Una galassia che crede nell'industria sostenibile, nell'hi-tech, nell'agricoltura di qualità, nell'artigianato, nel terziario avanzato, nelle grandi potenzialità del turismo, che sa valorizzare i prodotti locali, il patrimonio architettonico e paesaggistico, le tradizioni popolari e culinarie.
“Eroi del quotidiano" che con i corpi intermedi, le scuole, le società sportive, operano contro il grado sociale delle periferie, l'abbandono scolastico, la fuga dei giovani, il lento spopolamento di interi territori meridionali.
Il racconto di un viaggio metaforico e personale alla ricerca delle "eccellenze“, per riscoprire città e luoghi così diversi l'uno dall'altro, ma tutti accomunati da una grande voglia di riscatto e di speranza.
Per dar voce ad un "altro Sud", che non si arrende e scommette sul proprio futuro.
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Premessa
Ogni volta che mi capita di rivedere le immagini di "Viaggio nel Sud", la famosa inchiesta di Sergio Zavoli, andata in onda per cinque puntate da gennaio 1992 su Rai 1, mi chiedo se le condizioni economiche e sociali del Meridione siano migliorate o meno negli ultimi 30 anni.
In effetti, scorrendo i dati del reddito delle famiglie, o prendendo a riferimento le condizioni di vita, la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, il livello di istruzione, le infrastrutture, i servizi, le libertà civili, su ciascuno di questi fattori essenziali, rimangono ancora evidenti i ritardi storici del Mezzogiorno, non solo dal resto del Paese, ma soprattutto dall'Europa.
Per non parlare del clima di legalità e di ricatto malavitoso che nel Sud prolifica nel sottosviluppo e nella povertà, continuando a condizionare e controllare larghe fasce del territorio e dell'economia meridionale.
Negli ultimi vent'anni circa due milioni e mezzo di persone hanno lasciato le regioni meridionali, prevalentemente giovani e donne con alta scolarizzazione.
Nei prossimi 50 anni si stima che la popolazione meridionale passerà dagli attuali 19,8 milioni a circa 12 milioni, con una diminuzione del 40%.
Nelle otto regioni del Sud Italia ci saranno sempre meno bambini, sempre meno studenti, sempre meno uomini e donne che lavorano.
Intere città e straordinari borghi delle aree interne scompariranno.
Un'emigrazione di massa, simile a quella dei primi anni del secolo scorso, di cui si parla, purtroppo, ancora troppo poco.
Ascolta "Premessa de «L’altro Sud» di Salvo Guglielmino" su Spreaker.
La voglia di riscatto di Scampia
«Per Roberto, Patrizia e Margherita continueremo la battaglia».
Quella frase scritta con uno spray viola e nero sui muri sgretolati della vela Celeste appare come un triste monito.
Tra la gente di Scampia è ancora forte e palpabile il dolore, la rabbia, il senso di rassegnazione per il crollo di quel maledetto ballatoio, la sera del 22 luglio.
Tre morti, tredici feriti gravi, fra i quali sette bambini, ottocento famiglie sfollate, resta il bilancio triste di quella tragedia che si poteva e si doveva evitare.
L'ultimo colpo di coda del degrado sociale che per quarant’anni ha regnato in questo lembo di Sud che divora i suoi figli perché non riesce a proteggerli da un futuro di squallore e rovine.
Sono ferite profonde che non se ne vanno nemmeno con il tempo.
Perché non si può dare sempre la colpa alla fatalità se tanti nuclei familiari, tanti bambini e anziani vivono in condizioni disumane, gli edifici fatiscenti e in mezzo ai rifiuti, sotto gli occhi di chi avrebbe dovuto garantire loro un'esistenza dignitosa.
«Speriamo che la tragedia del 22 luglio serva per accelerare il processo di riqualificazione di questo quartiere e non a fare un passo indietro. Non bisogna spegnere la voglia di riscatto, il bisogno di scrivere una storia nuova a Scampia», sussurra, stringendomi forte la mano, Antonio Piccolo, 75 anni ben portati, ex dipendente dell'Enel in pensione, un uomo che trasmette subito valori positivi, con quel volto incorniciato da due grossi baffi bianchi che ricordano quelli di “Peppone” di Giovanni Guareschi.
Ascolta "La voglia di riscatto di Scampia da «L’altro Sud» di Salvo Guglielmino" su Spreaker.
Napule è mille culure
«C’aggia fà pe’ campà».
Non c'è una cosa che il napoletano non sia disposto a fare, se questa può offrire la possibilità di vivere.
