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Lettura del libro Il Bel Paese di Antonio Stoppani

Friuli Venezia Giulia: Trieste o cara

Scoprire Trieste
di Paolo Rumiz (da repubblica.it)


Sospesa tra due culture, stretta tra mare e monti, è particolarmente appetibile in autunno. Domenica c’è la Barcolana. Ecco un tour, con una guida d’eccezione.
Vivo la mia città da straniero. Come un sommergibile, ho miei percorsi sommersi; cerco anfratti per non esser visto. Osterie, penombre, fantasmi, angiporti, non locali griffati e talvolta nemmeno le piazze. Detesto le isole pedonali, decadute a spazio franco di sballo notturno. A volte spazzerei via tutti gli ostacoli che mi separano dal mare.


Via, via, una vela e via; una città da usare solo come imbarco. Perdonatemi dunque se non sarà uno struscio ma una ginkana il bighellonare che vi propongo in questo luogo-rifugio che Dio ha messo in fondo al Mediterraneo solo per rimescolarvi ogni tanto acqua e aria col suo mestolo terribile, la Bora. Trieste è una linea in bilico tra mare e montagna. Il suo incanto sta nel viverla come frontiera fra questi due mondi. Un rabbino gerosolimitano con la famiglia di queste parti, nell'allegria della festa del Purim in cui anche ubriacarsi è lecito, mi diede la più bella definizione della città.



 «Quando un triestin se senta in zima a un molo e el varda el tramonto con un fiasco in man, quela xe preghiera, granda e santissima preghiera». E aggiunse: «Se fai attenzione, in quei momenti il mare si increspa di piacere, l'erba del Carso diventa un velluto, le donne ti guardano con desiderio. E il padrone dell´universo, accarezzandosi la barba, ti dice: ragazzo mio, ancora una volta mi hai fregato». E sì. Ci sono delle sere, d'autunno specialmente, quando la brezza si sveglia, l'aria diventa vetro e i traghetti per Istanbul mollano gli ormeggi per passare davanti alle Alpi appena imbiancate, che ho davvero l'impressione che Dio abbia invidia di noi, bastardi sanguemisto appollaiati su questa favolosa scarpata tra i mondi.


Noi che, stando in cima a un molo, senza muoverci di un millimetro, possiamo vedere l'Europa e la Turchia, immaginare le isole di Ulisse e le birrerie di Praga dove Hrabal cercò i suoi personaggi, fiutare i bassifondi della grande Venezia e le steppe del mondo slavo sterminato. Quando un cancelliere bavarese atterrò col suo elicottero su uno di questi moli, disse «Unglaublich», e cioè «incredibile», perché incredibile era quella sintesi di mondi. Capita che, in una città fatta grande da greci, slavi, turchi ed ebrei, siano fatalmente i forestieri a vedere per primi la bellezza del luogo. Quando la regata d'autunno chiamata “Barcolana” crebbe al punto da diventare la più grande del Mediterraneo, gli illustri armatori delle vele d'altura restarono stupefatti dalla totale assenza di ostacoli fra mare e città.
La distanza fra un ormeggio e il Teatro Lirico era di cinquanta metri, quello tra la barca e l'osteria anche di trenta. E i triestini, specchiandosi nell'euforico stupore dei regatanti venuti da lontano, sembrarono quasi accorgersene per la prima volta.


In fondo a una via chiamata Giulia una signora adottò un cagnolino che rovistava nelle immondizie e dopo qualche mese risultò essere un lupo. Un capriolo sceso troppo in basso, spaventato dal traffico del mattino, non ebbe altra via di fuga che il tuffo in mare in pieno centro. Capita che gli orsi sloveni vengano a far merenda nei pollai dei dintorni. La zona industriale muore in canyon selvaggio di nome Rosandra, con strapiombi di sesto grado, che porta direttamente al confine che non c'è più. E lì la “no man's land” è segnata da un'osteria raggiungibile solo a piedi; un posto da guerra fredda ancora intatto, dove trent'anni fa i militi della defunta Jugoslavia sostavano per una bevuta fuori ordinanza con i finanzieri italiani.  


In principio è la Lanterna, il faro più nordico del selvaggio Adriatico d'oriente. Ha più di un secolo, un basamento da mastio medievale. L'hanno circondata di orride caserme della Finanza, ma se salite lassù per la scala a chiocciola, chiedendo il permesso alla Lega Navale che la abita come un paguro la sua conchiglia, godrete la più perfetta visione della città. Gabbiani, vento, i traghetti ro-ro, la foresta di alberature attorno agli yacht club, la stazione ferroviaria - chiusa - che portava a Vienna, l'andirivieni dei piloti, una nave da crociera ormeggiata accanto alla piazza dell'Unità. Adolescente, dormii lassù di contrabbando, per aspettare l'alba.
La spiaggia comunale detta “Pedocìn”: da un secolo uomini e donne vi son separati da un muro (e da barriera di galleggianti anche in acqua) non per puritanesimo retrogrado ma per emancipazione ante-litteram dei due sessi. Siamo strani; ruvidi montanari di mare, come i dalmati, i montenegrini, i greci. Abbiamo gli spazi di battigia “urbana” libera e pulita più estesi d'Italia, chilometri e chilometri di scogliera attrezzata a due passi dal centro; e la città resiste alle privatizzazioni o alle concessioni del demanio agli amici degli amici.


E' lì, a filo di mare, che si svela, col suo impianto solidamente austriaco. Vabbè, c'è il caffè San Marco, buio e rinomato luogo di scrittori. Ma io preferisco l'osteria Mariuccia in via Madonna del mare, o un piatto di sardoni impanati con “radicio e fasoi” alla locanda Il Salvagente gestito da moglie e marito. 


In trenta metri, all'Adriaco Yacht Club, sono davanti alle barche più vecchie del Mediterraneo, roba di un secolo e mezzo, ancora gloriosamente pronte a prendere il largo. Pochi anni fa, quando una regata di barche d'epoca fu sospesa dai giudici per troppo vento, vidi lo sponsor Carlo Sciarrelli (mitico progettista di prototipi in legno) cercar di convincere i partecipanti a gareggiare lo stesso, esibendo una mazzetta di bigliettoni per premio aggiuntivo al vincitore.  


Poi la chiesa greca affacciata sul mare. La magia dell'iconostasi, degli ori, gli incensi, il bordone dell'archimandrita, sono inviti cui è difficile resistere. Accanto c'è la chiesa dei serbi, sempre strapiena, sul canale che entra in città, e una birra bevuta lì accanto ti fa sentire insieme a Costantinopoli e a Pietroburgo.


Poi, se il porto vecchio non fosse blindato dalla Finanza, vi porterei a piedi fino a Barcola - il luogo del vento - nell'ora del tramonto. Un porticciolo, qualche pescatore, e da lì la lunga passeggiata fino a Miramare-castello e la sua stazione antica con annesso garage per la carrozza di Massimiliano d'Asburgo. Sopra, le vigne a terrazza di Contovello, collina da dove fino a ieri gli sloveni di casa nostra avvistavano i tonni. Montanari di mare anche loro.
"Ho attraversato tutta la città. Poi ho salita un'erta, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina, termini la città.


"Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all'ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa. Intorno circola ad ogni cosa un'aria strana, un'aria tormentosa, l'aria natia. La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva."
Umberto Saba dalla raccolta “Trieste e una donna” (1910-12)

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