca" di Gino Piergentili.





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CIAK SI E' GIRATO A Furore

il "Miracolo" del Fiordo di Furore (1948)
Anna Magnani e Roberto Rossellini che si conobbero, lavorarando insieme e si innamorarono in maniera travolgente, durante la lavorazione di "Roma, città aperta".
Il film "Amore" fu frutto di una decisione di Rossellini e della Magnani di fare un altro film insieme.
Esaminati centinaia di progetti ed idee, alla fine decisero che si sarebbe dovuto girare un episodio di 40 minuti con Anna da sola in scena.
Una sorta di monologo preso dal dramma teatrale "La voce umana" di Cocteau, in cui la Magnani recitava in una camera da letto, parlando al telefono con il suo amante, dando fondo a tutti i sentimenti che le erano propri, speranza, gelosia, disperazione, rancore, umiliazione.



Rossellini la seguiva con la camera, utilizzata più come fosse un microscopio, una lente d'ingrandimento.
Il risultato fu estremamente forte, travolgente, un vero e proprio fluire di coscienza e dolore in cui i protagonisti erano una stanza buia, un telefono e una donna che lottava disperatamente con il tormento e l'angoscia della perdita dell'amore.
Il risultato fu intensissimo ma troppo breve per farne un film.
Era necessario aggiungervi un altro episodio.

In quel periodo i rapporti tra Anna e Roberto erano buoni ma burrascosi come i loro caratteri che si scontravano spesso.
Fu Anna che, qualche tempo più tardi, incontrando in un ristorante Fellini, allora aiuto-regista di Rossellini, gli chiese di pensare ad una storia che dovesse "far piangere e ridere, essere un po' neorealista però gradevole, fatta bene come i film americani prima della guerra", che rappresentasse anche un atto d'accusa contro la società e che potesse, inoltre, ospitare al suo interno una "bella canzone romana".
A questi desideri Fellini, sulle prime non seppe rispondere, poi, dopo un primo tentativo non riuscito, pensò ad una storia che piacque alla Magnani: quella di una povera mentecatta che, credendo di riconoscere San Giuseppe in un povero pastore, si faceva mettere incinta e, dopo aver partorito come una bestia, era convinta di avere messo al mondo una creatura divina.
Il secondo episodio, avrebbe avuto per scenario alcuni posti caratteristici della Costiera Amalfitana: Maiori e Furore, per le loro spiccate caratteristiche formali ed ambientali che bene si prestavano a fare da cornice alla "favola" ideata da Fellini.



L'episodio ha inizio con un viandante (Federico Fellini) che s'incammina per Capo d'Orso e incontra una povera pastorella, un po' matta, che crede di vedere in lui un'improvvisa apparizione di San Giuseppe.


In un crescendo drammatico, viene portata in processione e, mentre lei crede che ciò avvenga per la creatura celeste che ha in grembo, tutti la deridono come una povera stolta e ridicolizzano la sua pretesa santità.
Resasi conto del disprezzo generale e della violenza che la circonda, la pastorella scappa, abbandonando Maiori e rifugiandosi nel Fiordo di Furore.
Qui rimane nelle grotte più cupe e lontane in solitudine, non si sa per quanto tempo. 



Ben presto si accorge che la creatura che ha in grembo chiederà di venire alla luce ma non sa a chi rivolgersi.
Si guarda disperata intorno ma non v'è nessuno che le possa dare aiuto.
Si avvia, allora, sù per la salita che dal Fiordo porta verso le case e la chiesa del paese.
Una salita che rappresenta una sorta di cifra, un segno profondo della storia, il destino di Furore attraverso i secoli passati, un salire faticosissimo lungo il costone a dirupo dal mare al paese, 3.000 gradini più in alto. 



Un salire ed un discendere a piedi che ha rappresentato, nel tempo, l'anima e, in qualche modo, la dannazione del paese, quando non esistevano strade e automobili ma solo uomini e muli. 
L'accompagna solo una capretta. 


Si accettano miracoli di Alessandro Siani (2015) diverse scene sono state girate tra Ravello, Atrani, Furore e Conca dei Marini.


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Letteratura

Pietro Summonte (1453 - 1526) è stato un umanista e sacerdote, fu discepolo del letterato Giovanni Pontano, esponente di spicco dell'Umanesimo napoletano. Nel 1503, alla morte del maestro, gli succedette, insieme a Girolamo Carbone, alla guida dell'Accademia Pontaniana, che resse fino al 1526, quando la presidenza dell'accademia passò a Jacopo Sannazaro.
Nel periodo della presidenza del Summonte gli eruditi dell'accademia si riunivano in casa sua e, per un certo periodo di tempo, lo stesso circolo cambiò nome e fu chiamato Accademia Summontiana. Nel 1519 succedette a Pomponio Gaurico alla cattedra di studi umanistici dell'Università di Napoli.

Vi furono poi, nella nobile famiglia Summonte, 2 figli, Giovanni e Antonio, storiografi insigni: l’uno, cinquecentesco, scrisse il breve "Trattato della isola di Sicilia e dei suoi Re perché nel Regno di Napoli fu detto Sicilia"; l’altro fu autore della ponderosa "Istoria della città e del Regno di Napoli", edita nel 1748.


Dal 20 luglio 2019 nel locale cimitero di Furore è sepolto lo scrittore, filosofo, regista e attore Luciano De Crescenzo, napoletano, ma che aveva scelto questo luogo per i suoi riposi, compreso quello eterno.

Frasi citazioni aforismi aneddoti su Furore

‘A pedata del diavolo
Tanto tempo fa, si dice, il diavolo passò per Furore.
Fu accolto male.
Sulla via del ritorno all’Inferno, si fermò per fare un “atto grande”.
Fatto che l’ebbe, cercò una foglia per pulirsi, raccolse un ciuffo d’ortica e vi lascio immaginare!
Al colmo dell’ira e della delusione inveì: “Furore feroce! Mal’acqua, mala gente, pure ll’evere è malamente!” Così gridando, battè un piede a terra e squagliò.
La pedata lasciò il segno indelebile sulla roccia nuda e diede il nome al luogo.

Le Janare
Diana era, fra l’altro, la dea delle arti magiche.
Da qui la denominazione “dianara”, riferita alle sue sacerdotesse, corrotta poi nella voce dialettale “janara”. Ciò non solo spiega l’etimologia di questo termine, ma finisce per sostanziarne il significato, che rinvia a quello più comunemente usato di “strega”.
Ma, attenzione, si sta parlando di una stregoneria non perversa, non maligna, bensì innocua e per molti aspetti benevola.
La janara è più sirena che strega, più maliarda che malvagia, più seducente che diabolica.
E’ janara, dunque, la donna che possiede l’arte di “arravuglià” l’uomo, la capacità di sedurlo, di incantarlo, fino a soggiogarlo.
Una specie di fattucchiera, le cui pratiche magiche si sviluppano solo dopo la mezzanotte, quando, abbandonato furtivamente il talamo nuziale, essa raggiunge le sue colleghe per partecipare a raduni tenebrosi e a riti misteriosi negli orridi anfratti del Fiordo.
Rituali indecifrabili, che si protraggono tutta la notte e si concludono con l’alzarsi in volo di questa moltitudine di invasate, improvvisamente alate, che stormeggiano sul mare fino a planare sulle coste del Cilento e da qui, “sott’acqua e sott’o viento, sotto ‘a noce ‘e Beneviento”, meta obbligata di tutte le streghe che si rispettino. Eppure ci vuole molto poco per metterle in crisi: basta una semplice scopa, appoggiata in posizione capovolta sull’uscio di casa.
La magia, come per incanto, svanisce.
La janara ne esce distrutta.
Miracolo di una ramazza!