Non c'è un momento che a Napoli non ci siano persone intente a sbarcare il lunario facendo i mestieri più disparati della stessa giornata: la mattina il carrozziere, nel pomeriggio il venditore ambulante, la notte il parcheggiatore.
La vita scorre come il ritmo impetuoso di centinaia di "rappers" che sono diventati ormai la colonna sonora di questa città, il simbolo di una rivoluzione musicale, adorati dal pubblico giovanile, come avveniva per i Beatles o i Rolling Stones negli anni settanta.
Luchè, Clementino, Rocco Hunt, Paki, Liberato, sono alcuni di questi giovani artisti nati a Secondigliano, a Monterosa, a Piscinola.
Il loro urban-rap ha la forza del dialetto che sembra fatto su misura per parlare di rabbia, riscatto, denuncia, amore per la propria terra.
Un fenomeno sociale che ora è studiato persino nelle aule universitarie. per conoscere i mille volti di Napoli, insomma, non basta leggere Matilde Serao, Elena Ferrante o ripassare le commedie del grande Edoardo: bisogna parlare con i napoletani, assaporare docilmente il loro modo di comunicare, la generosità, invadenza, la saggezza.
Anche quando i napoletani dicono «Accirete», potrebbe sembrare una provocazione ma in effetti è una battuta usata tra amici per dire, siccome sei un incapace, un essere inutile, perché non ti fai da parte?
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Il miracolo del Rione Sanità
«Come si fa la crescita di un territorio? Noi pensiamo, diversamente da qualcuno, che si debba utilizzare qualsiasi mezzo per arrivare al fine».
Così ripeteva spesso Don Antonio Loffredo che per vent'anni è stato il "faro" del Rione Sanità, uno dei quartieri più antichi e affascinanti di Napoli.
Da due anni ha lasciato la sua parrocchia di Santa Maria alla Sanità.
Ma è stato lui, questo prete di strada visionario, con la creatività dello scugnizzo e con un passato da ragazzo ribelle, che insieme a tanti giovani di questa zona, difficile e complicata, caratterizzata da degrado, spaccio, criminalità e marginalità, ha fatto nascere dal nulla una delle esperienze più innovative in Italia partendo dalla riqualificazione di un bene abbandonato: le Catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso.
Le sue armi sono state la cultura e il lavoro.
Anche questa è una storia emblematica di un altro Sud che avanza tra ribellione, speranza, opportunità.
Fino al 2008 il Rione Sanità veniva evitato persino dai napoletani.
Era un quartiere dove vivevano circa 80.000 persone senza un cinema, una palestra, un luogo di aggregazione sociale.
Quando don Antonio è arrivato qui dieci chiese erano tutte chiuse, abbandonate a se stesse.
Oggi le luci sono accese anche fino a notte inoltrata.
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Gino Sorbillo e la pizza contro i soprusi
«La pizza è la mia vita. Il mio alimento quotidiano, la mia professione, e la storia sin dalla primissima infanzia».
Se c'è un uomo che ben rappresenta in maniera emblematica la voglia di cambiare, del fare dei napoletani, quest'uomo è sicuramente Gino Sorbillo.
La sua è davvero una storia di amore per Napoli, di innovazione, passione e anche di riscatto sociale.
Sorbillo è stato il personaggio della svolta per la pizza napoletana che ha ridato orgoglio anche con un modo di comunicare moderno e molto efficace, ha un mestiere che sino a quindici anni fa nessuno considerava così importante.
Non è facile incontrarlo, perché tante sono le attività imprenditoriali che Gino porta avanti ormai da anni in Italia e nel mondo, viaggiando da Londra a New York, da Tokyo a Milano.
Ma il suo cuore è rimasto a via dei Tribunali, dove i suoi nonni avevano aperto una piccola pizzeria nel 1935.
«La pizza è la metafora di questa città, una spinta per la nostra economia. Per questo ho sempre puntato sulla internazionalizzazione del prodotto. Anche attraverso la mia presenza in televisione ho sempre cercato di portare gente a Napoli, con l'obiettivo di cambiare la mentalità delle persone. Solo così si poteva allontanare, come di fatto è accaduto, il malaffare», mi racconta con le sue mani affusolate e nervose poggiate sul tavolo, con gli occhiali neri che incorniciano il viso smunto e coprono le occhiaie di chi nella vita ha sempre lottato, fin da ragazzo, quando i quartieri spagnoli di Napoli erano sinonimo di degrado e delinquenza.