“Secacorne” ‘e Furorise
Quando l’artigianato era fiorente su tutta la Costa d’Amalfi e a Furore si lavorava al tornio il legno e l’osso, ricavandolo dalle corna degli animali al pascolo, esisteva pure una sorta di suddivisione di compiti, quasi un tacito patto di non belligeranza, o meglio, di non concorrenza.
Gli abitanti dei vari paesi della Costiera erano spesso sinonimo dei mestieri svolti e potevano essere identificati attraverso le arti, alle quali si dedicavano.
E’ anche vero che queste arti non sempre potevano dirsi nobili:
“So’ ‘pastare ‘e Minurise, jettacantare Atranise; sportellare ‘e Tramuntane, attizzalite Amalfitane; piscature so’ ‘e Conchise, secacorne ‘e furorise;
bellu llino fa praiano, cannavacci pusitano”.

Vottarono ’e Sante abbascio
L’aneddoto è un po’ curioso, storia o leggenda, accadde intorno al 1600 e ne restano alcuni fatti concreti, oltre all’antico adagio che qui si riferisce:
“Santo Jaco, miezo pazzo, 'o vottarono abbascio ‘a chiazza.
Sant'Agnelo, malandrino, ‘o vottarono dinte Pino.
Sant'Elia, puveriello, ‘o vottarono d’a Purtella”.


La statua di “Santo Jaco Viecchio” trovasi ancora oggi in casa Penna poco distante dalla chiesa.
Raccolta nottetempo, più per alimentare il fuoco che per timore religioso, riuscì, dicono, a far desistere i Penna da questo proposito, rifornendo miracolosamente la legnaia e tutto il cortile a loro insaputa e con loro grande stupore.
Sant’Agnelo, o meglio, San Michele, fu più discreto. Non lasciò traccia, se non nel nome della Valle, nella quale fu buttato, che continua a chiamarsi “Vottara”. Sant’Elia, infine, creò il mistero.
Scaraventato giù da Via Portella (porta inespugnabile di sbarramento a monte del Fiordo, contro le incursioni dei Saraceni) lasciò sugli scogli sottostanti, sui quali si sfracellò, il suo sangue santo; macchie rosse e indelebili, malgrado il violento frangere dei flutti, resistono ancora oggi sulla scogliera.
E’ veramente sangue?
I vecchi di Furore non hanno alcun dubbio e aggiungono che, nella ricorrenza annuale (qual è la storica data non è dato di sapere) esse si ravvivano, liquefacendosi. 



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DIALETTO
(Proverbi e Modi di dire)

Per "contranommi" si devono intendere i soprannomi di alcuni personaggi tipici che ancora sopravvivono nella memoria dei Furoresi.
Il valore di queste invenzioni linguistiche non sta soltanto nelle argute definizioni che molti di essi implicano ma anche nel fatto che, in questi artifici della lingua si celano passate abitudini, luoghi dell'immaginario antropologico, usi, costumi e voglia di affabulare.

'a Bannera
Si racconta che questa donna si recasse spesso in montagna a raccogliere la legna e per paura di perdersi, usasse attaccare un panno ad un ramoscello, a mo' di bandiera, per sventolarla in caso di smarrimento.
O anche, secondo un'interpretazione più maliziosa, 'a Bannera era una donna ipocrita che voltava le spalle secondo i casi, così come la bandiera con il vento.

'a Bardascia
Eufemismo di bagascia.
Indica il luogo in cui anticamente risiedevano le prostitute di Furore.

'o Basista
Colui che organizzava scherzi innocui, ma anche veri e propri furti di conigli, di spighe.

'o Boss
Un signore che aveva soggiornato a lungo in America.

'a Caiserra
Dal tedesco Kaiser: imperatore; identifica una discendente del primo sindaco di Furore.

'a Cartera
Donna che viveva all'interno della Cartiera, sita al fiordo.

'a Corte
Tempi addietro, il luogo dove i giovani erano soliti riunirsi, "pe' 'na chhiacchierata" o "pe' 'na partitella a carte", era soprannominato 'a Corte.
I suoi membri crebbero talmente in quella definizione da assorbire gradualmente i nomi, e relative cariche, di 'o Giudice, l'Avvocato, 'o Difensore.

Ciccupeppe
Un militante dell'esercito di Francesco Giuseppe.

Concetta 'a Bacchetta
Una donna eccessivamente magra.

'e Cuozze
Con cuozze d'accetta (manico di accetta) si identificava un tipo rozzo e volgare.

'a Fuscella
Termine che indica lo stampo in cui si versa il latte da trasformare in formaggi e ricotta.
'A Fuscella era dunque colei che provvedeva alla lavorazione del latte.

'o Fuchista
Un "professionista" dei fuochi d'artificio

'o Furiere
Un uomo che ha svolto il servizio di leva nella fureria della Marina Militare.

Jachille 'e Mugnille
Achille figlio del Mungitore.

'a Jatta
Una che aveva tratti somatici così simili al noto felino domestico, che "pure 'e criature 'a sfuttevano".

'o Lamar
da Ramaro, colui che lavorava le pentole in rame, modificato in dialetto in "lamaro".

'o Lione
Un tipo abbastanza robusto.

'o Maestro
L'insegnante di scuola elementare.

'o Maggiore
Un ufficiale dell'esercito, anzi due: 'e chesta vanna (abitava nella vallata di San Michele) e 'o Maggiore 'e chella vanna (abitava a Sant'Elia).

'o Mpagliaseggie
Colui che di professione impagliava artigianalmente le sedie.

'a Nasella
Tenéva 'nu buco 'ncoppe 'o nase, cu cierti pile aint'.

'o Pannazzaro
Il venditore di panni.

'o Piluso
Immaginatelo da soli.

'a Palluttella
Una signora un po' in carne.

'e Pasturille
Dei fratelli tanto piccolini da somigliare ai classici pastorelli presepiali.

'o Piattaro
Un signore che si recava in giro per le case a raccogliere 'e pezze vecchie, regalando in cambio dei piatti.

'a Pisciammonte
Una che faceva pipì dovunque.
I ragazzini 'a sfuttevano accussì tanto che quando 'a Pisciammonte nun 'e truava, alluccava: "Hanno muorte 'e figlie 'e puttana".

'o Pizzarulo
Era sempe chillo che se pigliava 'e pezze. 'O chiammavano pure accussì

'o Priggiuniero
Un giovane soldato fatto prigioniero dagli inglesi, nella campagna in Nord Africa durante la seconda guerra mondiale.

'a Rumana
Una donna dalle origini romane.

'o Rre
Ironicamente detto, pecchè era 'nu sfaticato.

'o Scemecco
il calzolaio che aggiustava le scarpe vecchie.

'o Sergente
Ha fatto il sergente durante 'o servizio militare.

'o Scrivano
Quando non esisteva un tasso elevato di scolarizzazione, ci si rivolgeva allo scrivano per farsi scrivere, o anche leggere, lettere e documenti di vario tipo.
Il risultato era che questo signore conosceva 'e fatti 'e tutto 'o paese.

'o Stuorto
E comme se putéva chiammà chillo era tutto stuort!

Tremmuline
Da "tre mulini", perchè si diceva macinasse cibo quanto tre mulini.
Vendeva ortaggi e verdure su un carrettino, ma dopo essersi guadagnato 'a jurnata soja, era solito addormentarsi.
I ragazzi approfittavano del suo riposino per rubargli la roba dal carretto e se qualcuno provava a svegliarlo per avvisarlo di quello che stava succedendo, lui rispondeva.
Trèmuline dormiva dentro una botte e non si ritirava mai a casa sua: 'na sera veneva ca', n'ata sera jeva da un altro: ovunque gli dessero da mangiare.
Una volta un gruppo di ragazzi affamati escogitò un trucco per cucinare 'nu fritto 'e patane a danno del povero Trèmuline.
Il più  benestante di loro portò dello strutto, altri accesero il fuoco e un altro ancora rubò un sacco di patate dal carretto di Trèmuline, che continuava a dormire ignaro.
Mentre cucinavano però, sollecitato dall'odore, il vecchio si svegliò e con molta tranquillità pigliaje 'a caccavella in cui friggevano le patate e 'a svacantaje dentro il suo sacco di tela, cu' tutta 'a 'nzogna.

'a Vozza (Vozzola)
Donna con un gozzo pronunciato



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PRODOTTI DEL BORGO

Nel ridotto spazio agrario della Costa d’Amalfi il vigneto gioca da sempre un ruolo storicamente preminente.
La scarsità del terreno coltivabile, strappato alla roccia attraverso dissodamenti e terrazzamenti di stupefacente ingegnosità, hanno imposto uno sfruttamento intensivo del suolo, oltre a una severissima selezione delle colture.
Da qui il primato dell’agrumeto e del vigneto con frutti (come viene definito in antichi contratti di pastinato), con viti inizialmente appoggiate a sostegni vivi (mandorli e noci), poi affidate a lunghe pertiche - siamo nel 1000 - e, infine, fatte crescere su pergolati appositamente costruiti con pali di castagno (puntilli in verticale, travierzi e curreturi incrociati in orizzontale).
Si evita così la monocoltura, consentendo la coltivazione orticola del terreno sottostante, che a sua volta assicura la pressoché totale autosufficienza alimentare della famiglia contadina.
Il superfluo è di sostentamento.
Questi crinali, che, come tutte le colline del buon vino, hanno i piedi immersi nell’acqua, il volto baciato dal sole, e i fianchi sinuosi di una bella fanciulla, non potevano non essere generosi con quel loro grande spasimante, perdutamente innamorato, che è il vignaiuolo di questa terra.
Con la grande passione di costui dovette fare i conti - riferisce lo storico - lo stesso Carlo d’Angiò, quando fu costretto a bruciargli l’oggetto amato per poter riuscire a convincerlo, o meglio a costringerlo, a imbarcarsi sulle sue navi per costituire finalmente il relativo equipaggio.
Amor con amor si paga ed ecco un nettare delicato e fragrante insieme, apprezzato fin dai tempi antichi, quando divenne prodotto di esportazione altamente remunerativo.
Il suo grande successo, lungi dall’essere attribuito all’ostracismo che la conquista araba aveva imposto per motivi religiosi all’industria vinicola di vaste regioni del Mediterraneo, poggiò tutto sulle sue intrinseche qualità.
La superfice vitata andò via via estendendosi e arricchendosi di nuovi vitigni, importati dall’Oriente e, negli anni, selezionati in relazione alle caratteristiche del nuovo habitat, in una varietà ricchissima, difficilmente riscontrabile altrove.
Le verdi distese dei vigneti, punteggiate dalle cime dei puntilli, coprirono i fianchi scoscesi della collina, diventando uno degli elementi caratteristici del paesaggio agricolo, specie negli areali di mezza costa, compresi fra i duecento e i cinquecento metri di altezza sul livello del mare.
Qui, dove la vocazione vitivinicola è più intensa, sopravvivono vitigni di stirpe nobilissima.
Sono i bianchi Coda di Volpe, Bianca Zita, San Nicola, Ripoli, Fenile, Ginestrella e i rossi Pere ‘e Palummo, Serpentaria, Tintore, Taralluzzo, tutti meritevoli di grande attenzione e sicuramente degni di entrare ufficialmente nella produzione vinicola locale, che ha ottenuto, qualche decennio fa la “Denominazione di Origine Controllata" (D.O.C.).



Insieme a Ravello e Tramonti, è una delle 3 sottozone di pregio della doc Costa d’Amalfi, circoscritta a 13 comuni del salernitano caratterizzati da ambienti naturali di eccezionale bellezza e arditi terrazzamenti, spesso a picco sul mare o in anguste gole, quasi sempre irraggiungibili se non lungo ripidi e tortuosi scalini; ogni ripiano che oggi ospita un vigneto è stato letteralmente rubato alle rocce, con la costruzione di muri a secco, il trasporto di terreno a spalla e il duro lavoro dell'uomo.
Il pomodorino al filo, detto piennolo, e la vite coltivata a mezza costa sui fianchi scoscesi della collina, sono i frutti di questa terra generosa che ha “i piedi nell’acqua, il volto baciato dal sole e i fianchi sinuosi di una bella donna”.
Da queste eroiche gradinate, coltivate a vigna e limone, dove i gusti e i profumi degli agrumi e della flora mediterranea si mescolano con la salsedine marina, si ottengono vini che imprigionano gli aromi e i sentori del territorio.
Valgono una visita i vigneti storici San Pasquale e Pizzocorvo ed un assaggio della colatura di alici, diretta discendente del garum dell’antica Roma, ottima per condire pastasciutta e verdure.


Furore batte sul selvaggio con tanti altri rosoli: alle more, alle fragoline di bosco, al finocchietto, alle carrube, alle erbe.
Un discorso a parte merita l’Elisir delle Janare, il liquore del desiderio, a base di sedano crudo, ritenuto il principe degli afrodisiaci già dal tempo della Roma antica.


Il “Nanassino”, un delicato rosolio ricavato dal Fico d’India e la cui denominazione richiama la voce del Ficurinaro, tipica figura di venditore dei vicoli napoletani.
Un liquore quasi unico nel suo genere, che ben può essere considerato il simbolo di tutto quello che di selvaggio, di esotico, di spontaneo e di sensuale fa di questa terra un eterno incantesimo.

 
I vini attualmente prodotti - bianco, rosso e rosato - ben si accoppiano ai piatti della cucina locale.
La loro sapida compiacenza li rende quanto mai piacevoli.
Berli significa vivere a tutto tondo la festa che i luoghi ispirano, con un invito a fare…Furore.
Tanto da far scrivere a Veronelli: “Berrai vini freschi e gioiosi, capaci di buttarti dentro tutto il sole e tutta l’allegria che hai sulla pelle”.
 


Un tempo erano attive l’industria della carta, quella della seta, del tornio e dei maccheroni.
A queste si aggiungono la produzione dell’olio, l’agricoltura, la pastorizia, la pesca e l’arte di fare canapi.
In località lo Schiato, valletta che prende il nome dal torrente, vi erano una fabbrica di carta emporetica (prodotta con papiro e quindi inutilizzabile per la scrittura) e un mulino

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PIATTI DEL BORGO

Un ruolo determinante nella cucina locale giocano i prodotti tipici di Furore: pomodorini di montagna o del piennolo, olio di oliva, patate di terra asciutta, erbe spontanee e odorose.