«Quannu nun tieni chiù nienti in tasca, vuol dire che sei arrivato a Forcella».
Era il vecchio motto che veniva ripetuto al turista che si avventurava in quella zona. Oggi, in qualsiasi ora del giorno e della notte, i quartieri spagnoli sono pieni di visitatori.
È diventato un luogo vitale, caotico, un dedalo di vicoli e gradoni affollati di turisti che vagano in mezzo a palazzi e chiese straordinarie di un colore grigio tenue che incutono timore, tra edifici che si accavallano e si stratificano tra loro avvolte talvolta da poco alla luce.
La pianura bianca di Nola
Quando sono arrivato al Cis di Nola devo ammettere che ho avuto la sensazione di non trovarmi in Campania, ma di essere catapultato in una dimensione globale, come se fossi arrivato in una grande area industriale della Val Padana o della Vestfalia.
È davvero impressionante la distesa sconfinata di capannoni aziendali, di container, di parcheggi, disseminati in questo immenso centro per la vendita all'ingrosso di 3 milioni di metri quadrati di cui 550.000 coperti.
Una pianura bianca e grigia di costruzioni rettangolari, intervallata da piccoli prati verdi, senza soluzione di continuità.
È il più importante polo di distribuzione commerciale d'Europa.
Una vera e propria città del commercio a 30 km da Napoli.
Nola è famosa non solo per aver dato i natali al filosofo Giordano Bruno o per la suggestiva festa dei “gigli".
In questa località campana, ci fu una delle peggiori stragi compiute dai nazisti nel settembre del 1943.
Diciotto italiani ammazzati, tra cui dieci ufficiali che si erano rifiutati di consegnare le proprie armi ai tedeschi.
Un passato eroico di cui pochi sanno appunto, così come pochi sanno che al Cis di Nola ci sono 450 aziende che danno lavoro a circa 3.500 persone, con l'aggiunta di una serie di servizi, dove si lavora 24 ore al giorno con un'attenzione particolare alla sicurezza e alla legalità.
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Donna, madre, imprenditrice, femminista
«Nella mia azienda io mi batto contro la violenza nei luoghi di lavoro che è cosa diversa dal femminicidio».
Conversando una mattina amabilmente con Stefania Brancaccio ho capito che il mezzogiorno dovrebbe puntare molto di più sulle donne se si vogliono colmare divari sociali, economici ma soprattutto culturali con le grandi aree del Nord.
Siamo ad Acerra, a 15 km da Napoli, in una zona tristemente nota come «Terra dei fuochi».
Trent’anni almeno di roghi e sversamenti tossici provenienti principalmente dalle regioni industrializzate del Nord che hanno determinato in questo territorio un danno reale e grave agli esseri umani.
Parliamo di milioni tonnellate di rifiuti pericolosi e non finiti sotto terra, smaltiti dalla camorra nei "Regi Lagni", ceduti a terzi come è fertilizzanti e composti. Migliaia di bambini e persone di tutte le età si sono ammalati di cancro al fegato, ai polmoni, alla vescica in questo triangolo della morte, che ha le sue tre punte nella città di Nola, Marigliano e Acerra. Una tragedia tuttora senza colpevoli.
Eppure in questa vasta area pianeggiante dell'entroterra napoletano sono nate negli ultimi trent’anni alcune imprese sostenibili che monitorano le emissioni, sono attente al tema ambientale e soprattutto danno lavoro a centinaia di persone, come accade nei tre stabilimenti industriali della Coelmo, l'azienda metalmeccanica di cui una donna, Stefania Brancaccio, e da tanti anni vicepresidente.
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Il Fùcino terra di patate, carote e centri spaziali
«La terra d'Abruzzo è rossa. un rosso che affiora tra le radici degli ulivi, sotto la pelle grigia delle montagne nude», scriveva Giovanni Russo, forse l'ultimo autentico meridionalista del Novecento nel suo splendido libro “Baroni e Contadini”.
Me lo presentò una volta Duccio Trombadori, di cui Russo fu vulcanico e sincero amico.
Nel solco di illustri meridionalisti come Giustino Fortunato, Guido Dorso e Gaetano Salvemini, Giovanni Russo, salernitano cresciuto a Potenza, conosceva bene anche l'Abruzzo, questa regione, a metà strada tra centro Italia e Sud, nota per i suoi accaniti campanilismi e per il risorto binomio con la terra Molisana, tanto che nella costituzione del 1948 si prevedeva l'istituzione di "Abruzzi e Molise", come se l'epoca angioina non fosse mai finita, con il fine naturale tra Abruzzo Ulteriore, Abruzzo Citeriore e Molise segnato dal corso del fiume Aterno-Pescara.