Piatto-monumento è
totani e patate, ideato dal contadino-pescatore di queste terre ed estensibile quantitativamente alla famiglia numerosa con l’aggiunta della preziosa patata.E' questa una cucina che cattura e mescola profumi di terra e di mare, di cui tradizionali sono pure “il migliaccio”, timballo di semola e carne di maiale, precursore dei maccheroni; la “minestra maritata”, arricchita delle verdure spontanee e profumate della collina; la “caponata”, fatta con il pane biscottato a “freselle”, bagnato e condito di pomodorini, acciughe e melenzane all’olio di oliva.

Le massaie dell’antica Terra Furoris producevano pasta a mano, fatta in casa, di grande qualità.
Fra i vari formati (fusilli, orecchiette, cavatielli, scialatielli, lasagne) spiccano i “Ricci Furitani”, una sorta di fusilli “andata e ritorno” passati su di una tavoletta rigata che prendono il nome, sembra, dall’antica denominazione degli abitanti del luogo: oggi Furoresi, ieri Furitani; e i Ferrazzuoli alla nannarella, in onore di Anna Magnani.

Nella gastronomia locale è stata anche introdotta una ricetta del risotto al fico d’india.

E’ nell’insieme una cucina raffinata ed eclettica, intima, femmina, che cattura e mescola profumi di terra e di mare, in cocktails semplici quanto gustosi, ambigui, non estranei a quel profumo di mistero e di magia che qui sa farsi sottile incantamento.

I dolci sono, forse, più di tutti gli altri alimenti, l’espressione più autentica dell’arte sapiente e della cultura del territorio in cui nascono.
Nella vasta gamma di specialità tipiche della pasticceria napoletana, Furore inserisce alcune varietà di dolci, che hanno dentro di sé la tradizione e il profumo di questa collina corteggiata dal mare e baciata dal sole.
Nelle “Cicale” la pasta di mandorle, tipica dell’area mediterranea, è arricchita dal profumo più vero di questa terra.

Prelibatezze rare quanto preziose sono poi le varietà di frutta conservate sotto spirito: l’uva Sanginella all’anice, le albicocche al brandy, i fichi al rhum


TRADIZIONI - EVENTI

Il Carnevale Furitano 
Manifestazione organizzata dalla Pro Loco e dedicata principalmente ai bambini, che si tiene ogni anno, l’ultimo Martedì di Carnevale.
Un piccolo carro allegorico, il cui tema è quasi sempre un personaggio dei cartoni animati, preceduto dai bambini in maschera che ballano con sottofondo musicale, attraversa la via principale del paese da via San Michele a via Mola (Contrada San Michele).
La sfilata viene ripetuta il sabato successivo nella zona sud del paese, nella Contrada Sant’Elia, con inizio dalla via Le Porpore e arrivo nel Piazzale Carmine.


Palio Nazionale delle Botti
 

Furore è uno dei paesi fondatori dell’associazione Nazionale Città del Vino, essendo terra d’origine di vini D.O.C. - Costa d’Amalfi - sottozona Furore.
Questa Associazione, tra le numerose iniziative, ha ideato e organizzato “Il Palio Nazionale delle Botti” a cui partecipano le Città del vino.
La gara consiste nello spingere delle botti, rotolandole lungo un percorso prestabilito, gli spintori sono 2 per ogni squadra, ai quali si aggiunge una donna ai 2 terzi di gara.
Vince la squadra che taglia per prima il traguardo. Furore è il paese che ospita, ogni anno, nel primo week-end del mese di Aprile, la prima gara del Palio Nazionale.
Gli appuntamenti sono 12, nelle varie Città del Vino, sparse in tutta la Penisola.



Slalom Coppa Primavera 
Dopo le 27 edizioni della ben nota corsa in salita, gli organizzatori dell’Automobil Club di Salerno non l’hanno dimenticata ed hanno istituito uno slalom in salita per far rivivere agli sportivi e tifosi locali un momento di vero sport automobilistico.
La manifestazione si ripete ogni anno nel mese di aprile e fa parte del calendario nazionale delle gare italiane di slalom. Gli sportivi accorrono sempre numerosi, perché lo sport automobilistico cosiddetto minore, ha un seguito sempre più numeroso e appassionato


Premio A.P.E.

Il Premio A.P.E. è stato Istituito dall’Amministrazione Comunale di Furore nel 2009, con l’intento di premiare cittadini che con la loro attività o iniziative, hanno promosso il nome del paese in ambito nazionale o internazionale.
Il Premio Ambasciatori Protagonisti dell’Eccellenza ha la funzione di stimolare imprenditori, artisti, sportivi, cittadini a promuovere il nome di Furore a tutti i livelli.
Dall’istituzione il Premio ha avuto fra i suoi protagonisti numerosi furoresi affermatisi all’estero, proprio grazie ad attività che richiamano il paese natio.
Oltre ai numerosi imprenditori presenti sul territorio che hanno veicolato con i loro prodotti e le loro attività, il nome del paese.
Il premio viene assegnato dalla Giunta Municipale ogni anno e consegnato ai prescelti con una specifica cerimonia, l’ultimo Sabato del mese di Aprile.


San Pasquale Baylon - Santo Patrono

Il busto reliquiario di San Pasquale Baylon è venerato a Furore, nell’antica Chiesa Parrocchiale di San Giacomo, nell'omonima contrada.
Il suo culto fu introdotto nel paese dalla famiglia Summonte.
Nella tradizione popolare napoletana il nome del Santo è spesso accostato all’universo femminile quale “protettore delle donne”.
San Pasquale, inoltre, viene considerato il protettore di cuochi e pasticcieri, perché, secondo la leggenda, sarebbe stato l’inventore del zabaione.
Le affinità dei furoresi con il Santo sono legate, fra l’altro, alla pastorizia, che nel 1500 nel paese, con le sue colline disboscate, era molto diffusa, considerato che l’agricoltura è arrivata qualche secolo più tardi.
Il piatto tipico di questa festa è sempre stato lo zabaione.
I devoti portano la statua del Santo, una scultura in cartapesta policroma a base lignea dorata, con un modellato vivace e articolato che rivela una forte carica naturalistica, per le strade della Contrada, accompagnata dalla banda musicale, come da tradizione.

La particolarità è data dalle 2 date: il 17 Maggio, giorno della morte del Santo, si tiene la festività religiosa, mentre quella civile, la cosiddetta “Festa di San Pasquale d’estate” ha luogo nell’ultima Domenica del mese di Agosto, con stands gastronomici e tanto di spettacolo musicale per allietare i presenti, nella piazza antistante la Chiesa di San Giacomo.


I Giorni della Cicala
 

Un appuntamento che si ripete dal oltre 30 anni.
La manifestazione fu organizzata la prima volta negli anni 1980 e puntualmente, si ripete ogni anno.
Gli appuntamenti musicali e teatrali coincidono con l’inizio e la durata della stagione estiva, da Giugno fino a fine Settembre è possibile partecipare agli spettacoli nelle varie zone del paese, da Poggio La Vela a Piazzale Sant’Elia e nelle altre zone più panoramiche e caratteristiche della zona.
Le serate musicali o teatrali si concentrano, soprattutto, nei fine settimana.