È vero, la stessa cosa potrebbe dirsi del Trentino-Alto Adige, del Friuli Venezia Giulia, dell'Emilia-Romagna, ma l'Abruzzo, di tutte queste regioni, e quella che conserva le più nette differenze, etniche, sociali e soprattutto nel carattere della sua gente.
Più introverso, testardo e schivo l'entroterra, con le sue vette appenniniche inespugnabili, i parchi naturalistici e gli antichi borghi di origine medievale.
Più aperta, solare e quasi "zingaresca" la costa, con le sue località ospitali e le spiagge ordinate.
Le campane di Agnone e i borghi incontaminati del Molise
Fuoco, rame, Venezia, campane, chiese.
Quando sono approdato una domenica di giugno ad Agnone, nell'alto Molise, mi sono chiesto come sia stato possibile conciliare questi elementi così eterogenei in questa cittadina linda e ospitale, fondata circa duemila anni fa da alcuni condottieri scampati alla strage da parte dei legioni romane dell'Aquilonia Sannitica.
Ma in realtà, la vera svolta nella storia di questo borgo, oggi dall'aspetto tipicamente medievale, collocato tra la Valle del Sangro e quella del Trigno, circondato da una chiostra di monti imponenti al confine con l'Abruzzo, avvenne undici secoli dopo, quando alcune famiglie veneziane, guidate dai Conti Borrello di Pietrabbondante, capitani di ventura di Venezia, si insediarono nella città iniziando a lavorare l'oro, il rame e il ferro.
Da quel momento Agnone diventò uno dei centri più importanti per l'arte orafa, le tine di rame, le caldaie, i mastelli in ferro battuto e, successivamente, per le campane che la Pontificia Fonderia Marinelli da più di mille anni realizza per le chiese di tutto il mondo.
Eccola, dunque, Agnone, con le sue tipiche "calle“, i vicoli segreti, le piazze silenziose, le botteghe artigiane sempre aperte, i palazzi con i balconi finemente decorati, tante chiese antiche e pregiate come quella di San Marco edificata nel 1144, austera e mistica, con i suoi altari barocchi e le statue in legno del XV e XVI secolo.
Una perla di questa piccola città d'arte che vista dall'alto, come tetti rossi delle case, sembra un quartiere di Venezia appollaiato su una prua rocciosa.
Una città forte delle sue tradizioni.
Il racconto del mio viaggio in Molise parte proprio da questa piccola città in provincia di Isernia, sulle orme di Francesco Jovine, giornalista e scrittore, nato in Molise da una famiglia di contadini che di questa terra di mezzo fu straordinario e realista cantore.
"U bredette" di Termoli e l'attesa per la Gigafactory
Una fuga collettiva. Inesorabile. Negli ultimi quarant’anni sono tanti i giovani che hanno lasciato silenziosamente il Molise unendosi alle centinaia di migliaia di molisani che da oltre un secolo fece lo stesso percorso.
Intere comunità non esistono più. Scomparsi nel silenzio e nell'indifferenza collettiva.
Ma ci sono per fortuna anche i molisani che sono rimasti, che lottano ogni giorno per costruire un futuro migliore per questa terra nobile, preziosa e spesso sconosciuta: sono impiegati, operai, piccoli imprenditori, allevatori, commercianti, artigiani, pescatori, piccole imprese turistiche che continuano a credere nell'enogastronomia e nelle potenzialità di questo territorio che regala emozioni autentiche, a partire dalle alte montagne delle Mainarde o del Matese, lungo i tratturi della transumanza, fino alla costa con il suo mare azzurro.
Tutto questo nonostante l'inadeguatezza delle infrastrutture ferroviarie, stradale, digitali e l'insufficienza di altri servizi sociali, a partire dalla sanità pubblica.
Pasta, Tintilia, tartufo, olio, latticini, miele: sono i prodotti di punta di questa piccola regione del Sud che si sono fatti apprezzare anche all'estero.
Creatività, arte culinaria, pasticcerie e prodotti locali sono sempre andati a braccetto qui in Molise, dove, c'è da dire, l'agricoltura costituisce ancora l'asse portante dell'economia, forse, con un eccessiva frammentazione delle aziende e le ben note difficoltà di irrigazione.
Ma oggi la speranza si chiama "Gigafactory", la realizzazione qui in Molise di un grande stabilimento con la produzione di batterie per le auto elettriche.