 

4 Luglio
Fiordo di Furore - “Coppa del Mediterraneo”
Campionato Tuffi Grandi Altezze



Festa del fico d’india 
Il Fico d’India, capostipite del noto cactus, fu scoperto nel 1519 in Messico da Hernand Cortes e giunse in Europa nella seconda metà del 1500, tramite gli spagnoli e alcuni anni dopo, arrivò anche in Sicilia, introdotto dagli Arabi.
A Furore è presente in gran parte del sud del territorio (zona Vene - Fiordo - Le Porpore - Sant’Elia).
La Festa del Fico d’India fu organizzata la prima volta nel 1978, nel corso del primo week-end di Settembre.
Agli ospiti della festa vengono offerti i frutti al naturale e trasformati in liquore e gelati.
Cornice della festa sono i giochi, da sempre principalmente dedicati ai bambini.
Spettacoli musicali folcloristici allietano le serata della festa.
L’appuntamento è per il primo week end di Settembre di ogni anno.

 

13 - 19 Settembre
Muri in cerca d’Autore
Kermesse di pittura murale e scultura “En Plein Air”


Premio Furore di Giornalismo

Istituito dall’Amministrazione Comunale di Furore nel 1996, ha già superato le 20 edizioni e annovera fra i premiati oltre 130 giornalisti di fama.
E’ un riconoscimento che la Giunta Comunale ogni anno assegna ad un giornalista, scrittore, blogger che ha dedicato un servizio, un articolo, un libro al paese.
Questo riconoscimento è cresciuto negli anni fino ad ottenere il riconoscimento dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, annoverando fra i vincitori nomi illustri della carta stampata e della televisione.
Fra i tanti premiati, da ricordare: Beppe Bigazzi, Antonella Clerici, Donatella Bianchi, Anna Scafuri, Dino De Laurentiis, Osvaldo Bevilacqua, Franco Di Mare, Sveva Sagramola e tanti altri nomi di prestigio.
La singolarità del premio è quella di non avere una vera e propria giuria, ma è la Giunta Comunale ad assegnare il premio con l’attenzione ad individuare i veri ambasciatori del paese e ad esprimere loro la più profonda gratitudine.
La vera essenza della manifestazione è che il vero premio lo assegnano i giornalisti a Furore, rendendolo protagonista assoluto dei loro servizi o articoli.



Natalinsieme
Il cartello delle manifestazioni organizzate dalla Pro Loco, che ha rilevato il precedente “Furore Natalizio”, nato all’alba degli anni 1980 a Furore, è denominato “Natalinsieme”.
Le vacanze di Natale segnano, da sempre, una forte presenza di turisti nel paese, attratti dalle tante tradizioni ancora vive, quella enogastronomica in primis per i buongustai.
Serate musicali, danzanti e teatrali allietano i presenti, oltre alla classica tombolata accompagnano i furoresi e gli ospiti del paese alla fine dell’anno.


Presepe Vivente
 

E' una delle grandi attrattive del periodo.
La banda folk de ‘E secacorne - augura il buon Anno a turisti e paesani, in 3 momenti diversi, nelle 3 Contrade di Furore.
La levata del Bambinello, il giorno dell’Epifania, chiude il programma.
La rappresentazione prettamente religiosa degli anni 2000, da qualche anno si è trasformata in una vivace rappresentazione della Natalità, nei giorni del 26 Dicembre e 6 Gennaio.
Il luogo si presta in particolare: la Chiesa di San Giacomo e le aree circostanti, la Cripta di recente scoperta compresa, la strada rotabile di accesso e la piazza antistante la Chiesa, sono diventate il giusto è naturale scenario della rappresentazione del presepe vivente.
Le dimensioni della manifestazione si racchiudono nei suoi 100 figuranti circa, che rappresentano le varie scene più importanti, arricchite da arti e professioni della tradizione locale, dal falegname al pescatore, alla lavandaia, alla massaia che impasta le zeppole “cresciute”, tradizionali nel periodo natalizio furorese.
Non mancano gli animali, portati da contadini che ancora annoverano l’asino, il bue, le pecore e le capre, fra quelli presenti nelle loro stalle.
Tradizioni e mestieri che vanno sempre di più scomparendo e per questo, oggetto di maggiore attenzione da parte degli organizzatori della Pro Loco.

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SANTO PATRONO

San Pasquale (Pascual) Baylón Yubero (Torrehermosa, 16 maggio 1540 - Villarreal, 17 maggio 1592) - religioso e mistico spagnolo dell'Ordine dei Frati Minori Alcantarini.


Venne proclamato Beato il 29 ottobre 1618 da Papa Paolo V, canonizzato nel 1690 da Papa Alessandro VIII. 
È festeggiato il 17 maggio.
Nel 1897 Papa Leone XIII lo proclamò Patrono delle opere eucaristiche e dei congressi eucaristici.

Nato il giorno di Pentecoste (in spagnolo Pascua de Pentecostés, da cui il nome di Pasquale) in una famiglia di umile condizione, da fanciullo fu garzone di un allevatore di pecore.
Manifestò fin da piccolo la sua vocazione spirituale trascorrendo le lunghe ore del pascolo del gregge in meditazione e preghiera.
Imparò a leggere da autodidatta esercitandosi sui libri di preghiere.
A diciotto anni chiese l'ammissione al noviziato presso il Convento di Santa Maria di Loreto della Congregazione dei Frati Minori aderenti alla riforma di San Pietro d'Alcantara, ma riuscì ad esserne ammesso solo due anni dopo.
Nel frattempo, lavorando presso il ricco allevatore Martino Garcia, che lo aveva preso a ben volere, rifiutò l'offerta di quest'ultimo di divenire suo erede.
Il 2 febbraio 1564 fece la professione solenne dei voti come Frate Converso.
Fu per anni addetto al servizio di portineria, anche nei conventi di Játiva e Valenza.
L'eucaristia fu il centro della sua vita spirituale.
Pur essendo illetterato, seppe difendere coraggiosamente la sua fede, soprattutto riguardo l'eucaristia, rischiando anche la vita durante un difficile viaggio che, nel 1576, fu incaricato di compiere fino a Parigi, attraversando la Francia calvinista dell'epoca.
Dopo il viaggio Pasquale scrisse una raccolta di sentenze per comprovare la reale presenza di Gesù Cristo nell'eucaristia ed il potere divino trasmesso al Papa.
Morì all'età di 52 anni, il giorno di Pentecoste, nel Convento del Rosario a Villarreal, anche a causa delle frequenti mortificazioni corporali alle quali si sottoponeva.

Le sue spoglie, che si veneravano a Villarreal, furono profanate e disperse durante la guerra civile spagnola (1936-39); in parte furono successivamente recuperate nel 1952.
Attualmente sono principalmente conservate presso il Santuario dedicato al Santo a Villarreal.

Il Santo viene considerato protettore di cuochi e pasticcieri perché, secondo la leggenda, sarebbe l'inventore dello zabaione.
Il suo culto, oltre che nel luogo di origine, si diffuse particolarmente a Napoli nei lunghi anni del Viceregno Spagnolo,
ed è ampiamente diffuso in tutta la Sardegna (in molti centri è venerato come patrono dei pastori).
Nella tradizione popolare napoletana il nome di Pasquale Baylon è spesso accostato all'universo femminile quale Santo protettore; da qui l'invocazione: «San Pasquale Baylonne protettore delle donne, mandatemi un marito, bello, bianco e colorito, come a voi, tale e quale, o beato san Pasquale!».

A Pecorari di Nocera Superiore nella parrocchia Maria Santissima di Costantinopoli, si conservano 10 reliquie del Santo poste in 3 pregiati reliquiari, tra cui un pezzo di vestito, il bastone e il corporale.
Vi è anche conservata una copia in stampa del 1626 del decreto di Beatificazione di Pasquale Baylon e una piccola statua in legno denominata "San Pascariello".

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MONUMENTI e LUOGHI

Seguendo i tornanti collinari di una strada incisa nel verde (l’Amalfi-Agerola) si arriva a Furore, “il paese che non c’è”.
Infatti, più che un paese, è uno sparso abitato, dove le case non stanno una accanto all’altra ma spuntano da costoni di roccia.
La loro funzione era di presidiare la campagna.
Il borgo del Fiordo, invece, è ai piedi della rupe, lungo la Statale Amalfitana, fra Amalfi e Positano.



Edifici storici di pregio possono essere considerati, nel vallone interno del borgo, i 4 mulini e le 2 cartiere, interessanti esempi di archeologia industriale che utilizzavano la forza motrice dell’acqua.
Accanto a quest’area si trovano i monazzeni dei pescatori, vecchi depositi di attrezzi.
L’arenile incuneato in questa profonda insenatura ha svolto nei secoli una funzione di approdo per le imbarcazioni.
Il borgo dei pescatori dopo una lunga decadenza è ora completamente restaurato.
Singolare è la galleria d’arte en plein air costituita da oltre 100 “muri d’autore”, murales e sculture che fanno di Furore un “paese dipinto” che si racconta anche in questo modo.
Le Chiese sono le uniche altre emergenze architettoniche: le 4 Chiese di San Giacomo, Sant’Elia, San Michele e Santa Maria, con i cupolini maiolicati dei loro campanili e gli affreschi recentemente venuti alla luce (un interessante ciclo di scuola giottesca in San Giacomo).
Ma è l’ambiente, la principale attrattiva di questo "paese-non paese" incorniciato da bellissime vedute: gli ulivi, le vigne terrazzate sul profilo dei monti, i pergolati dei limoni con le reti tese sui pali, i tetti rossi e le colorate maioliche dei piccoli campanili, i coloratissimi fiori dei rovi selvaggi, e il mare azzurro, sempre presente, laggiù in fondo, nella curva dell’occhio.
Riassumono il panorama del luogo i muri sbrecciati ed arsi di sole, le erbe alte dei campi non coltivati, le barche tirate a secco, i tornanti della strada: altri punti di riferimento di un paesaggio sottratto all’abbandono, che può tornare a vivere in forza del suo stesso mito.

Il comune ha restaurato un piccolo appartamento che la Magnani aveva acquistato per soggiornare nella cittadina durante i film con Rossellini.
Si tratta di un piccolo appartamento chiamato dalla stessa Magnani "La Villa della Storta"



Area Naturale

Il Fiordo di Furore è candidato, con l’intero vallone, a diventare “Oasi naturale regionale” e ad essere inserito, con l’intero territorio dei Monti Lattari - che comprende sia la Costiera Amalfitana sia quella Sorrentina - nel Parco Regionale di prossima costituzione.


È già completato, invece, il recupero dei sentieri che si inerpicano su per la collina o discendono a mare collegando le case sparse e consentendo di passeggiare tra agavi e fichi d’India, lungo i versanti obliqui della montagna, e sempre con la vertiginosa visione dell’azzurro del mare.
Infine, con lo sviluppo recente dell’ospitalità diffusa, Furore si candida a diventare “paese albergo” per accogliere i visitatori nella sua splendida cornice ambientale.



Fiordo di Furore. Nonostante il nome con il quale è comunemente conosciuto, si tratta in realtà di una ría, cioè un'insenatura lunga e stretta con uno specchio d'acqua posto allo sbocco di un vallone a strapiombo, creato dal lavoro incessante del torrente Schiato che da Agerola corre lungo la montagna fino a tuffarsi in mare.
Il luogo accoglie un minuscolo Borgo marinaro che fu abitato, tra gli altri, da Roberto Rossellini - che vi girò il film "L'amore" - e da Anna Magnani, che era allora sentimentalmente legata al regista e che fu l'interprete del film.
Il fiordo è scavalcato dalla strada statale mediante un ponte sospeso, alto 30 m, dal quale, ogni estate, si svolge una tappa del Campionato Mondiale di Tuffi dalle Grandi Altezze.
All'interno del fiordo si trovano lo Stenditoio e la Calcara, 2 edifici utilizzati per le produzioni locali.
Lo Stenditoio era usato per asciugare i fogli di carta ricavati dalle fibre di stoffa.
La Calcara invece era adibita alla lavorazione delle pietre per l'edilizia locale. 



Tra le tante escursioni e passeggiate dai nomi suggestivi (Nidi di Corvo, Agave in Fiore, Barbanera, Volpe pescatrice, Pipistrelli impazziti…) e immersi tra agavi, lentischi, rosmarini e carrubi, il romantico Sentiero dell'Amore conduce dalla Chiesa di Sant'Elia con un pregevole trittico su pale di Antonello da Capua (1400), alla Marina di Praia.


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MEMORIE DI UOMINI E DONNE

Fra Diavolo
Nel variegato mondo del brigantaggio meridionale spicca la figura di Michele Pezza, da Itri, al secolo “Fra Diavolo”.
Michele da giovane andava a bottega da Mastro Eleuterio, bastaio burbero e manesco.
Ceffoni e rimproveri si sprecavano, finché un bel giorno Michele, stanco di sopportare passivamente, impugnò un punteruolo e glielo infilò nello stomaco, facendola finita.
Inizia così la carriera del brigante diabolico, che prima si dà alla latitanza e poi, per commutazione della pena, si arruola nell’esercito borbonico.
Il suo coraggio e la sua abilità di combattente vengono presto premiati con la nomina sul campo al grado di colonnello.
Alla testa di 3.000 uomini lotta al servizio di Re Ferdinando e della Regina Carolina.
Appoggia il Cardinale Ruffo nella riconquista del Regno di Napoli, sconfigge ripetutamente i Francesi in una serie di imboscate, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Fra Diavolo.
La sua fama nefasta arriva a Parigi e nel 1806 Napoleone è costretto a intervenire con una lettera piena di improperi indirizzata al fratello Giuseppe, nominato nel frattempo re di Napoli.
La sorte di Fra’ Diavolo a quel punto è segnata.
Per sfuggire alla caccia spietata dei Francesi, ripara sui Monti Lattari.
Sale al Castello di Lettere e da qui raggiunge Agerola. 