Un investimento che era stato in parte finanziato dall'Unione Europea con le risorse del Pnrr per la transizione ecologica, per favorire il passaggio dalle auto a combustione a quelle a motore elettrico.
Ma a giugno del 2024 Stellantis a posto e stand-by l'idea della Gigafactory a causa del rallentamento dello sviluppo delle auto elettriche nel mercato europeo.
Bisognerà aspettare l'arrivo delle nuove tecnologie in grado di abbassare i costi delle celle, ma di conseguenza il governo italiano ha spostato altrove il finanziamento pubblico di 400 milioni di euro.
Il pane di Altamura e la Puglia virtuosa
«Se Parigi avésse lu màre, fosse na piccola Bbàre».
È una battuta popolare che ha sempre dimostrato l'amore dei baresi per la propria città, la genialità, la voglia di riscatto di una regione del Sud operosa, ponte tra Occidente e Oriente.
Nessuno ha mai compreso il segreto di questo innato spirito di intraprendenza che caratterizza il popolo che abita la Puglia o delle "Puglie", come richiama ancora qualche visitatore, smarrito e stanco per i chilometri percorsi lungo la costa e forse per le tante diversità esistenti, dei dialetti, nel paesaggio, degli stili architettonici, nelle tradizioni popolari, nell'economia di questa lunga striscia di terra a cavallo tra due mari.
«La Puglia è un continente», ha scritto Raffaele Nigro, lo scrittore lucano che, forse meglio di altri, ha raccontato con le sue metafore e la sua ricerca etno-antropologica, i vizi e le virtù di questa terra a più facce.
A nord, il Gargano austero e selvaggio, con le scogliere mozzafiato di Vieste, le praterie ittiche di Lesina e Varano, le tante aziende di allevamenti di pesci offshore e di ostriche pregiatissime, con il Parco Nazionale, in cui si staglia sontuoso il carico emozionale, gravido di misticismo, legato al pellegrinaggio al santuario di San Giovanni Rotondo.
Poi ti sposti un poco più avanti e incontri l'inossidabile Foggia, snobbata ingiustamente dal turismo di massa, con la sua antica cattedrale, il Borgo Croci, le tante aziende di frumento giallo del tavoliere e le culture di pomodoro "lungo" Dop della Capitanata, quello che qualcuno chiama l'oro rosso pugliese e subito dopo, ecco l'immensa Bari, con il suo porto maestoso e la lunga tradizione mercantile, la splendida basilica di San Nicola, il centro storico di Bari Vecchia sempre affollato di turisti, il lungomare, il Castello Normanno, il distretto innovativo dell'informatica e dell'hi-tech, i poli formativi di eccellenza come il Politecnico e l'Università, le multinazionali, la storica Fiera del Levante e su tutto le orecchiette di Nunzia La Pastaia, oggi ambasciatrice di Bari nel mondo.
All'estremo Sud ti imbatti nell'interminabile Salento, la «terra circondata dal mare», con le sue province di Brindisi, Lecce e Taranto, il Borgo Egnazia, rifugio di capi di stato e di vip, la Valle d'Itria disseminata di Trulli trasformati in alcove lussuose, le "sagre te lo purpu”, la “pizzica", le spiagge bianche dove ininterrotta è la movida dei giovani, le distese di viti infinite, il profumo di cappero selvaggio della costa, gli ulivi generosi pur se flagellati in questi anni dalla sciagura agricola del secolo, la Xylella e la sua inseparabile, fastidiosa, Sputacchina.
E infine nelle "Terre di mezzo", ecco stagliarsi Altamura, circondata da una distesa immensa di campi di grano duro e di pascoli che in estate brillano del colore del sole, la culla del comparto cerealicolo e dell'industria molitoria del nostro paese.
Ha un profumo quasi inebriante che si inizia a sentire già per strada, il pane Dop di Altamura appena sfornato.
Viene cotto come si faceva duecento anni fa nei forni di pietra di questa città pugliese, usando solo legna di quercia, seguendo le indicazioni di un'antica ricetta, sapientemente protetta dagli artigiani di questa città, capitale della Murgia, mescolando la semola rimacinata di grano duro locale con acqua e lievito madre.
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33 - Eleonora, mamma coraggio. In memoria di Giulia
L’AUTORE
Salvo Guglielmino, giornalista siciliano, vive a Roma dove lavora da tanti anni come responsabile nazionale dell'informazione della CISL.
Nel 2020 con Rubbettino ha pubblicato "Microcosmo Sicilia".
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