Ritrova il suo amico Giuseppe Mansi, che aveva combattuto con lui nell’esercito borbonico ed era, nel frattempo, diventato il capobanda di un manipolo di briganti locali, che, molto premurosamente, gli offre come nascondiglio la propria casa a Furore, in via Li Summonti, affidandolo alle cure - che non tarderanno a diventare “amorevoli” - di sua moglie.
La latitanza nella casa-alcova si prolunga per qualche mese, ma poi la dolce vita finisce.
Fra’ Diavolo riguadagna le alture dei Lattari.
Resta, “braccato come un cinghiale” per alcune settimane nei boschi di Chiancolelle sopra Tramonti, aiutato e rifocillato dai pastori.
Fra’ Diavolo viene catturato con il suo fido complice Vito nelle campagne di Olevano sul Tusciano, per mano del generale Joseph Leopold Hugo, padre del grande Victor.
I Francesi, che in cuor loro lo avevano sempre ammirato, tentano di convincerlo ad arruolarsi nella loro armata con il grado di Colonnello della Gendarmeria. Ma il fiero ribelle, restando coerente e fedele ai suoi principi, oppone un secco rifiuto.
Dopo un regolare processo, appena trentacinquenne, l’11 Novembre 1806, finisce sulla forca a Piazza Mercato, teatro ricorrente di storiche esecuzioni capitali. Furono tante le lacrime versate, più o meno segretamente, da quanti, cafoni o galantuomini, avevano conosciuto questo mitico “scorridore di campagna”.
Ma a piangerlo furono soprattutto le donne che ne avevano potuto apprezzare le grandi virtù di “amatore di montagna”.
Diavolo di un inafferrabile brigante. Diavolo di un irresistibile amante.

Fuschetiello
L’appellativo “Fuschetiello” affibbiato a Padre Raffaele Fusco, ha valore di vezzeggiativo più che di diminutivo come potrebbe a prima vista apparire.
Costui non era certo un mingherlino, piccolo di statura o di salute malferma.
Al contrario, era tarchiato, robusto e di forte tempra e aveva un carattere risoluto e battagliero, cavilloso ma amabile e gioviale.
Nato il 7 Aprile 1810 “fra le rocce di Furore”, in località Vigne (oggi Sant’Alfonso) da nobile famiglia fu chiamato ancora giovanissimo allo stato religioso.
Entrò a soli 16 anni e in coppia con il fratello Emmanuele nella Congregazione del Santissimo Redentore di Materdomini e fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1832.
Passarono appena 10 anni e "Fuschetiello" ne divenne Rettore.
Il suo sagace dinamismo lo spinse ad impegnarsi subito per restaurare il Collegio e la Chiesa, le cui fabbriche erano piuttosto logore e minacciavano il crollo.
Rifece i solai, rinforzò la facciata, la abbellì con archi di pietra viva e conferì in tal modo un aspetto architettonico più maestoso all’intero complesso, tanto da meritarsi l’appellativo di “Restauratore di Materdomini”.
Come spesso capita, la leggenda, impadronendosi di talune vicende e colorandone i contorni, ne ha fatto un personaggio da romanzo, ma al contempo, intorno alla sua figura di “benefattore dell’umanità” si scatenò una tempesta furiosa, nella quale i Carbonari locali coinvolsero finanche il Papa; nonostante tutto, il tempo fugò ombre e sospetti, e "Fuschetiello" ne uscì indenne e ancor più rafforzato.
L’irrefrenabile voglia di fare lo spinse ad avventurarsi nelle iniziative più disparate senza mai preoccuparsi troppo delle finanze perché "Fuschetiello" sapeva trovare il denaro e, quel che più conta, spenderlo per il bene comune.
Mostrò di essere aperto e generoso nell’offrire ospitalità ad amici e benefattori e nell’assicurare adeguata assistenza ai più deboli e bisognosi.
Uomo di Dio e modello di virtù, durante la carestia del 1844, fece grandi elemosine e non esitò ad attingere finanche ai beni di famiglia, diventando così popolarissimo.
Nel 1854 costruì nella sua Furore, d’intesa con il fratello Emmanuele, in prossimità della sua dimora familiare, una Cappella gentilizia, dedicata a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Sprezzante del pericolo, girò per paesi, città e campagne, attraversò a dorso d’asino gole e montagne in quei tempi infestate dai briganti, sempre con un archibugio a tracolla.
Eppure i suoi detrattori, sempre disposti a criminalizzarlo, non poterono mai provare che avesse sparato un solo colpo neanche per difendersi.
Travolto dalle leggi eversive, che nel 1866 chiusero i Conventi, "Fuschetiello" rientrò in famiglia ma non si rassegnò ad oziare.
Dopo soli 3 anni ritornò a Materdomini, dove inaugurò il suo secondo rettorato guadagnandosi altri meriti.
Il 22 novembre 1875, sempre con il fratello Emmanuele e attingendo ai beni di famiglia, comprò il derelitto Demanio di Lettere e lo restaurò in soli 3 anni, inaugurandolo il 15 dicembre 1878.
“La piccola città di Lettere, detta dai Latini Letterum o Lycterae, mi parve luogo molto adatto ad un Istituto-Convitto elementare e ginnasiale” dichiarò "Fuschetiello".
La scelta cadde sull’antico Seminario, restaurato dentro e fuori e trasformato in uno splendido edificio.
Un giardino contiguo apriva al passeggio, lunghi e larghi viali, sicché ai suddetti vantaggi si congiungevano quelli di una dimora comodissima.
Tale Istituto-Convitto, intitolato a Sant’Alfonso Maria de' Liguori, divenne ben presto un riferimento per l’intera Italia Meridionale e consentì la ripresa della vita Redentorista.
A causa di una scalfittura mal curata, degenerata in cancrena, "Fuschetiello" morì a Lettere il 20 novembre 1888, amorevolmente assistito da Padre Emmanuele e dai suoi confratelli.
Esumato dopo circa 2 anni, i suoi resti mortali furono trasferiti ad Agerola per essere definitivamente sepolti nella Chiesa di Tutti i Santi, sede della Confraternita del Santo Rosario, davanti all’altare della navata sinistra, come da sua volontà testamentaria, essendone egli stato Padre Spirituale dal 1866 al 1869, facendo spola fra Furore e Bomerano.

Meco del Sacco
Il 1300 vide il fiorire sui monti dell’Appennino Marchigiano e, in particolare nell’area del Piceno, di numerose sette ereticali: Spirituali, Fraticelli, Beguardi, Pinzocheri.
L’assenza del Papa dall’Italia, i dissidi fra la Chiesa e i Comuni, favorirono lo sviluppo di questo fenomeno che tanto ebbe ad incidere sulla vita religiosa di quel periodo.
In questo torbido “ambiente” s’inquadra la figura di Domenico Savi, detto Meco del Sacco, fondatore della setta dei Sacconi, le cui vicende sono intrise di mistero e di leggenda.
E’ fatta risalire al 1320 la nascita della setta sacconiana, che in pochi anni crebbe fino a contare oltre 10.000 adepti e fra essi “molti del clero e della nobiltà, dei cavalieri”.
Fra le posizioni ereticali dei Sacconi meritano di essere sottolineate: la limitazione del debito coniugale e la liceità del “tactus impudici” con l’impeccabilità in tresche notturne; in parole povere essi praticavano quello che si definisce “l’amore libero”, riunendosi, soprattutto di notte, in un Romitorio appositamente fatto costruire da Meco sul Monte Polesio, con annessa Chiesa dedicata all’Ascensione.
Far l’amore pregando e pregare facendo l’amore: era questa l’essenza dell’eresia sacconiana.
“Gli uomini e le donne che pregano di notte in comunità, all’oscuro, non commettono peccato, qualunque cosa facciano insieme” era il dogma di Meco e di Sora Clarella, sua consorte.
Presto fioccarono in Avignone, presso il trono di Papa Benedetto XII, i ricorsi della pia gente ascolana.
Così, nel 1338, il Pontefice spedì ad Ascoli, Fra’ Giovanni di Monte Leone, l’inquisitore della Marca, che, dopo un sommario processo, fece incarcerare l’Eresiarca, gli strappò di dosso l’abito bizzocale sacconiario e ordinò il diroccamento del Romitorio dell’Ascensione.
Pianse dirottamente il furbo Meco, non già le sue colpe, ma la demolizione del suo Postribolo, e fece pubbliche dichiarazioni di pentimento; convertì la sua Casa in un Ospedale per Infermi e qui, furbescamente, camuffò le sue tresche come opere di pietà.
A distanza di un solo anno Meco ottenne la facoltà di riedificare il diruto Romitorio e l’annesso tempio dell’Ascensione, per potersi ritirare solitario sulla cima del Monte Polesio “per fare penitenze”.
E così con più furbesca cautela i Sacconi poterono riprendere il loro credo ereticale.
Nel 1344, Clemente VI, Sommo Pontefice in Avignone, decise di estirpare definitivamente l’empio Sacconismo. L’allora Inquisitore della Marca, Fra’ Pietro della Penna, fece incarcerare l’Eresiarca Meco del Sacco ed emise la “sentenza di fuoco”, che fu eseguita nel 1345. Consegnato alla Curia Secolare, fatta l’abiura, Meco fu bruciato vivo in pubblica piazza “con tutti i suoi libracci” (solo o insieme a molti suoi seguaci, come sostenuto da alcuni).
Allora i Sacconi scampati alla terribile sentenza della Santa Inquisizione, e non disposti a rinunciare al loro movimento ereticale, scapparono dai Monti del Piceno in cerca di nuovi rifugi.
Lo storico riferisce che, un folto gruppo di Piceni scappò verso il Sud, riparando in Campania e trovando un sicuro nascondiglio negli anfratti boscosi dei Monti Lattari.
Ed ecco, forse, la spiegazione di quel Toponimo “'o Meco” ricorrente sulle montagne e in particolare a Furore, dove contraddistingue, da secoli, l’amena collina sottostante al Girone Santo Jaco.
E i Sacconi che danno il nome del loro Capo ai luoghi dove, in sua memoria, continuarono a praticare la loro eresia.
Sarebbe un’intrigante spiegazione della stessa origine del nome Terra Furoris (Terra del Furore ovvero FURia d’amORE).

Asceti ed Eremiti
Le balze tormentate e gli orridi anfratti della Terra del Furore sono stati sempre avvolti da un alone di mistero. 

Ne sono testimonianza eloquente i nomi di numerosi luoghi, che evocano da tempi, personaggi ed eventi mistici: Malo Passo, Punta Campana, Pedata, Vottara, Pizzocorvo, Scoglio del Sangue, sono i toponimi pervasi da significati arcani e riferimenti magici.
Questa rupe scoscesa e impervia, densa di gole e di caverne, venne scrutata con timorosa diffidenza dagli stessi incursori Saraceni, che nelle loro scorribande la evitarono, ritenendola abitata da streghe, demoni, spiriti maligni. 
Numerose e suggestive vicende aleggiano su queste rocce, tramandate oralmente dai “cunti” delle nonne nei lunghi conversari invernali accanto al camino. 
Nell’immaginario collettivo alimentato dalla narrazione, orchi e fate, regine e “munacielli”, diavoli e janare, fatti e misfatti, storia e leggenda si mescolano in un repertorio intriso di allegorie morali, di significati trascendenti, di vicissitudini quasi sempre liberatorie ma, a volte, anche terrificanti. 
La punizione ricorrente che vede il malcapitato di turno legato con gli arti a 2 robuste pertiche, prima piegate e poi liberate a squarciargli barbaramente il corpo. 
La memoria popolare, condita spesso da un pizzico di fantasia, ma pur sempre di grande suggestione e di singolare valore culturale ed etnografico, annovera, assieme alle figure di Mastu Grillo e di Madama Crapa, personaggi importanti quali il bandito Ruggeri di Agerola, menzionato da Boccaccio nella decima novella della quarta giornata del Decamerone, il missionario redentorista Raffaele Fusco, detto “Fuschetiello”, fondatore del Seminario di Lettere e del Santuario di Materdomini, appartenente ad una nobile famiglia, proprietaria della intera vallata di Sant’Alfonso e la cui antica dimora è stata di recente trasformata in uno splendido agriturismo
Poco più in là, in alto verso occidente, su un bastione di roccia, assediati dai frassini, si ergono, misteriosi e spettrali, i ruderi dell’Eremo di Santa Barbara. Questo insediamento rupestre ha alle spalle una caverna, che si allunga per qualche chilometro sotto il pianoro di Bomerano, con il quale, pare, fino a pochi decenni fa comunicasse, attraverso un inghiottitoio naturale, usato come passaggio segreto di banditi e di briganti
La grotta reca indelebile, il marchio dell’ignoto e anima, da sempre, congetture, illusioni e tensioni. 
I segni del cambiamento da un uso abitativo ad una funzione puramente devozionale e, in ultimo, sepolcrale, sono leggibili con una certa facilità negli scalini di accesso allo stanziamento-nascondiglio e nelle fabbriche semidirute della Chiesa, poste sul ciglio dell’abisso, precedute da un ampio cortile con sottostante cisterna. 
Nei dintorni piccole, preziose sorgive che hanno abbeverato per secoli e fino a pochi anni fa gli abitanti della zona e di cui oggi resta solo qualche incrostazione calcarea sulla parete nuda e qualche canaletta invasa dalle erbacce. 
Lo storico riferisce di un primitivo riparo sotto roccia, adattato, intorno all’anno 1000, ad Oratorio e Laura Cenobitica, con successive evoluzioni in muratura della Chiesa, sulle cui pareti resistono tracce di decorazioni: una di esse è un sole irradiante; nell’abside della navata centrale è dipinta un’ottocentesca Madonna con Bambino tra 2 monaci.
Spettacolari i resti della scalinata, che si stacca dal sentiero per Bomerano e si abbarbica al costone su robusti archi e arditi rampanti. 
Immediatamente al di sotto della Chiesa, a mezza rupe, un’altra grotta contiene resti di muri affrescati
Tutto è rovina intorno; abbandono, oblìo.
Ombre di asceti, di eremiti, ma anche di briganti e di banditi, sembrano rincorrersi in un’atmosfera mistica, o forse tragica, in cui il silenzio è totale, opprimente. 

COME RAGGIUNGERE Furore 

 In TRENO

La Stazione Ferroviaria più vicina si trova a Salerno (vai al sito di Trenitalia) poi Bus (vedi sotto)



In AUTOBUS

Dalla Stazione Ferroviaria di Salerno (vai al sito)




In AUTOMOBILE


Percorrere l'autostrada Napoli-Salerno, uscire al casello di Castellammare di Stabia ed immettersi su la Strada Statale per Pimonte-Agerola.
Una volta arrivati ad Agerola si raggiunge facilmente Furore.
Più difficile è il percorso lungo la Strada Statale Positano-Amalfi, infatti, una volta giunti al Fiordo, proseguendo in direzione di Amalfi, si ha la sensazione che il paese "non esista".
Per raggiungere Furore è necessario, al bivio di Pogerola, salire, abbandonando l'amalfitana, attraversare Vettica, Conca dei Marini e percorrere circa 8 chilometri prima di vedere le prime case del paese.



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